Eugenio Borgna, la gentilezza e il dolore
Tra le mura di Villa Borgna, a Borgomanero, era tornato a vivere da qualche decennio Eugenio Borgna, morto il 4 dicembre 2024 a 94 anni. Primario del reparto di psichiatria dell’Ospedale di Pavia, dal 1963 direttore del servizio psichiatrico dell’Ospedale Maggiore di Novara, insegnante e scrittore, si impone all’attenzione come il maestro di una psichiatria dell’interiorità dove arte, filosofia e letteratura sono considerati gli strumenti principali per alleviare la sofferenza mentale. Sostenitore della riforma Basaglia, è stato tra i primi specialisti in Italia, come direttore del reparto femminile dell’Ospedale psichiatrico di Novara, a eliminare la coercizione fisica. Già a metà degli anni Sessanta aveva dato disposizioni perché le pazienti non fossero legate e potessero passeggiare per i corridoi e i giardini dei luoghi istituzionali.
In una delle sue ultime interviste scrive: “Seguo un cammino interiore che mi porta al silenzio”. Ma il silenzio di cui parla Borgna è un silenzio ultimo, sacro, che arriva dopo un lungo viaggio nei dolori delle menti altrui: non è luogo di passività e di rassegnazione ma laboratorio di armonie e di risonanze dove studiare, leggere e rileggere artisti e destini traversati dalla dissociazione psicotica. Di Virginia Woolf scrive: “Dal destino di vita e di morte di Woolf discendono, così, motivi di palpitante riflessione sulla fragilità, e sulla sensibilità, sconfinate e irraggiungibili, che fanno parte di ogni esistenza incrinata dalla presenza della sofferenza psichica, della malattia dell’anima e dell’atroce solitudine che ne consegue. Sono cose che la psichiatria, quella italiana in particolare, la più aperta alla comprensione fenomenologica e umana della follia, continua vanamente a ribadire nella indifferenza e nella noncuranza di una opinione pubblica incapace di riconoscere i significati, e gli orizzonti di valore che sono presenti in ogni forma di follia (Di armonia risuona e di follia, Feltrinelli, 2012, p. 83).
Scorriamo i titoli dei suoi innumerevoli libri: I conflitti del conoscere. Strutture del sapere ed esperienza della follia; Malinconia; Come se finisse il mondo. Il senso dell’esperienza schizofrenica; Il volto senza fine; Le figure dell’ansia; Noi siamo un colloquio, Gli orizzonti della conoscenza e della cura in psichiatria; L’arcipelago delle emozioni; Le intermittenze del cuore; L’attesa e la speranza; Come in uno specchio oscuramente; Nei luoghi perduti della follia; Le emozioni ferite; La solitudine dell’anima; L’ora che non ha più sorelle; La fragilità che è in noi; La nostalgia ferita; Tenerezza; Mitezza; Speranza e disperazione; Le parole che ci salvano; Di armonia risuona e di follia. Solo ad “ascoltare” questi titoli possiamo già intuire come Borgna non volesse esplorare degli orizzonti diagnostici esatti (è nota la sua predilezione per Jung rispetto a Freud), ma quelle particolari condizioni dell’anima nelle quali salute e follia potessero confrontarsi, combattersi, reciprocamente illuminarsi.
Borgna, più che uno psicoanalista, appare come un filosofo dell’ascolto e dell’emozione. La sua opera racconta le origini segrete della poesia come un luogo che la follia può illuminare con le sue intuizioni assolute. Ma alla poesia non è mai estranea l’esperienza della follia e del dolore. Scrive: “È possibile guardare alla follia con occhi rinnovati dalla esperienza mai finita del dolore”.
Per Eugenio Borgna dignità, sensibilità, creatività, sono proprietà della follia che possono restare invisibili o diventare visibili. “La sofferenza di una persona in ogni età della vita può essere visibile, o invisibile. Solo un colloquio e un ascolto, che sappiano metterci in relazione gli uni con gli altri, ci consentono di portare alla luce e di rendere visibili le sofferenze e la disperazione altrui”. Interminabile, e intessuta di libri che ci appaiono oggi come i capitoli di una sola preghiera intonata per la libertà dell’uomo, è la riflessione di Borgna sul lessico profondo delle emozioni, guidato sempre dalla gentilezza di un “dire” sottovoce, immune dall’invidia, dalla collera, dal rancore. Con Borgna non prevale mai il regno delle passioni tristi ma la fenomenologia delle emozioni gentili. La sua scomparsa ci invita a riflettere sul valore della mitezza, un tema che lo psichiatra ha esplorato anche nel suo libro omonimo, dove descrive questa virtù come fragile ma potente antidoto contro la violenza e l’indifferenza, capace di aprire le porte della saggezza e della solidarietà. E se, alla fine del suo percorso terreno, il pensiero dello psichiatra approda al silenzio come unico porto di una vita intima, quasi “segreta”, la riflessione fondamentale si regge sempre sulla necessità delle “parole che salvano”, da Dickinson a Leopardi, da Hölderlin a Trakl, da Sachs a Celan. Ascoltiamolo mentre riflette su Celan malato e poeta: “Le forme espressive della lirica di Celan sono state modificate dalle esperienze psicotiche delle quali ha sofferto: e questo si constata drasticamente in una poesia scritta il 21 novembre 1965 due giorni prima che aggredisse la moglie Gisèle. La poesia è questa: “I deliri: di’ / che sono deliri, / di bocche e / scritti e segni assassini, / dilli inventati / da te. // Non dire: la pioggia piove, / Di’: / piove // Di’ / Non dire / Di’ / Non dire”. Da una poesia, come questa, dalle articolazioni tematiche così frantumate, sgorga immediata la sensazione di una radicale dissociazione alla quale non può non essere attribuita la genesi della aggressione alla moglie. Ma cosa dire delle trentacinque poesie che sono state scritte nella primavera del 1966 quando egli era ricoverato a Parigi nella Clinica Psichiatrica universitaria? Sono poesie, il loro titolo è Oscurato, alle quali non sono mai estranee tracce fiammeggianti di angoscia, e talora di orrore, che si associano a intermittenti sospensioni tematiche del discorso...” (ivi, p. 61)
Lo sguardo di Borgna, in Il volto senza fine (Atelier, 2004), commenta le poetiche e gli scritti degli artisti che nella loro arte rivelano i loro oscuri segreti: Van Gogh, Munch, De Chirico, Sironi, Bacon, Giacometti, sono artisti di un abisso da cui lo psichiatra non distoglierà mai l’attenzione e di cui resta inquieto, accorato osservatore. "La follia non è qualcosa che sia estraneo (radicalmente estraneo) alla vita: ma la follia è una possibilità umana che è in noi, in ciascuno di noi, con le sue ombre più, o meno, accese e dolorose: con le sue agostiniane inquietudini e con le sue incandescenze emozionali" (VSF, p. 34).
La gentilezza dell’uomo Borgna si rispecchia naturalmente in uno stile che non vuole essere uno stile ma solo un accorato commento al dolore che trascende i limiti umani. L’esperienza della follia è anche l’esperienza del suo tradursi in parola che la narra. Borgna ci insegna che esiste sempre il modo di rappresentare il dolore senza che diventi distruttivo e letale. Forse, in un romanziere, questa dote potrebbe essere considerata come una visione sentimentale o consolatoria dell’esistere. Ma, dalla tessitura interna di ogni libro dello psichiatra Eugenio Borgna, trapela il conforto di un uomo mite che arriva, ascolta, comprende, e insegna a dire di sé, nonostante che il dolore possa spesso renderci muti.
Su un dettaglio essenziale Borgna non transige: chiunque abbia contatti o colloqui con il folle, non deve pretendere di ridurlo alla ragione, separando quello che è razionale da quello che è eccessivo, comportandosi come un maestro di scuola che debba correggere un errore. Occorre, prima di tutto, accettare e accogliere dentro di sé l’esperienza della follia come necessità potente di volere e di creare un nuovo mondo che allontani il paziente da quello, troppo angusto, che lo opprime. Borgna rispetta il significato più profondo della follia: realizzare un’esperienza che è sempre oltre i limiti. Lo psichiatra non può fare altro che mettersi in ascolto, prima di esercitare la regia della sua terapia. E, soprattutto, ascoltare quelle esperienze che clinicamente non appartengono alle categorie della follia ma che esistono, sono resoconti di un’estasi, di una immersione nell’ultramondo. Consideriamo le sue parole su Teresa di Lisieux. “L’esperienza religiosa e mistica di Teresa di Lisieux – nasceva ad Alençon nel 1873 e moriva nel monastero carmelitano di Lisieux nel 1897 – risplende nei suoi manoscritti tradizionalmente divisi in tre segmenti (A, B e C), e raccolti in un libro, Storia di un’anima. La malattia, la tubercolosi polmonare, che si è manifestata nell’aprile 1896 e che che ne ha stroncata la vita nel settembre del 1897, si è accompagnata ad una modificazione profonda dei suoi stati d’animo: non più immersi da allora nei fulgori della gioia ma nelle notti oscure dell’anima. Cambiavano gli stati d’animo, e cambiavano i modi di di vivere la fede, e di essere in relazione con Dio. Sono pagine che non si possono leggere senza ascoltare il grido silenzioso dell’angoscia che lacerava e straziava la sua anima, e senza essere affascinati dalla grazia e dalla serenità, dalla luce interiore e dalla speranza, con cui nonostante tutto Teresa di Lisieux si confrontava con il silenzio di Dio, e con le ombre della morte imminente. Ma non si inaridiva in lei il desiderio della vita, e non veniva meno la accettazione del dolore, e del mistero del vivere e del morire, anche nel naufragare della fede ferita e aggredita dalla malattia” (Di armonia risuona e di follia, p. 181)
L’esperienza che la follia consente allo psichiatra Borgna è quella di operare nell’area della fragilità e della tristezza con strumenti nuovi che aiutino a vedere nella bizzarria l’originalità, nel delirio una nuova visione che aumenti la comprensione del mondo grazie all’ascolto, alla gentilezza, all’inclusione dell’altro dentro di noi. Il “campo di grani con corvi”, che tormentava l’ultimo Van Gogh come un’apparizione delirante, è anche il campo nuovo dove ritrovarsi dopo lo smarrimento della mente. Solo con questa inclusione, talvolta sofferta, che ci permette di non pensare i recinti del nostro ego ma il dolore dell’altro, possediamo gli strumenti con i quali, anche se sconfitti dal dolore, potremo reintonare la nostra vita con rinnovata intensità.
Ascoltiamo, insieme a Borgna, una poesia di Holderlin: “Dove sei? Poco ho vissuto, ma fredda spira / Già la mia sera, e muto, simile alle ombre, / Qui sono e senza canto ormai / Riposa il cuore tra brividi nel petto…” (ivi, p. 200). D’altronde, come scrive un poeta contemporaneo: “La poesia ha rapporti conflittuali con il linguaggio – tanto che le sue parole sono senza uscita: esse restano!” (Angelo Lumelli, Cento lettere, Joker, I Libri dell’Arca 2023, p. 132). In Hölderlin-Scardanelli, rinchiuso nella torre di Tubinga dal suo gentile custode, il falegname Zimmer, Borgna legge il punto dove l’imminente esperienza della follia è anche vertiginosa scia di speranza. La speranza, al culmine della disperazione, è la creazione del proprio destino vivente.
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