TSO, istruzioni per l’uso
A volte, in questa società mediatica, si distingue a fatica la realtà autentica dalla sua manipolazione e in modo superficiale o imperfetto si parla delle difficili strategie di cura per pazienti fragili e pericolosi. Il recente episodio divulgato dai media (il ricovero in TSO di un celebre scrittore italiano) è sintomatico. In questi casi si sviluppa una caccia o al colpevole di reato o alla vittima di violenza che non risponde a nessuna verità verificabile ma crea solo una nebbia indistinta e confusa: la realtà è sempre, comunque, il dialogo attento, la conoscenza dei fatti, l’analisi delle azioni, il rispetto della vulnerabilità altrui.
Il TSO non è lo scandalo di una violenza istituzionale ma uno scomodo atto terapeutico che colloca medico e paziente dentro una scena sgradevole ma necessaria: da un lato il medico impone la cura, dall’altro il malato rifiuta la cura. Ad esempio, se un grave paziente cardiaco non vuole seguire nessuna terapia e versa in pericolo di vita; se un alcolista in stato di scompenso minaccia atti lesivi; se una crisi delirante spinge una persona a vedere nel familiare un nemico letale; occorre comunque curare sempre la persona nonostante la sua negazione della verità psichica e fisica. Il paziente può non essere consapevole della sua malattia, ma il medico lo è, secondo il Giuramento di Ippocrate (che qui ricordiamo nella versione più antica, del V secolo A.C.) e dovrà, con tutti i mezzi possibili, con sollecitudine e ostinazione, con l’empatia e il rispetto necessari, cercare un sollievo per le sue pene, anche in modo coattivo: “...In qualsiasi casa andrò, io vi entrerò per il sollievo dei malati, e mi asterrò da ogni offesa e danno volontario, e fra l'altro da ogni azione corruttrice sul corpo delle donne e degli uomini, liberi e schiavi. Di ciò che io possa vedere o sentire durante il mio esercizio o anche fuori dell'esercizio sulla vita degli uomini tacerò ciò che non è necessario sia divulgato, ritenendo come un segreto cose simili. E a me, dunque, che adempio un tale giuramento e non lo calpesto, sia concesso di godere della vita e dell'arte, onorato degli uomini tutti per sempre; mi accada il contrario se lo violo e se spergiuro".
Parliamo, nel TSO, di una forma di contenimento. Quanto erompe da ogni individuo durante una crisi, in un momento che appare come rovinoso e irreparabile, può non esplodere più se la crisi viene alleviata e risolta: la ricerca del limite, della barriera, può essere pensata, imparata, costruita. E, paradossalmente, imparare a contenersi, a contenere è, in quell’attimo violento e furioso, salvare la vita, salvarsi la vita: trovare un rifugio, fosse anche nella culla di un letto, sedati, addormentati, in attesa di un risveglio che offra l’ulteriore speranza della guarigione.
In sintesi il termine Trattamento sanitario obbligatorio (acronimo TSO) comprende una serie di interventi sanitari applicati in caso di motivata necessità ed urgenza. Spesso si associano erroneamente i TSO alle sole patologie psichiatriche; ma possono essere predisposti per qualsiasi causa sanitaria, come ad esempio le malattie infettive, dove il rifiuto del trattamento potrebbe rappresentare una minaccia per la salute pubblica. Il TSO è disposto dal Sindaco in qualità di massima autorità sanitaria del Comune di residenza o del Comune dove la persona si trova momentaneamente, dietro proposta motivata di due medici (di cui almeno uno appartenente alla Asl di competenza territoriale). L'ordinanza del può essere emanata solo in caso di necessità e urgenza indifferibili Il trasporto del paziente in struttura ospedaliera, nei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (Spdc), deve essere operato dal servizio territoriale come emergenza extra-ospedaliera, in collaborazione con l'organo di polizia locale del comune di riferimento. La procedura termina con la convalida parte del giudice tutelare di competenza. Qualora necessità e urgenza siano procrastinabili, il trattamento sanitario possa essere attuato al di fuori del contesto ospedaliero (ad esempio a domicilio, con attivazione di visite domiciliari), e il sindaco può optare per il TSO extra-ospedaliero, il cui scopo è incidere meno negativamente sulla vita del paziente. Considerato un’eventualità del tutto eccezionale, innescata qualora tutti i tentativi di ottenere un consenso dal paziente siano falliti e di durata limitata nel tempo (massimo sette giorni rinnovabili), il TSO, come sancito dall'articolo 32 della Costituzione, deve svolgersi nel rispetto della dignità della persona, e trasformarsi, in qualunque momento, in “proposta di TSO”, con conseguente ricovero volontario del paziente.
Pur ammettendo l’atmosfera di violenza istituzionale che questo trattamento induce, ricordiamo che va sempre pensato come un atto di cura compiuto in situazioni estreme e indifferibili, in vista di un progetto futuro di salute e di equilibrio. Il medico, lo psichiatra responsabile, è il regista del TSO ed è lui a coordinare i comportamenti e le azioni del team operativo (se stesso, una unità infermieristica, eventualmente un altro operatore) con le forze dell’ordine necessariamente presenti. Il compiuto è uno solo: persuadere chi rifiuta la cura ad accettare, volente o nolente, una qualche terapia.
Le dinamiche, nel corso del ricovero, sono orientate da una strategia operativa che prevede il minimo di violenza e il massimo di persuasione: urgente è solo la necessità di attuare una cura nella prospettiva della futura salute del paziente. Benché spesso si svolga in modi non pacifici, il TSO resta un intervento autorevole compiuto quando l’alterato equilibrio del soggetto (causa di delirio, confusione, intossicazione, overdose), impone la necessità di una “pausa” l’attuazione di una terapia immediata che blocchi lo stato di turbolenza, consentendo al paziente di non essere solo vittima del suo dolore ma anche attore consapevole del proprio disagio.
Non esiste una modalità soft nell’attuare un ricovero in stato di TSO. Il paziente, se rifiuta la terapia, va guidato con energia in ambulanza fino al servizio ospedaliero competente, oppure curato a domicilio nei modi prescritti dal curante. Occorre decisione e fermezza, nell’atto terapeutico, e nessuna esitazione, per ridurre al minimo i rischi di una violenza reattiva, auto o eterolesiva. Ricordiamo che, in uno stato di alterazione, gli atti della persona malata non sono prevedibili. Nel rispetto della relazione medico-paziente il team operativo deve agire in modo veloce e risoluto affinché l’intervento traumatico sia il più breve e il più efficace possibile. Ci si è chiesti se sia lecito e giusto che il medico, impegnato nel ricovero, diventi in futuro anche il medico che seguirà il paziente. Le opinioni sono discordi. All’inizio, si ipotizzava di no. Poi, invece, si è provato, grazie all’esperienza, che è il paziente stesso a sentirsi rassicurato perché sente che il medico lavora sempre per la sua salute, ora in modo confidenziale, con gli strumenti del colloquio, ora in modo autorevole, con l’arma del ricovero.
Durante un trattamento sanitario obbligatorio ci si dovrà confrontare con la violenza del paziente, agitato, confuso, delirante, e con la fermezza dell’istituzione, che ha il compito fisico di alleviare quello stato attuando il ricovero. Occorre “fermare” chi soffre e non consentirgli di crollare in un dolore confuso, continuo, violento.
Il concetto di “fermata” è importante. La persona va contenuta nell’espressione eccessiva di un delirio o di un’agitazione che può diventare pericolosa. La fase della “fermata”, la coscienza del limite, è l’inizio della terapia, della pausa riflessiva. Ancora una volta il medico psichiatra, da illuminista delle ombre, deve saper condurre il paziente dall’oscurità della confusione alla consapevolezza del proprio dolore, anche attraverso le strategie non pacifiche di un ricovero coatto.
Ricordo il mio primo TSO, durante il mio secondo giorno di lavoro, nel settembre del 1982. Una donna si era barricata in casa e gettava nel suo cortile, dalla finestra, delle pietre. Sia i sanitari che i poliziotti hanno dovuto agire con grande prudenza, per evitare di essere colpiti e per poter contenere la paziente senza eccessiva violenza. Dopo quasi due ore, si è riusciti nell’impresa. La donna, ricoverata, sarebbe morta in ospedale sette giorni dopo, lasciando orfani due ragazzi. Uno di loro, allora quindicenne, avrebbe sofferto sempre di disturbi schizoaffettivi e si sarebbe suicidato a 28 anni nel 1995, lasciando però una traccia significativa di se stesso in diverse raccolte di poesie: un libro dedicato a lui è stato pubblicato quest’anno, a mia cura, con il titolo L’enigma di una voce, segno che la vita dell’arte non smette mai di pulsare anche dentro il più insostenibile dolore.
La forma estrema del TSO recide un nodo gordiano: chi soffre afferma: “sto male, ce la faccio da solo, non voglio intrusi che mi curino”; chi cura si oppone e dice: “Làsciati aiutare. Non ci riesci da solo. La tua sofferenza va bloccata”. C’è sempre bisogno di un altro che PENSI il malessere altrui con lucidità e competenza. Il ricovero non è la punizione per i comportamenti anomali o i pensieri paranoidi del malato il modo necessario di risolvere l’angoscia, pervasiva e cieca, con una nuova consapevolezza. Però, per raggiungerla, occorre un ambiente ospedaliero che allontani dai conflitti violenti. Parliamo, ovviamente, di un contesto in cui polizia e psichiatria non agiscano in modo anonimo e repressivo ma siano in costante dialogo/confronto, coordinate per aiutare chi soffre ed evitare pericoli maggiori.
Ricordo l’esecuzione del TSO a una giovane schizofrenica che viveva con una madre schizoparanoide. La madre ci aveva aperto la porta di casa ma non ci consentiva di entrare nella sua stanza. L’agente di polizia, un carabiniere, cercava di persuadere la ragazza solo parlandole, senza abbozzare la minima azione. Intuendo il pericolo in atto, l’infermiere che mi accompagnava convinse il carabiniere ad agire d’urgenza, forzando la porta appena in tempo e riuscendo ad afferrare la ragazza per una gamba prima che si defenestrasse. Questo è un errato coordinamento del team: il funzionario di polizia non doveva parlare (non era quello il suo dovere) ma agire concretamente, perché non accadesse una possibile tragedia. Durante un TSO le parti sono rigorosamente assegnate: è lo psichiatra a valutare i tempi dell’intervento, grazie all’intuizione clinica del pericolo. Ciò a volte non accade: si sottovaluta la potenza della crisi psicotica e si favorisce la violenza latente. I colloqui con un paziente in stato di agitazione (psicosi, alcoolismo, lutto) devono avvenire dopo, in un clima di distensione e di controllo, a ricovero avvenuto.
In sintesi, uno sgradevole approccio terapeutico come il TSO non deve essere demonizzato. In certi momenti della vita, non si è consapevoli di se stessi e si giunge a compiere atti violenti, pericolosi per sé e per gli altri. Il ricovero è il modo di interrompere, con un intervento autorevole, questa catena di violenze. Ma vorrei aggiungere un dettaglio. Occorre sempre vedere con attenzione questa possibile esplosività, al di là dei tempi razionali del ricovero. Anche quando il malato è libero dai vincoli ospedalieri e dice di stare bene, lo psichiatra, se è attento e non distratto dagli affanni del suo lavoro, deve saper prevedere una ricaduta. La sua empatia con l’altro non può concludersi con l’attuazione del ricovero: al contrario, inizia da lì e deve svilupparsi nella sfera del dialogo, del contatto, della vigilanza, e prevedere, nei limiti del possibile, che cosa potrebbe ancora accadere. Esistono “false guarigioni” che il paziente spesso, con acuta intelligenza, offre al curante come maschera del suo falso Sé e che devono essere smascherate dalla vera attenzione clinica. Quindi, alla fine, la sola risposta è: vigilare chi soffre i disagi della mente, vigilare con affetto ma anche con responsabilità.