Dadi, bulloni e pinzette

7 Dicembre 2023

Che cosa hanno in comune pinzette, orologi, penne, materassi e pistole? Una molla. Una cosa piccola piccola, flessibile, che si piega e ciò facendo incamera energia, che poi rilascia velocemente, ritornando nelle sue posizione e forma iniziali, senza rompersi. Proprio grazie a una grande molla Gengis-Kahn è diventato il potente e sanguinario capo che fu un tempo: l’arco, di cui era maestro. 

E che hanno in comune la tuta spaziale degli astronauti e la macchina cuore-polmoni che, nelle sale operatorie, tiene in vita i pazienti a cui abili chirurghi stanno trapiantando un nuovo cuore? Nulla, ma entrambi i dispositivi, estremamente sofisticati e complessi, non esisterebbero senza il meccanismo della pompa. 

E che passa tra il telegrafo e internet? Moltissime cose (oltre che parecchi decenni, ovviamente) e tra queste c’è il magnete: senza la scoperta dell’elettromagnetismo non potremmo usare smartphone e tablet, vedere la televisione e leggere la posta elettronica. 

Ponti, piccoli o grandi che siano, suture chirurgiche, tessuti dei nostri abiti, tele dei quadri e strumenti musicali hanno in comune la corda. Mentre automobili, biciclette, apriscatole, lavatrici e frullatori funzionano in nome di un movimento rotante: senza la ruota, inventata in Mesopotamia seimila anni fa, non per andare in giro sui carri ma per lavorare l’argilla al tornio, non laveremmo le nostre stoviglie automaticamente e nemmeno sapremmo il significato della parola ‘pedalare’. 

È la sorprendente storia del piccolo che cambia il mondo, narrata nel libro di Roma Agrawal, Dadi e bulloni. Sette piccole invenzioni che hanno cambiato (parecchio) il mondo (Bollati Boringhieri, 2023 pp. 266, 25 euro). 

Sette capitoli per sette fratelli: il chiodo, la ruota, la molla, il magnete, la lente, la corda, la pompa. Tutti oggetti minuti senza i quali non esisterebbero oggetti e costruzioni assai più grandi e complicati: il televisore di casa (e il suo potente elettromagnete nel tubo catodico), la stazione spaziale internazionale (che ha bisogno di un meccanismo rotante per orientarsi in un preciso modo intorno all’atmosfera terrestre), il microscopio (che di fatto è una potentissima lente), gli aeroplani (che senza bulloni non avrebbero la fusoliera che ci tiene al sicuro in cielo, a diecimila metri di altezza). 

Agrawal, ingegnere cresciuta nella Mombai degli anni 80 e oggi progettista di grandi opere inglesi, tra cui lo Shard di Londra, racconta come, da bambina, amasse guardare dentro le cose. Smontava il temperino e le penne di scuola, scoprendone le parti interne (molle, tubicini, viti…), e persino i pastelli a cera, dove però, delusa, non trovava che altra cera. Guardare dentro (o dietro) le cose è un modo di vivere e vedere il mondo: è così che Roma, divenuta ragazza, ha poi scelto di studiare fisica ed è oggi un ingegnere. Personalmente non guardo mai dentro le cose – quelle materiali – sono un’utilizzatrice base che preme i pulsanti di casa e si ritrova la camera illuminata senza chiedersi perché ciò accada né quale complesso sistema tecnologico ci sia dietro un gesto così semplice. C’è però chi lo fa, per fortuna: chi progetta le cose e chi le aggiusta. In entrambi i casi, quasi sempre è stato un bambino o una bambina che praticava reverse engineering senza saperlo: smontava, cercava di capire, guardandolo al rovescio, il meccanismo nascosto degli oggetti. 

Pieno di curiosità e dettagli anche personali di scienziati e inventori, Dadi e bulloni è un libro sul valore del piccolo, in due sensi. Che il grande e il complesso sono strutture, composte da reti di elementi di scala minore e più semplice. E che alcuni di questi elementi hanno stravolto il mondo, non solo perché hanno reso possibile l’invenzione di oggetti fondamentali per la cultura umana, come il carro, la bicicletta, l’aereo, il telefono, il microscopio, e tanti altri, ma perché sono stati il motore di cambiamenti molto vasti che hanno coinvolto la medicina, l’agricoltura, il commercio, l’igiene, la cucina, il turismo, la musica, la moda, l’arredamento, la comunicazione, persino la vita in seno alle famiglie. Senza il carro, e dunque le ruote, non ci sarebbe stato modo di portare a casa quantità di grano superiori, e così garantirsi periodi di maggiore autonomia alimentare. Senza la pompa non si sarebbe potuta estrarre acqua pulita, non tanto per lavarsi, questione poco sentita fino ad alcuni secoli fa, ma per cucinare e mangiare riducendo il rischio di avvelenarsi con acqua contaminata. Senza le fusoliere leggere messe a punto per le guerre, grazie ai ribattini (un tipo di chiodo piatto e più spesso nel gambo) gli aerei non avrebbero tutto lo spazio di cui sono dotati oggi, per trasportare passeggeri e valigie che vanno in giro per il mondo. 

E senza il microscopio, e dunque la lente, non solo non avremmo scoperto i batteri, salvandoci da terribili pestilenze e malattie senza scampo, ma nemmeno avremmo capito come si fanno i bambini: solo quando la scienziata Miriam Menkin, nel 1944, vide sul vetrino che la fecondazione avveniva quando i due gameti si univano, cambiò l’intero modo di vedere la vicenda. Con la possibilità di intervenirci su da parte di medici ed embriologi, come nel caso proprio di Roma Agrawal, che senza tutto questo, ci racconta, non avrebbe avuto la sua bambina. 

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La forza del piccolo, dunque. Prima di fare lo Shard, il più alto grattacielo di Londra con i suoi 300 e rotti metri di altezza, scrive Agrawal, ci si era posti il problema di come far sì che la guglia fosse salda abbastanza per resistere al vento e ampia e luminosa a sufficienza per fare da enorme vetrina del panorama cittadino. Bulloni magnifici, attentamente progettati, spiccano ma non troppo sulle vetrate dello Shard, uniscono estetica e funzionalità: reggono la guglia, non si fanno notare e sono la punta di diamante di chi li ha progettati. 

Oltre a essere il paradiso dei designer, ovvero la sintesi tra funzione e bellezza, i sette oggetti magici di cui parla Agrawal hanno tutti la caratteristica di essere elementi che mettono in relazione, legano oggetti con altri oggetti, fanno sì che semi-oggetti diventino veri e propri progetti, ovvero macchine dotate di senso, di scopo. La ruota diventa quel che conosciamo adesso quando si unisce a un asse: ecco il carro. O quando due ruote vengono messe una davanti all’altra: ecco la bicicletta. La vite inizia a funzionare quando si fa sopra di essa un taglio (il segno + o -) dentro cui si inserisce il cacciavite. La lente di ingrandimento, antesignana del microscopio, diviene uno strumento di lavoro e ricerca quando viene posta per la prima volta in un’intelaiatura di metallo con una sporgenza che faccia da manico. E così via. 

È cioè quando entrano in rapporto tra loro, e con le persone, che le cose, anche le più piccole, iniziano a funzionare, attivandosi e producendo cambiamenti. 

Il libro di Agrawal è, come ci si può aspettare, un inno alla tecnica: vi si intravede, dietro questo lungo elogio dei piccoli del mondo, un’esaltazione del lavoro ingegneristico che immagina soluzioni a problemi, da risolvere nella maggior parte dei casi grazie a un piccolo meccanismo. Accanto alle lungaggini progettuali assai ponderate, c’è l’intuizione, lo scarto minimo, il cambiamento di visione che fa luce sul dettaglio, piuttosto che sulla totalità. Accanto al sapere sistematico e razionale (l’epistème), esiste quello intuitivo e astuto degli stratagemmi e degli accrocchi (la mètis).

Ne parla Latour varie volte, ad esempio a proposito delle porte, oggetti banali e straordinari al tempo stesso a cui si dedica in vari punti del suo lavoro sulla tecnica e il design. A colpirlo sono i cardini, il magnifico dettaglio: è lì che si rende possibile l’azione di aprire e chiudere, unire e separare, far entrare o lasciar fuori (una persona sgradita, il rumore, l’aria fredda o un gatto). Con tutte le conseguenze, concrete ed affettive, di tener chiusa una porta, o di schiuderla. 

È al piccolo ingranaggio che deleghiamo molte azioni della nostra vita quotidiana, del quale non ci accorgiamo solitamente, se non quando si rompe, o quando non funziona come vorremmo. La tecnica, per Latour, non è niente di speciale o di specifico di per sé: ciò che la caratterizza è la delega. Significa ‘spostare’, ‘deviare’ (termini suoi) azioni umane su aggeggi che le svolgono possibilmente molto meglio di noi. Datemi una leva e vi solleverò il mondo: proprio così. 

Nella prima delle Lezioni americane, “Leggerezza”, Calvino ricorda, tra gli altri poeti che hanno praticato la leggerezza nello scrivere, Lucrezio e il De rerum naturae: un poema sulla materia e sulla natura delle cose, in cui però a reggere il mondo è proprio il piccolo e l’invisibile, l’atomo, leggero, polverizzato, minuscolo, talvolta imprevedibile. Eppure capace di reggere il peso del mondo. Anche perché nella visione calviniana, la leggerezza, la sottigliezza, il minuto, non sono volubili e imprecisi, ma tutto il contrario: sono precisi e determinati. Proprio come un chiodo. 

La storia di Dadi e bulloni è infatti anche una piccola storia dei materiali e delle loro capacità. La ruota di legno, piena e pesante, è stata sostituita prima dalla ruota cava con i raggi, che ha alleggerito carri e carrozze e reso più veloci i trasporti, e poi dal metallo sul quale filiamo in bici o viaggiamo in auto. I chiodi un tempo erano di legno perché dovevano essere adatti agli scafi delle navi: immersi in acqua non si rovinavano, anzi, gonfiandosi, tenevano ancora più saldo il natante. 

Leggendo le vicende delle tecnologie umane, si impara che i materiali non sono brute sostanze del mondo a cui si imprimono una forma e uno scopo in base alla visione del progettista, ma al contrario contengono già al loro interno, nelle qualità di cui sono dotati, scopi e orientamenti, possibilità e resistenze. I materiali sono oggetti strategici: reagiscono ad altri materiali, rispondono a sollecitazioni e agenti di varia natura, dialogano con strumenti (cos’è un chiodo senza il suo martello?), con spazi, forze atmosferiche, persone, animali. L’intermaterialità è una prospettiva nota ai progettisti, su cui anche le scienze umane e sociali farebbero bene a interrogarsi.

Del resto, l’antropologia delle tecniche, da Leroi-Gouhran prima, a Tim Ingold e Lambros Malafouris oggi, ha messo in evidenza come la connessione tra lavoro manuale e cultura non è banalmente quella che intercorre tra un umano e il suo strumento inteso come protesi, come estensione che serve a risolvere problemi preesistenti. Piuttosto, il fare (il making di Ingold) è già un pensare. Va invertita la rotta: con le cose, mentre le manipoliamo, creiamo, usiamo, stiamo pensando e immaginando il mondo (il thinging di Malafouris). 

Il libro di Algawar è un libro sulle invenzioni, certo, ma soprattutto su come le società non siano comprensibili se non guardiamo ai materiali e agli strumenti con cui si sono edificate, e continuano a esserlo. È utile per vaccinarsi da uno sguardo strabico: ora sulle cose, ora sulle persone. Parafrasando il titolo di un celebre saggio di Latour, è possibile una società senza oggetto? Meglio tener gli occhi a fuoco su entrambi: inforchiamo le lenti. 

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