Si fa presto a dire insetti

21 Marzo 2023

Alcuni giorni fa, sull’account instagram di Gino Sorbillo è comparso un video in cui quello che è, forse, il più famoso pizzaiolo napoletano prepara una pizza margherita con una certa quantità di farina di grillo nell’impasto. E la serve ad amici e avventori della pizzeria: che prima la odorano, poi l’assaggiano e infine si esibiscono, chi più chi meno, in facce schifate e teatrali espressioni di disgusto. Qualcuno, dopo aver dato un morso alla pizza dal colore più scuro del solito, fa finta di saltellare: effetto della pietanza al grillo, evidentemente. Una goliardata, si direbbe. 

Dopo pochi attimi qualcuno ha risposto sui social in modo molto piccato, offeso dallo scherzo perpetrato dalla pizza di Sorbillo. Come accade spesso, il discorso intorno a quel video si è presto polarizzato: chi difendeva Sorbillo e con lui tutta la tradizione della cucina italiana (che la sua presa in giro intendeva custodire); e chi invece ha attaccato il pizzaiolo accusandolo di anacronismo, nazionalismo gastronomico, pochezza, ignoranza e chi più ne ha più ne metta. La solita guerra di insulti e accuse nei social: un bailamme mediatico che dura poco e stanca subito. 

La vicenda però, a uno sguardo più curioso, è da vedere da un altro punto di vista. Senza schierarsi né dalla parte dei detrattori disgustati degli insetti a tavola né da quella di chi è attratto o interessato alla loro introduzione in cucina, possiamo provare a fare un altro genere di considerazioni. Che riguardano il valore del cibo in senso ampio, la questione della novità (non è un caso che gli insetti facciano parte del cosiddetto “novel food”) e dei tabù in cucina. Tabù che ogni cambiamento, ogni rottura della normalità rende visibili: è quando la regola si infrange, da silenziosa com’era, che si fa sentire di nuovo, e con forza.

Facciamo un passo indietro perché la vicenda è già accaduta, alcuni mesi fa, pressoché identica. Cambiano i nomi, i tempi, i canali di comunicazione. Ma restano gli insetti. È nell’autunno del 2022 che Fondazione Barilla produce un video di pochissimi minuti in cui un comico napoletano si esibisce in un brevissimo monologo ironico sugli insetti a tavola. Si tratta di una clip che fa parte di un progetto comunicativo della Fondazione Barilla chiamato “Fondazione Show” e che vede coinvolti comici, attori e food influencer in brevi monologhi su vari temi: lo spreco alimentare, la dieta mediterranea, l’uso parsimonioso dell’acqua in cucina etc. Divulgazione scientifica tramite testimonial dello spettacolo; argomenti complessi (nutrizione, sostenibilità, ricerca) trattati con ironia. 

L’obiettivo del video sugli insetti era evidentemente quello di suscitare curiosità, sollevare il dibattito, tastare l’opinione collettiva sul fatto che di lì a poco (gennaio 2023) una nuova norma europea avrebbe regolamentato l’uso sicuro di polvere di Acheta domesticus (grillo) in alcune preparazioni industriali (snack, crackers, pasta secca, salse, prodotti sostitutivi della carne, ad esempio). Appena pubblicato, il video scatena le ire di una parte del pubblico che inveisce contro Barilla accusandola di voler inserire la farina di grillo nella preparazione della pasta. Scandalo: gli insetti nel piatto più amato dagli italiani. Risultato: il video viene ritirato, e non è più disponibile sul sito di Fondazione Barilla. (È ancora visibile, per chi vuol farsene un’idea, sull’account twitter di Matteo Salvini, che in quei giorni, alla domanda conclusiva del video “e voi cosa ne pensate?”, prontamente retwitta: “potete mangiarvela voi”. In riferimento alla pasta, evidentemente).

Spoiler: nel video di Fondazione Barilla non si parla di preparare la pasta con la farina di insetti. E cosa dice invece? Perché, a guardarlo da vicino, si comprende un po’ meglio quel che è successo. Il video funziona, per così dire, a elastico, è ambivalente, mostra una certa indecisione tra il dover prendere le distanze su grilli e vermi a tavola (“io non li ho mai assaggiati ma mi hanno detto che…”, dice in apertura Carmine Del Grosso, l’attore napoletano che lo intrepreta) e il tentare un accostamento tramite una sorta di strategia della familiarità (“… le formiche saprebbero di nocciole e i coleotteri di pane integrale”). Con un pizzico di ironia che per definizione è un modo di allontanarsi da quel che si dice (“in abbinata sarebbero perfette per la colazione”). Un andirivieni che si ripete: gli insetti sono tipici di altre culture, come quelle asiatiche (distanza), ma si usano “pure qui in Europa” (avvicinamento), come in Olanda e in Danimarca. È proprio in riferimento al modo in cui si preparerebbe in quei paesi la ricetta nazional-popolare per eccellenza, la “pasta alla carbonara”, che Del Grosso dice: “togliete la panna e metteteci gli insetti. Uno che somiglia al guanciale lo trovate”. Di nuovo ironia, questa volta con gli insetti che sarebbero meglio della panna, ma che non sono certo il guanciale. Vorrei ma non posso, insomma. 

Fondazione Barilla chiude il video con uno screen in cui si legge “Gli insetti sono diventati di interesse anche in Europa, come fonte di proteine ad alta qualità e a basso impatto ambientale. Tu cosa ne pensi?”. Un tono serio, parascientifico, che contrasta evidentemente con il resto del video – ma questo è, nel bene o nel male, il senso del progetto di divulgazione “Fondazione show”. 

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Spicca la parola “interesse”. L’interesse non è una curiosità, non è nemmeno un’attrazione: è un tipo di sguardo sulle cose che emergono come salienti tra altre, che possono avere un qualche valore e che meritano attenzione, studio, conoscenza, un’eventuale curiosità. Insomma, l’interesse è una curiosità distaccata. È grosso modo l’atteggiamento dello studioso. 

Ma quali sono questi valori? E perché gli insetti dovrebbero esser di interesse? Per ragioni che conciliano ambiente e nutrizione: il consumo degli insetti è a basso impatto ambientale, rispetto a quello di carni animali, per la cui produzione si consuma tantissima acqua e si producono pesantissime emissioni di gas. Inoltre, questo tipo di farine d’insetto potrebbe essere un’alternativa per chi in generale, per varie ragioni, sceglie una dieta meat-free. Anche perché gli insetti hanno un elevato valore proteico (diversi testi discutono dei buoni motivi per usare gli insetti in cucina, alcuni anche con proposte di ricette, come nel libro On Eating Insects, su cui vedi qui; mentre in altri si ragiona in senso più ampio sull’ecosistema degli insetti, minacciato dal cambiamento climatico, ma necessario anche per l’approvvigionamento alimentare). 

Dunque da una parte ci sono valori ambientali, ecologici, dietetici, nutrizionali, insomma scientifici, una dimensione utilitaria dell’alimentazione; dall’altra (intendo dalla parte di chi gli insetti nella pizza e nella pasta non li vuole) ci sono motivazioni diverse, affettive, esistenziali, legate al consueto discorso gastronomico sull’identità, il territorio, le tradizioni, la difesa della cucina di casa, di mamma, di nonna o della nazione.

Il cortocircuito, nel caso del video di Fondazione Barilla, è chiaro: nonostante sia stato messo in circolazione dalla Fondazione (che non è l’azienda produttrice ma un centro di ricerca che si occupa di divulgazione, studi sull’innovazione e sostenibilità alimentari) il nome Barilla non può non far pensare al brand italiano di pasta più famoso del mondo – di cui comunque la Fondazione è una costola. Da qui, apriti cielo, le accuse all’azienda, che però di fatto non ha mai detto di voler inserire la farina di insetti. E la conseguente catena di repost e retweet che hanno divorato il video, lo hanno schiacciato in una gragnola di insulti, di cattive interpretazioni, di titoloni acchiappa-click che caratterizzano molta comunicazione mediatica disattenta e vorace.

Il fantasma della pasta ai grilli e lo scherzo della pizza saltellante dunque sono la prova che in Italia di insetti nel piatto non si può parlare per niente, a meno di non voler esser messi alla gogna? Non è del tutto vero. È recente la notizia che il burger di grillo ha avuto tantissimo successo in una panineria di Milano, la quale ha inserito in menu il “grillo burger”: un coloratissimo panino verde (effetto dell’alga spirulina, normale colorante alimentare) con un burger di legumi e patate contenente, tra le altre cose, farina di grillo (l’1,6%). E poi scamorza fusa, cavolo viola e patata americana. Una proposta che a molti è sembrata succulenta, tant’è che è andata a ruba, e che è stata proposta con molta ironia: quel pane verdissimo, che non contiene grillo ma lo evoca nel colore, è chiaramente una mossa iperbolica che, fatta dalla panineria, non ha suscitato le ire di nessuno. Vogliono il grillo nel burger? Che lo mangino. 

Allora forse il problema non è il grillo, tutto sommato innocuo finché non va a finire nei posti sbagliati. Che stia a terra, e che non gli venga in mente di saltarmi addosso! Men che meno sul mio piatto, anche se polverizzato in farina. Insomma, nel burger forse sì, ma nella pasta e nella pizza diventa problematico (sebbene esistano in vendita già da tempo, anche in Italia, paste, biscotti, barrette e quant’altro fatti con polvere di insetti). Viene in mente quanto diceva l’antropologa Mary Douglas quando scriveva sul tema, ricchissimo, della purezza e del pericolo, i quali derivano dalla rottura delle regole sociali e umane che stabiliscono ciò che puro e ciò che non lo è, ciò che è consono a un certo contesto e ciò che è inadatto. Il problema, diceva Douglas, non sono le scarpe in sé, che sono sporche, ma le scarpe sul tavolo; così come sporco diventa il piatto da cui abbiamo appena mangiato se rimane ancora sulla tavola e non va subito nel lavello della cucina; o così come non vanno bene gli oggetti da bagno in salotto o i vestiti sporchi sul letto. Il senso dello sporco non sta nelle cose ma nella relazione. Se il sugo resta sulla pasta va bene: non sulla mia camicia. 

Barilla è un brand, e anche Sorbillo lo è di fatto, e ciascuno porta con sé tutta una serie di significati, idee, associazioni legate all’italianità. Barilla, Sorbillo e insetti, nella stessa frase, provocano effetti di disgusto, certo, ma anche un certo sdegno (che del disgusto è un parente stretto, ma con una certa sfumatura rabbiosa). Il burger è legato invece a un’altra cultura alimentare, non italiana, di vaga provenienza americana. Il disgusto che si può provare verso qualcosa può essere lo stesso, ma le regole dei contesti in cui si applica (o si prova a farlo) possono variare. Così come esistono le norme di gusto, le etichette del buon vivere, le regole di abbinamento felici, esistono anche le regole del disgusto.

Viene in mente quel che scriveva Lévi-Strauss sul “buono da pensare”, ovvero che prima di mangiare pietanze mangiamo segni; mangiamo ciò che pensiamo, ciò che riteniamo “buono” per cultura, per la nostra mente, prima ancora che per il corpo o il palato.

Ecco allora che prima ancora che dell’introduzione di ragioni scientifiche o ambientali, la questione degli insetti in cucina è un problema di segni, di regole culturali, non sempre esplicite, né tanto meno scritte da qualche parte – come certe prescrizioni religiose – e tuttavia forse per questo ancora più stringenti ed efficaci. Senza goliardate da bulli, ma nemmeno boriosi rimproveri da gastronomi innovatori che credono nella scienza come progresso ed evoluzione senza fine, meglio guardare il “novel food” un po’ più da vicino, alla giusta distanza. Con interesse curioso. Grillo, cosa vuoi da me? 

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