I giovani hanno più RAM
Ho la fortuna di lavorare in una scuola, cioè di stare in uno dei posti che amo e idealizzo di più: mi emozionano la possibilità di studiare come si può favorire l’apprendimento umano, la prospettiva di seguire a una certa distanza lo sviluppo di alcune persone giovani durante anni fatidici per le loro scelte, l’idea che un gruppo di esseri umani formato più o meno arbitrariamente possa muoversi di tanto in tanto come uno stormo (e fare di questa esperienza una ragione in più di formazione).
C’è una cosa però che non mi aspettavo e che di anno in anno avverto più nitidamente: la scuola, di qualunque ordine di scuola si tratti, imprime un pattern particolare al tuo senso del tempo.
Le maestre della scuola primaria organizzano il tempo della loro vita in un sistema mentale a base cinque, chi insegna alle medie va forte col numero tre, alle scuole superiori è più vario (probabilmente dipende dalle materie che insegni). Non è che uno lo faccia apposta: capita, il ritmo delle annate che segui a scuola ti entra nel cervello e diventa il tuo metronomo interiore. Ogni tanto alzi la testa e ti rendi conto che dalla laurea di Tizio sono passate tre estati, o che Caio si trova già alla fine del secondo anno, che ti sei operato di appendicite laureando la classe di X, o che sei tornato single mentre insegnava ancora Y. Non è un pensiero ossessivo o continuativo, ma esiste, perché questa segnaletica di nomi e volti dovuta al susseguirsi delle classi diventa con il passare degli anni anche una specie di segnaposto della vita privata di chi lavora in una scuola. Misuri il tuo tempo così, e non so dire se sia poetico oppure inquietante.
È un destino particolare frequentare tutti i giorni o quasi un gruppo di persone per due, tre o per cinque anni e poi doverle salutare di colpo. Se si è vagamente nostalgici è faticoso venire a patti con l’idea che ogni anno decine di sconosciuti entreranno nella tua vita e ne usciranno altrettanti (in maniera più o meno definitiva). Ma non è l’unica anomalia temporale di chi insegna o sta a mollo nella scuola.
Un’altra anomalia anche più notevole ha a che vedere col fatto che tu invecchi, mentre le persone che frequenti sono sempre giovani tra loro allo stesso modo e sono di conseguenza sempre più giovani rispetto a te. Questo a molti potrebbe sembrare una specie di incubo, ma è anche un’occasione del tutto preziosa per farsi alcune domande.
Spesso, infatti, le persone che lavorano a scuola sono quelle giuste dalle quali andare se si vuole capire qualcosa dello spirito del tempo. Non tutte le annate di nuovi studenti sono uguali, è ovvio, anzi nessuna lo è. Ma chi sta lì a contatto con quel fiume pieno di persone che vengono in larga misura dal futuro non può fare a meno di notare che di tanto in tanto il corso d’acqua si allarga fino a raggiungere la forma duratura di un lago oppure corre in picchiata finendo a strapiombo in una cascata. Intendo dire che certi anni capita qualcosa e si intravede un cambiamento significativo rispetto agli allievi del passato, un passato che può risalire anche semplicemente a un’estate fa.
Ipotizzo che questo cambiamento significativo sia quello che ci fa usare la parola “generazione” per dire che ne è arrivata una nuova, che bisogna cambiare metodo per insegnare qualcosa, che dobbiamo capire come funziona, e che tutta questa rivoluzione è avvenuta appunto nello spazio di un’estate.
Per fare un esempio, quando ho iniziato a lavorare con più continuità in una scuola, più precisamente in un corso di laurea triennale, le ragazze e i ragazzi che arrivavano appartenevano alla mia stessa generazione (anno di nascita 1989, età 35 anni). Ora no, se ne sono susseguite almeno due, eppure dall’inizio del mio incarico sono passati soltanto quattro anni. Quindi, a maggior ragione, sarebbe interessante avere il tempo per andare a ritroso e mettersi a ipotizzare quale evento o quale insieme di eventi hanno fatto sì che la nuova generazione assumesse alcuni tratti che una persona nata sei mesi o due anni prima proprio non aveva, e che per questo: “apparteneva a un’altra generazione”.
Per completezza va detto pure che il passaggio lineare da una generazione all’altra è una semplificazione, nella realtà non è così. Ogni annata è un ecosistema unico in cui convivono quotidianamente specie che provengono da generazioni diverse. Però spesso accade che ce ne sia una prevalente, e il fenomeno si rende evidente soprattutto quando quella che prevale porta alla luce un tratto del tutto nuovo.
Questa lunga premessa era necessaria per dire che la mia esperienza dello spirito del tempo è molto condizionata dal fatto di frequentare giovani sempre più giovani, e al tempo stesso che la categoria dei “giovani” mi pare scivolosa. Dell’ultima annata di studenti, cioè, fanno parte giovani di una generazione diversa dalla mia e giovani che invece possono essere tranquillamente ascritti alla generazione dei miei genitori se non dei miei nonni, per gli atteggiamenti e i desideri che hanno, per il modo in cui ragionano, per i valori che hanno interiorizzato chiamandoli peraltro così, “valori”, parola che farebbe corrugare la fronte ai loro compagni provenienti da un futuro più estremo, i giovani più giovani.
Che dire dell’ultima generazione, almeno da quel particolare osservatorio che è la scuola, specialmente i primi tre anni dell’università? Ricorrono delle parole variamente argomentate e documentate, spesso non del tutto serene: vulnerabilità, sensibilità, paure, ansia, distrazione, soglia di attenzione bassa, ignoranza.
Dal mio limitato osservatorio c’è solo un dato di fatto. I giovani più giovani di oggi sono creature più complesse degli adulti. Sono creature più complesse per una causa ambientale. Lo sono perché sono creature abituate a percepire il mondo come una selva di libere scelte che andranno a determinare in maniera duratura la loro identità e il loro destino. Queste scelte riguardano ambiti in cui la libertà di scelta era del tutto impensabile fino a qualche decennio fa: cosa studiare, come mangiare, a quale genere appartenere, quale condotta ambientale avere, spesso in quale città o in quale stato vivere, quale lingua parlare, a quale famiglia partecipare, come trattare il proprio corpo, quale tipo di vita virtuale condurre, quali discriminazioni evitare. A queste scelte enormi e nuovissime si aggiungono quelle che la mia generazione di adulta ha conosciuto: che lavoro fare, che cosa votare, chi amare, quale dio venerare o deplorare.
Paride ci ha messo relativamente poco a scegliere tra Era, Atena e Afrodite, ma per quanto fossero divinità e la posta in gioco fosse molto alta, le opzioni erano solo tre, e già così la sua vita è stata un disastro. Vorrei vedere se le dee in questione fossero state venti o trenta... Scegliere è difficile.
L’ansia, la disattenzione, la paura sono sentimenti compresi nella fenomenologia di una scelta difficile vissuta a qualsiasi età. La mia impressione è che noi adulti sul volto dei giovani più giovani vediamo soprattutto lo specchio di questa situazione, lo stato d’animo che ha chi deve compiere molte scelte alla volta con un numero elevatissimo di variabili da considerare. Solo in minima parte si tratta di scelte relative ad ambiti del reale che la loro generazione ha lottato in prima linea per allargare o per rifondare, spesso sono strascichi di rivendicazioni fatte da chi li ha preceduti: si può prendere la possibilità di divorziare per esempio, sacrosanta per quanto mi riguarda, ma è una possibilità che semplicemente prima non c’era. Ed era una cosa in meno a cui pensare, una cosa in meno da scegliere.
Spesso come didatti o insegnanti, per aiutare la giovane creatura complessa presa da un’ansia o da una vulnerabilità che spesso non siamo in grado di interpretare lucidamente, viene da fare un’operazione che a mio avviso è sbagliata: viene da far finta che a scuola la contemporaneità non sia entrata, da simulare le condizioni di un mondo che non esiste più, dove non è vero che puoi trovare in pochi secondi tutto Cicerone già ben tradotto nella tua lingua, dove esistono solo i maschi e le femmine, dove i cellulari non sono arrivati e non vibrano in ogni tasca. Anche se spesso la ragione dietro questa forzatura didattica è buona, credo che il risultato sia diseducativo, perché è ipocrita: nasconde la verità di un mondo che è più forte di qualsiasi spazio protetto o anacronistico si possa creare al prezzo di un grande sforzo.
A volte gli adulti semplicemente non possono capire perché non hanno vissuto niente di simile, perché non sanno che cosa vuol dire vedere in tempo reale il tradimento da parte di una persona che si amava su un video postato su Instagram, o che significa dover applicare la propria volontà su uno studio mnemonico e silenzioso se il mondo urla da tutte le parti sullo schermo che indossi.
Forse ogni generazione non è altro che il risultato dell’invenzione di un campo di libertà nuovo.
Ogni volta che strappiamo un pezzo di mistero dal mondo, un pezzo di autorità o di sacralità, ogni volta che ce ne appropriamo, dopo ci dobbiamo fare carico della scelta. E finirà che saranno affari nostri. Il che è sublime, cioè meraviglioso e terribile insieme. È il progresso a essere sublime.
Forse i giovani più giovani sono più sensibili e più individualisti al tempo stesso. E questo non è altro che un ritratto del mondo in cui viviamo, perché anche se siamo sempre più in grado di vedere che cosa limita la nostra possibilità di scelta e quella degli altri, se siamo sempre più attenti a tutelare la complessità del sistema, poi ci scontriamo con il fatto che il centro del nostro mondo siamo noi e ancora non abbiamo inventato un buon modo per evitarlo. Ci sono sempre più ambiti di libertà e un desiderio sempre maggiore di essere liberi insieme, non più singolarmente. Ma fin lì non siamo ancora arrivati.
Frequentando in gran numero i giovani più giovani, io credo, si sviluppa una grande fiducia nel destino collettivo. Quello che va perso si è solamente spostato da un’altra parte: non ha molto senso conoscere a memoria Leopardi se puoi avercelo in tasca. L’intelligenza in circolo, la velocità, però, la disponibilità a cambiare sono di molto maggiori rispetto alla generazione degli adulti. I giovani sono più intelligenti degli adulti. Hanno più RAM. Hanno più pixel. Hanno un software ben più sviluppato che non appena viene informato da una passione o da uno scopo può recuperare in poco tempo il materiale che un tempo ci sarebbe voluta una vita intera per reperire.
Poi i giovani, per loro fortuna, sono relativi. Tra poco saranno adulti e staranno più di qua che di là.
Lo dice anche Georgi Gospodinov in uno splendido racconto, Le aporie dell’età:
“– In altre parole, noi, che ora in questo lasso di tempo abitiamo la Terra e siamo quelli attualmente vivi, se mi permetti di introdurre questo concetto, siamo i più giovani abitanti del mondo, preso nella sua diacronia storica. – Sì, sembra proprio così. – Allo stesso tempo, visto di nuovo dal punto di vista storico, io ho più anni di quanti ne abbiano i miei antenati, perché ho aggiunto i loro anni ai miei. Il bambino che nasce ora è più vecchio di Socrate. Mia figlia è più grande di me perché monta sulle spalle dei miei anni”.
In copertina, opera di Larry Madrigal.
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