ADI: il design nel Paese delle Meraviglie

13 Luglio 2023

La mostra ITALY: A New Collective Landscape si trova a Milano, a due passi dal Cimitero Monumentale, in Piazza del Compasso d’Oro – lo stesso nome del più importante premio italiano per il disegno industriale, assegnato all’incirca ogni due anni dal 1954 a oggi. L’edificio che ospita l’esposizione, l’ADI Design Museum, all’esterno si presenta come una alta casa vetrata, ma entrando assomiglia di più a un’arca scintillante, dove la pulizia e l’armonia contemporanea degli allestimenti sono fatte anche per valorizzare l’aria storica del luogo, che un tempo è stato un deposito di tram a cavallo e dopo è diventato un impianto di distribuzione dell’energia elettrica. Adesso su tutto questo passato cala un mantello prevalentemente bianco e tantissima luce dal soffitto vetrato.

Lo spazio è organizzato in tre maniche parallele: sulla destra l’inizio dell’esposizione permanente e la nuova mostra; al centro uno spazio di decompressione con il bar e il bookshop, un lungo divano mutaforma per riposarsi, una piccola poetica mostra temporanea targata Ugo La Pietra, un centro per il restauro degli oggetti di design e un’aula sfavillante dedicata ai laboratori per bambini; sulla sinistra la mostra permanente continua e, prima dell’uscita, c’è una collezione di poster realizzati da illustratori italiani per celebrare ciascuno dei vincitori e delle vincitrici del premio del Compasso d’oro alla Carriera – se ne può scegliere uno e portarlo a casa per ricordo.

Se si riavvolge il nastro e si ricomincia da capo, andando con ordine fintanto che è possibile, all’ingresso della mostra l’alto salone bianco è spezzato dai grigi e dai gialli delle grandi scatole a parete che ospitano la collezione permanente, cioè una sfilata di tutti gli oggetti di design che hanno vinto il premio del Compasso d’oro, sempre rinnovata grazie ad approfondimenti variabili che fanno esplodere e approfondiscono una delle idee vincitrici per ciascuna annata.

La mostra dedicata ai giovani designer italiani è collocata nel grembo di questa cornice maggiore, perciò assomiglia a un’isola colorata, piazzata al centro del mare. La vocazione di isola produce due effetti immediati. Il primo è che il passato circostante si configura come un orizzonte: se guardi oltre puoi cercare di punti di riferimento, ma se sei un osservatore frettoloso o inesperto non li troverai, e questo non sarà di nessun ostacolo alla fruizione della mostra ma ti lascerà con la piacevole impressione di profondità che dà ogni prospettiva. Il secondo effetto della mostra-isola è che spinge l’osservatore a camminarla ed esplorarla, proprio come si fa con un territorio ignoto che, però, possiamo quasi abbracciare interamente con lo sguardo e che per questo ci appare insieme pieno di tesori e alla nostra portata. I tesori in questione sono di certo i cento progetti di design della collezione, che a loro volta vengono da una selezione di 374 candidature. Il desiderio alla base di questa pesca è stato semplice: rappresentare e dare visibilità al panorama dei giovani del design italiano.

La stessa cosa era stata fatta nel 1972 al MoMA di New York da Emilio Ambasz con la celebre “Italy: The New Domestic Landscape”, una esposizione memorabile di talenti che in breve tempo sarebbero stati conosciuti e apprezzati da tutta la comunità internazionale. Non è però il caso in cui la citazione è un ninnolo, viceversa il rimando a quell’epoca d’oro funge da allargamento ulteriore del paesaggio e della prospettiva in un mare ancora maggiore, oceanico, che è quello del tempo e del senso.

Che cos’è cambiato? A segnare la mutazione delle acque è certamente l’aggettivo Collective, dove prima sorgeva Domestic. Scrive nel testo introduttivo del catalogo la curatrice Angela Rui: “nel caso della mia generazione e di quelle che ci precedono era piuttosto comune fare propria la separazione tra uomo e natura, tra natura e cultura. Ma è un pensiero che ha una propria origine e non viene da così lontano se si pensa che la storia contemporanea ha poco più di due secoli”. Si può in effetti dire che la mostra sia profondamente rispettosa della giovane idea che lo spazio tra i soggetti e gli oggetti debba rimanere aperto perché non è caratterizzato da nessun perimetro stabile, da nessuna chiusura stagna, quella tra soggetti e oggetti è piuttosto una semplificazione immaginaria: i due in realtà sfumano l’uno nell’altro.

Ho detto sopra che sarei andata in ordine fintanto che fosse stato possibile proprio perché, nonostante la struttura concettuale della mostra, visitandola si ha l’impressione piacevole che ogni scavalcamento, ogni ritorno sui propri passi, ogni divagazione sia non solo lecita, ma persino incoraggiata. La mostra-isola è l’amalgama di tre stanze mentali – la prima è dedicata al Design Sistemico, la seconda al Design Relazionale, la terza al Design Rigenerativo. Al centro poi, tre giocose scritte al neon organizzano il possibile nelle tre azioni di Play, Read, Watch: un invito diffuso ad abitare gli oggetti e a toccarli, a sfogliare i libri salendo senza scarpe su un morbido tappeto grigio, a guardare le videoinstallazioni, a perdersi tra i giochi ridisegnati per sognare forme e ambizioni nuove.

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Senza pareti e senza contorni, queste segnaletiche isolane suggeriscono solo una stratificazione di identità e di letture, e intanto lasciano liberi di scegliere di vagare, proprio come fanno le scritte sulle boccette oniriche di Lewis Carroll: mangiami e bevimi. L’isola diventa appunto un Paese delle Meraviglie perché in ogni oggetto confluito in questa mostra c’è una esibizione di intelligenza e di logica: sono pezzi in cui la materia è stata organizzata e si è configurata intorno alla risoluzione di un problema. L’interfaccia non è altro che questo, la resa visibile di una questione che per essere risolta ha bisogno di venire impugnata, osservata, ascoltata, in breve ha bisogno di diventare linguaggio. È così che un problema del mondo viene superato attraverso il mondo: ogni volta che l’essere umano, come un lombrico, rumina mentalmente un fatto mediante la sua articolazione in termini, questo essere umano si fa designer.

Se è vero che la distinzione originaria tra natura e cultura è superata, allora tanto più non ha senso distinguere in maniera troppo rigida le discipline in base al loro oggetto, e dunque si può dire che proprio nel design risuona la massima di Karl Marx secondo la quale: “i filosofi hanno finora solo interpretato diversamente il mondo; ora si tratta di trasformarlo”. Il presupposto necessario per superare l’idea oramai antiquata che accostare queste arti sia come accostare il sacro al profano è accettare che la nostra intelligenza, in fondo, è solo un’intelligenza tra le altre, la cui particolare preziosità consiste nell’attribuzione organica di senso al mondo. E la funzionalità degli oggetti non è altro che l’esito del significato che gli viene attribuito. Ne consegue che non c’è nessuna eresia nell’applicare a un ambito apparentemente sofisticato ed elitario come il design le parole del celebre filosofo ed economista, né nessun fraintendimento. Interpretare e progettare sono in effetti la stessa azione, a condizione che questa avvenga nelle cose, attraverso la materia. Ed è la materia a evitare qualsiasi rischio di elitarismo, perché gli oggetti sono nello spazio e lo spazio è per sua natura sempre aperto, soggetto alla rivoluzione continua degli esseri umani e alle altre specie. Da Domestic a Collective è una trasformazione che riflette questa consapevolezza.

Faccio tre esempi tratti dalla mostra. A poca distanza dall’inizio del percorso si incappa in alcune esili forme di legno. Sedie che si prolungano in trespoli e trespoli che digradano in piani e tavolini d’appoggio. Sono gli arredamenti da umano e pappagallo (Furniture for a Human and a Parrot) che Studio Ossidiana ha iniziato a progettare durante il lockdown, osservando il modo in cui il pappagallo Coco si serviva di computer, scrivanie e appoggi per svolazzare da una parte all’altra e impadronirsi del posto. I mobili che ne derivano sono pensati come variazioni a partire da una serie di pezzi tradizionali stile Windsor. Questo progetto mostra come l’osservazione di un’altra forma di vita, delle sue preferenze e dei suoi bisogni possa suggerire forme e materiali nuovi, che importano il bosco dentro lo spazio asettico e organizzato dell’ufficio, senza togliergli sobrietà ed eleganza. In un certo senso si tratta del primo caso di co-progettazione tra uomo e pappagallo, amazzone testagialla. La realizzazione mostra la fragilità del concetto di inclusione, come espressione ulteriore del confine tra chi sta dentro e chi sta fuori: a volte è sgranando questa definizione che si ottiene una terza via, dove è divenuto impossibile distinguere che cos’ha pensato l’uomo e che cos’ha suggerito il pennuto.

Ben più avanti, intorno al margine inferiore dell’isola, c’è una cassettiera vetrata che ospita alcuni studi di materiali. In particolare, vi si trova il progetto BJ_01 di Leonardo Perina, che sta lavorando per ottenere un materiale ecosostenibile e riciclabile a partire dal legname degli alberi distrutti nel 2018 dalla tempesta di Vaia. Anche qui l’elemento più interessante da osservare è il girotondo che racconta il cambiamento climatico e le sue minacce passando dall’uomo all’ecosistema, per ritornare alle possibilità che abbiamo noi umani di invertire l’ordine delle cose restituendo alla foresta il favore di una materia prodotta senza dimenticare il sacrificio degli alberi. Quello di Perina è un materiale memoriale, che rimette in discussione la distinzione tra le vittime, cioè il bosco, e i carnefici, cioè (alla fine di una lunga catena) noi.

Approfittando poi del principio della libera peregrinazione, si può tornare indietro e vedere, al centro dell’isola, una specie di arazzo viola con un ricamo diffuso di lettere. Si tratta di un lavoro di Ginevra Petrozzi dal titolo di Digital Exoterism: è il rimando a una performance in cui la designer e artista legge gli schermi dei telefoni come fossero carte dei tarocchi. Anche questa è una provocazione funzionale a invertire gli addendi, la scienza e il mistero. Di nuovo si vuole evitare la distinzione e proporre di intendere la prima come un prolungamento del secondo, e viceversa. Sottotraccia si indaga il legame tra la magia e il capitalismo, quella riserva segreta che un giorno Werner Sombart ha definito spirito del capitalismo: il punto in cui la spesa e la razionalità arrivano a essere agite per nulla, e a incorporare così la mistica e la religione.

Sono solo tre esempi del centinaio di opere che si possono vedere in mostra fino al 10 di settembre 2023. Nel nuovo paesaggio del design italiano, che a quanto pare è ricchissimo, si trova un inno alla complessità e alla ridiscussione umanistica di alcuni stereotipi e dicotomie, che magari usiamo ancora per parlare, ma di sicuro non trovano più un punto d’appoggio dentro di noi o nelle nostre cose.

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