Antigone: Mito - Letteratura 1 a 0
Sulla copertina dell’ultimo libro di Eva Cantarella per Einaudi troneggia un enorme titolo provocatorio: Contro Antigone, accompagnato da un sottotitolo importante e minuscolo: O dell’egoismo sociale. Ora, in un certo senso, il fatto che il titolo sia provocatorio è proprio l’oggetto del saggio in questione, perché l’autrice ci mostra per 104 pagine quanto sia forte e radicato il mito di Antigone, quanto questa eroina abbia guadagnato un posto d’onore nel sentire comune fino a divenire intoccabile. Non solo.
Cantarella cerca di capire che cosa ne sia stato di Antigone e della sua storia sofoclea, manipolata e piegata dalle generazioni di umani che si sono susseguite nel mondo. Quindi, nonostante questo sia l’ennesimo libro su Antigone, non è l’ennesimo libro su Antigone, di fatto è l’unico che non ne dipinga l’agiografia: ecco la promessa. E la promessa, in effetti, è mantenuta.
La ragione che ha spinto Eva Cantarella a prendere le parti di Creonte è antica e sentimentale: già quando si trovava sui banchi di scuola a leggere la tragedia di Sofocle, racconta, le stava stretta la versione dei fatti secondo la quale Antigone sarebbe una santa e Creonte il suo persecutore. Dopo una vita, le cose stanno ancora così, con la differenza che Cantarella non è più una tra le tante studentesse adolescenti del liceo Beccaria di Milano, ma una delle più note e riconosciute studiose di grecità in Italia, e allora un prestigioso editore le commissiona questo libro in cui finalmente può tentare di riabilitare pubblicamente Creonte. La storia è singolare e fa meritare al libro una certa simpatia, sentimento speciale e poco destinato ai saggi, tanto più se trattano un argomento già così battuto e distante nel tempo.
Prima di arrivare al cuore del discorso, alla tesi più importante del libro, che non riguarda tanto Antigone ma piuttosto il destino stesso della letteratura, vale la pena di partire dal fondo, dalla periferia del saggio, dalla sua fattura e dai dettagli. È questo che è cambiato nello sguardo o nelle mani della persona che ora sostiene la sua tesi. La studentessa del liceo Beccaria non avrebbe saputo fare quello che fa ora lei stessa, quasi sessant’anni dopo: se è vero che si può misurare l’abilità di un buon romanziere dalla sua capacità di costruire i personaggi secondari o le comparse, si può dire del buon saggista che anche percorrendo le pagine collaterali si impara qualcosa. Qui è assolutamente vero.
Le pagine della studiosa non hanno punti ciechi, arrampicatine sui vetri, domande senza risposta. Dove la sua parola si dirige, lì c’è qualcosa di stabile e non banale. Facciamo due esempi.
Il primo è paragrafo dal titolo: «Una indispensabile precisazione», in cui si dice che «la Grecia non era una nazione: era un insieme di città, ciascuna autonoma dalle altre, con le sue leggi, le sue istituzioni e il suo esercito, il cui numero, secondo i calcoli del maggior studioso della materia, nel V secolo a. C., si aggirava intorno a 1500». Segue nota, in cui si specifica che lo studioso in questione è M. H. Hansel. Per chi lo incontra durante la lettura, questo passaggio è d’aiuto all’immaginario, arriva nel punto giusto, spiega un disorientamento tra le leggi che con le nostre categorie di contemporanei non sarebbe altrimenti comprensibile. In Grecia la guerra era la norma, i morti in battaglia erano quotidiani: quello di Antigone e di Creonte non è un caso di cronaca nera familiare, ma un tema pubblico, che tocca la spinosa questione di una repubblica che ancora non c’è, di leggi ancora morbide e fallibili, diverse da città a città. Già qui si vede che Cantarella, più che nel tessere la trama, è una maestra dell’ordito, dello sfondo, quel luogo dove tutta la differenza la fa il non sapere o il sapere con ragionevole certezza come stavano veramente le cose.
Un secondo esempio di invidiabile sicurezza nel delineare il contesto culturale in cui si muove il personaggio di Antigone arriva poco dopo, quando l’autrice con nonchalance ci dice che, in Grecia, il modo consueto di regolare l’offesa era la vendetta e «solo con il tempo, per evitare che la vita comunitaria di trasformasse in un seguito ininterrotto di guerre, quali erano le vendette, era nata un’istituzione che consentiva di evitarlo chiamata poiné (da cui il latino e l’italiano “pena”)». La pena prevede una riparazione economica, sostituendo alla vendetta un risarcimento in denaro. Per Cantarella, nel saggio, questa è l’occasione di parlare di due modelli di carisma profondamente diversi, quello di Achille, che rappresenta il vecchio mondo e la logica della vendetta, e quello di Ettore, eroe nuovo, portatore di valori più moderni e vicini alla nostra idea di diritto civile.
Indipendentemente dal come e dal perché, ogni inserimento nel discorso di un elemento di contesto utile a comprendere l’universo di riferimento, è morbido e saldo, fa guadagnare fiducia verso Cantarella e curiosità nei confronti dei fatti, oltre ad accrescere la cosiddetta cultura generale di chi legge. Notevole in questo senso sono anche le pagine dedicate a che cos’è l’eternità per i greci, cioè non la morte, sopravvivenza incerta in forma di ombra, ma la gloria eterna, conquistata con azioni gloriose in vita e in battaglia.
Sollevato lo sguardo dal microscopio, la tesi di fondo del libro è semplice e, per sostenerla, suggerisce Cantarella, basta smettere di parlare di Antigone e riprendere in mano le pagine di Sofocle: Creonte va riabilitato perché Antigone, più che per rifondare la legge di natura, agisce per sé stessa, mentre lui agisce per lo stato, quindi per la collettività, per tenerla insieme. Antigone è una donna perseguitata dal fato, che preferisce la morte alla vita perché non ha più niente per cui valga la pena di vivere. Le persone che amava maggiormente non ci sono più, quelle che ancora ama possono sempre seguirla nella sua presa di posizione, ma lei intanto le tratta con durezza e senza grande affetto: la sorella Ismene e il promesso sposo Emone, infatti, non sono ragioni di vita sufficienti per lei, che cerca il trionfo e la fama della morte più che dare ascolto ai suoi cari. In più, morendo, Antigone guadagna una forma di pace, mentre Creonte si trova del tutto solo e disperato – il figlio si è ucciso, così come la moglie, e per descriverlo non resta che questo sospiro: «Allontanatemi al più presto, portatemi via, io non sono altro che nulla». È sempre Sofocle. Poco dopo arriva il coro a sancire la fine della tragedia.
Da aggiungere sulla posizione ufficiale di Eva Cantarella non c’è molto altro, anche se il modo in cui ci arriva, ovviamente, non è per nulla esaurito da queste poche righe riassuntive. Creonte, in fondo, sembra dire la studiosa, non è un personaggio malvagio: è semplicemente un garante e come tutti i garanti non spicca per carisma. Antigone invece è di certo una personalità leader, ma come tutti i leader il modello che propone non è facilmente riproducibile, non si adatta alla res publica, anzi, sotto un certo punto di vista, rischia di farla andare in frantumi.
Il libro sarebbe più o meno finito qui, e sarebbe un libro interessante, ma si dà il caso che il presupposto che muove il discorso di Eva Cantarella sia più urgente e generale di tutto il resto e della stessa vicenda di Antigone: «prima di diventare un mito, Antigone era un personaggio teatrale, al centro della tragedia di Sofocle a lei intitolata». E poi, pagine oltre: «Ogni discorso su Antigone, sul suo carattere, sul suo comportamento e sui suoi valori è destinato a essere inadeguato alla complessità del personaggio di fronte al quale Sofocle ci pone. E oggi, come 2500 anni or sono, è destinato a essere divisivo. La forza del suo mito, per non dire il condizionamento che questo comporta a livello inconscio, influisce inevitabilmente sulla sua immagine, ingenerando perplessità in quelli che hanno fatto di lei un ideale al quale non vogliono rinunciare». Cantarella afferma che ciò che sta per dire non riguarderà il mito, ma il personaggio di Sofocle e, al tempo stesso, ci sta mostrando che tra le due Antigone c’è una differenza sostanziale. Nel tempo, il mito ha prevalso sulla letteratura oscurandola. In sostanza, tutti parlano di Antigone e sanno di lei, ma nessuno ha letto Sofocle. Il saggio di Cantarella, più che essere una riabilitazione di Creonte, assomiglia a una riflessione sul destino della letteratura e sul processo affascinante che porta a tradirla. Nonostante la tragedia di Sofocle sia stata eternata dalla scrittura e quel copione sia un documento che si può facilmente reperire, la memoria collettiva del mito è più potente e più pervasiva, ci impedisce l’accesso all’Antigone numero uno, quella formulata dalla fantasia di Sofocle. Il mito ha guadagnato una consistenza maggiore, ha un pubblico più esteso e fanatico, ma soprattutto ha creato una realtà parallela che esiste e ha dignità senza più bisogno di un accordo con la fonte, di un ancoraggio all’origine del mito stesso. Ora le due Antigone, il personaggio e il mito, esistono insieme e questo vale per moltissime altre storie, personaggi, addirittura per moltissimi altri fatti. Cantarella non polemizza contro questo, non tratta il mito come una gigantesca fake news da smentire ritrovando la verità, si limita saggiamente a puntare il faro sulla seconda verità.
Oggi il mito ha una sua rivincita sulla letteratura e questo non è vero soltanto per Antigone.
L’oralità ha sempre avuto (o si sta riconquistando?) una parte essenziale di credito quando si tratta di dare alla realtà la forma con cui la percepiamo. E siccome siamo nel campo delle interpretazioni, e non in quello dei fatti, la vulgata su Antigone e la sua tragedia sono valide entrambe. La seconda non scalza la prima, la verità non sta all’origine, né sul fondo: qualsiasi scrupolo storico è una figura che non ha più valore di quella costruita nel discorso. Eva Cantarella dimostra di essere al passo con i tempi quando alla fine del saggio sgrana le tante Antigone che esistono in circolazione e non si limita ad affermare la sua: della sua preferisce spolverare l’esoscheletro, sospirando il trilobite.