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Logos slogati

18 Marzo 2025

Logo in Real Life di Michele Galluzzo (Krisis Publishing 2024, 280 pp.) è uno speciale libro di storia della grafica. Denso di aneddoti e dettagli sui più importanti studi di design e grafica che, in Italia e nel mondo, hanno forgiato marchi e corporate identity iconici (Agip, Enron, Pirelli, Fiorucci, c’è persino la storia poco nota della genesi del logo della Federazione Italiana Giuoco Calcio), è un atlante che delinea nascita morte e resurrezione del corporate design. Ai manuali di identità visiva, che rigidamente normano i do e don’t delle regole visive di un brand, su carta lucida e chiara, Galluzzo preferisce i détournement dei logo al di fuori delle mura corporate. E li mette su carta opaca in bianco e nero.

La real life di questo libro è il mondo al contrario dei manuali di immagine: laddove, per questi ultimi, il logo non va stirato, capovolto e alterato in alcun modo, pena la perdita di identità e coerenza del sistema di segni del brand, nella real life di Galluzzo esso viene costantemente maltrattato, stiracchiato, anagrammato, frainteso. L’effetto è una bomba segnica: tutto quello che il logo non voleva dire, o non sapeva di poter essere in grado di dire con la sua struttura visiva, con la sua ossatura grafica, esplode con esiti di vario genere. Il cui valore dipende dal punto di vista da cui li si osserva.

Le lunghe linee del logo di Enron corporation, multinazionale statunitense fallita all’inizio del millennio, disegnate da Paul Rand, vengono usate per riscrivere Greed o Fraud, Balenciaga diventa Balenciacab, Adidas si trasforma in Antifas e Reebook in Refugees Welcome, e così via: facile capire che si tratta di lavori di deformazione semantica che suggeriscono non solo inversioni di senso ma soprattutto prese di posizione etica e politica, critiche, schieramenti di buoni e di cattivi. Il tutto lavorando sia sulla parte verbale del logo (sostituendo cioè alcune lettere a quelle originali e da lì generando i vari giochi di parole) sia, e forse ancor di più, su quella visiva: la lunga P di Pirelli viene usata per dire “Porelli” o “Pivelli” in uno striscione da curva allo stadio o tagliata in punta e usata per scrivere Fuct, brand name di capi di abbigliamento di ambito skate culture americana anni ‘90.

Del resto, le lettere sono grafismi.

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Il libro, introdotto da una prefazione di Chiara Alessi, è organizzato in due parti: una prima di tipo meta-storico riflette sul modo in cui è stata solitamente pensata e narrata la storia del design grafico, basata sulle scuole e sui grandi designer, sulla dimensione aziendalistica e commerciale che ha guidato e contribuito alla fondazione di un certo graphic design, soprattutto tra gli anni ‘60 e ‘80, molto legato alla pubblicità e alle agenzie di comunicazione; la seconda parte raccoglie una serie di casi, tutti più o meno appartenenti a storie di grandi brand, ma molto diversi tra loro, che mostrano le trasformazioni dal basso e per lo più sovversive proprio di quel design verticistico e aziendalistico basato sui principi di massima coerenza e conservazione dell’immagine coordinata del brand. Fuori dal perfezionismo controllante dei manuali e delle brand guide, ad esempio, il logo di McDonald’s – tra i più frequentemente deformati in assoluto forse – una volta diventa McLenin’s, con il volto del leader sovietico a sovrastare gli archi dorati troppo americani, e un’altra viene ruotato di 90 gradi così da diventare, nell’alfabeto cirillico russo, l’iniziale del fast food filorusso Uncle Vanya, sorto sulle ceneri dei McDonald’s abbandonati pochi anni fa dall’azienda americana per protesta durante l’invasione dell’Ucraina.

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Con uno sguardo particolare alla storia delle grandi aziende italiane, Galluzzo ripercorre anche la storia della nascita della corporate identity di Agip, con il lavoro del gruppo diretto da Bob Noorda negli anni 70, che si scontra subito con la lotta di classe: la testa del cane a sei zampe di Eni viene fatta saltare da un pugno chiuso in un volantino del partito comunista che, altrove, scrive che “il cane a sei zampe abbaia ma non morde”. Lo stesso accade a Pirelli che, grosso modo nel medesimo periodo, subisce gli attacchi visivi di gruppi operai e sindacalisti e che dopo, negli anni 90, come sponsor dell’Inter, diventa spazio di manovra visiva per creare prese in giro delle squadre avversarie. Tutte metafore grafiche con cui le regole di rispetto del logo vengono appositamente calpestate, fatte proprie e ridette a scopi non previsti in anticipo.

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Nel complesso, i casi raccolti da Galluzzo costituiscono un insieme di fenomeni di deformazione grafica niente affatto catalogabili all’interno di un singolo movimento o scuola o gruppo di contestatori: piuttosto, sostiene l’autore, richiamando facilmente Umberto Eco, si tratta di forme di guerriglia semiologica attraverso cui chi riceve un messaggio decide di attivare differentemente le potenzialità insite in esso, producendo nuove forme di fruizione, di codifica, nuove estetiche. La falsificazione in fondo è questo: prendere a prestito e modificare per far rientrare in un nuovo regime di senso.

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In ogni caso, nel détournement dei logo, il senso è dato dallo stridore prodotto dall’accostamento tra logo aziendale e sua deformazione, tra rigidità olimpica della grafica scintillante di stampo aziendalista e le sue varie mistificazioni dal basso, di critica politica, di discorso queer, di cultural jamming. Ma gli obiettivi e gli esiti dell’adbusting, cioè di questo genere di processi di riuso visivo dei brand commerciali, non sono sempre gli stessi: ci sono casi che mirano esplicitamente a criticare il logo stesso e tutto il sistema valoriale che esso rappresenta (come i plagi di Enron o McDonald’s), casi in cui il logo è usato per criticare altro (Balenciacab), casi di riappropriazione del logo per rivendicare un’appartenenza di qualsiasi tipo (di orientamento sessuale, come nelle versioni queer di Prada e Playboy che diventano, rispettivamente, Pride e Tombo; o politica come Gucci che diventa Curcio per onorare il brigatista rosso, Adidas rielaborato in Antifas, o come il l’anti-McDonald’s filorusso), e così via. Ancora diverso il caso di Fiorucci, che Galluzzo ripercorre: l’azienda milanese di moda, sorta alla fine degli anni ‘60 a Milano, fa proprio dell’apparente assenza di immagine coordinata la sua marca visiva, distinguendosi dalle rigidità delle corporate image iper-normate che si stavano affermando proprio in quegli anni negli studi di design della stessa città, e rendendosi però alla fine comunque riconoscibile per un fortissimo camaleontismo grafico e un’altrettanto forte passione per il citazionismo.

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Le funzioni e i ruoli dei logo in real life vanno visti e osservati di volta in volta, tanto in un’ottica storica, come fa Galluzzo, quanto più in generale in un’ottica comunicativa, distinguendo soggetti, contesti, obiettivi ed effetti. Quando Galluzzo ricorda che il mondo del clubbing anni ‘70 e ‘80 lanciava logo di questa o quella discoteca che richiamavano visivamente quello di Coca-Cola, è evidente che non si tratta di critiche al sistema brand ma al contrario di riferimenti che arricchivano e ibridavano il senso di Coca-Cola, producendo un blend di brand tanto inedito quanto omologante: tutti imitavano le onde della marca Coca-Cola, nessuno lo era.

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Il détournement infatti non è solo visivo, alla fine, ma soprattutto di funzione e uso dei brand: molte operazioni di adbusting nate da posizioni anti-marca in principio sono chiaramente esse stesse forme di riconoscimento, meccanismi di appropriazione e differenziazione simbolica e sociale. Sono diventate, ovvero, logo veri e propri. Alcuni dei quali, dalle subculture meno note e distanti dal mainstream mediatico, sono assurti a marche commerciali, riattivando il circolo semantico ed economico della marca. Le ibridazioni tra ciò che è marca e ciò che è la sua contestazione sono moltissime e, come Galluzzo riconosce, il confine che sembrava ben chiaro alla fine degli anni ‘90 e i primi 2000 – alla pubblicazione di No Logo di Naomi Klein, per intenderci – tra cosa fosse aziendale e cosa fosse anti-aziendale è ormai piuttosto sfumato. Così, non è tanto la deformazione visiva in sé ad avere valore positivo o negativo, bensì la situazione in cui si trova, chi la produce, come entra o rientra nel contesto commerciale e sociale. Una cosa è la felpa Cucci realizzata dall’artista di turno, un’altra Cucci su una felpa al mercato rionale sotto casa. Che a sua volta può diventare un oggetto di interesse in un negozio di seconda mano. Contestazione o contraffazione, cioè, non sono solo l’esito di ciò che è scritto, del modo con cui il logo è stato invertito, ma anche del destinatario per cui quel segno plagiato è pensato, dell’uso a cui è destinato o dei luoghi in cui finisce per trovarsi.

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La storia sociale dei brand, dunque, non è solo quella dei détournement volontari e progettati a scopi politici o artistici: essa è una storia inevitabile, una riappropriazione continua, quotidiana. Basta guardare gli adesivi che sono ricomparsi sugli oggetti-simbolo di oggi: prima gli sticker con i logo dei grandi e piccoli brand (anche quelli dei negozi cittadini) si collezionavano per essere sfoggiati su scooter e auto, o sul vetro della finestra della cameretta, oggi sono ritornati, e adesivi di locali da aperitivo, marche di biscotti da supermercato e festival indie compaiono, insieme, sulla scocca dei computer portatili o delle cover dei telefonini. Qualcosa dovrà pur dire.

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