Lallazioni, glossolalie, coprolalie, lingue matrigne

9 Gennaio 2024

Questi i sei capitoli nei quali si articola il libro di Pietro Barbetta, Linguaggi senza senso. Clinica transculturale (Meltemi, 2023): Lallazione. Lingua dell’infante”; “Erolalia. Elogio dello spazio; “Coprolalia. Sporcare il linguaggio”; “Ecolalia. Blowin’ in the wind”; “Glossolalie, xenolalie, mondi”; “Lingua matrigna”. In ogni capitolo l’autore mette in luce zone estranee al linguaggio significante e produttore di senso; zone segrete che reclamano attenzione, cura, studio, per non essere occultate nei silenzi della rimozione e nelle procedure della psicopatologia.

Commenta Barbetta: “I primi tre capitoli del libro riguardano, per dire così, la fisiologia del linguaggio, la vita nei suoi sviluppi positivi e negativi” (LSS, p. 18). Poi, ancora: “Il capitolo successivo è – se vogliamo intenderlo così – il contrappunto del capitolo secondo; s’intitola coprolalia e osserva il maschile; dall’atto della bestemmia, al gusto per il disgusto, l’ottusità, il bisogno di sopraffazione, fino in fondo alla caverna dello stupro, dell’abuso in famiglia e della pedofilia». E, qualche riga dopo: «I capitoli successivi hanno rapporto con la patologia del linguaggio; quella forma di equilibrazione che porta il linguaggio a regredire. La patologia ripresenta nuove e differenti questioni dell’insensato. Come se il linguaggio non fosse espressione del pensiero ma, al contrario, il pensiero espressione minore del linguaggio”. (LSS, p. 19)

Il libro di Barbetta è complesso e semplice: vuole percorrere le diverse età “linguistiche” dell’uomo, dal tempo della lallazione a quello dell’età adulta, e propone uno sguardo libero, senza pregiudizi, scientifico e poetico insieme, che costeggia con passione l’area magmatica del rimosso. Nel corso del libro verranno analizzati i casi clinici di Hölderlin, Artaud, Kafka, Joyce, Wolfson, ma anche di personaggi esemplari, come la visionaria Hélène Smith.

Daniel Heller Roazen sostiene che “il processo di apprendimento della lingua materna è abitato da perdite costitutive: un’enorme quantità di fonemi cadono, come una cascata, dallo spazio fonetico dell’infante”. Aggiunge Barbetta: “Le lingue sono tali perché esiste un’indefinita quantità di suoni che vengono negati” (LSS, p. 25). La perdita dell’insensatezza delle lingue non è un’acquisizione razionale, non è un segno di maturità, ma è in tutti i sensi una perdita, come la follia non è l’opposto negativo della ragione ma un patrimonio, ricco e confuso, dal quale attingere ancora. Esistono scritture, ricorda Barbetta, che ci riportano all’origine e lasciano poco spazio alle logiche del senso, come l’opera di Blanchot, sempre attenta al lessico dell’oscuro, dell’abisso, delle tenebre. “Il protolinguaggio attraversa l’opera di Blanchot in maniera differente rispetto a Schreber e a Joyce. Se in Schreber ha carattere schizo-paranoide e in Joyce carattere autistico, in Blanchot il protolinguaggio ha una dimensione nostalgica, a-spaziale, a-temporale, dove non accade nulla…” (LSS, 39-40).

Barbetta indaga attentamente l’attimo in cui, alla grave perdita del colloquio razionale con l’altro, si contrappone la capacità di spontanee improvvisazioni poetiche, come nel caso di Friedrich Hölderlin. Esiste in sintesi, un’attività glossopoietica, una creazione linguistica che, in taluni casi permane nell’età adulta ed è legata alla fantasia immaginante. L’autore è molto chiaro nel dirci come lallazione e glossolalia non possano essere ridotte a un protolinguaggio che, in una fase successiva dell’evoluzione linguistica, la ragione adulta sarà in grado di sottomettere, sopprimere, colonizzare. Queste aree, anche segrete, irradiano energia “altra” e, in condizioni di alienità, creativa o patologica, possono tornare essenziali, necessarie, vitali: “...la glossolalia è una produzione linguistica estetica e idiosincrasica – come nel caso di Hölderlin, Wolfson, Schreber, Artaud – ma anche comunitaria, come nelle esperienze religiose. Copre entrambi gli aspetti, è delirio del soggetto collettivo, ma anche dell’individuo fuori di sé, posseduto. Apostoli e indemoniate sono accomunati da lingue estranee come il paziente schizofrenico, la medium, il bardo. La caratteristica di questo linguaggio babelico è l’eccentricità, l’esser fuori dal foro del discorso, essere linguisticamente ai margini (LSS, pp. 134-135)”. L’indagine del “margine” è motore e centro di questo libro che è, insieme, studio antropologico, trattato psicopatologico, esposizione di teorie linguistiche: “Insieme alla lallazione, la coprolalia, l’ecolalia, la glossolalia, e i linguaggi dell’erotismo, c’è un’altra dimensione della lingua non significante: la molteplicità delle lingue nomadiche. Il nomadismo linguistico si presenta sotto diversi aspetti. In una nota precedente, ho osservato come la parola bambino abbia radice nel verbo greco bambaino – balbettare. Bambaino, presso gli antichi, significa anche parlare la lingua materna da straniero: barbaro” (LSS, p. 139). Il balbettìo, la barbarie, sono estranei a ogni linguaggio discorsivo. Ma dentro l’estraneità, dentro il nomadismo, si annida il contrario della semplificazione: ogni “lacuna”, dall’afasia all’autismo, è il controcanto della piena lingua visibile, è la zona perturbante intorno alla quale sospendere ogni funzione ordinatrice e razionale e prepararsi ad ascoltare qualcosa di diverso: una zona d’ombra da cui imparare, anche se ascoltarlo ci risultasse incomprensibile.

Nel linguaggio erotico accade qualcosa di simile: il soffio delle parole che gli amanti respirano insieme è una forma di erolalia, un balbettare insieme che respinge giudizi, giudici, discorsi, e invita solo alla ninnananna dei baci, al batticuore delle carezze. “Erolalia significa che parlare di sesso è già farlo, è sussurro presso l’orecchio dell’altro, soffio, sospiro, sensazione, solletico”. (LSS, pp. 98-97).

Niente, nel libro di Barbetta, appare estraneo, remoto, cancellato. Si descrivono forme di vicinanza e mai di esclusione. E vibra una sotterranea complicità con le “anime perse” di artisti e persone, come nel caso di Louis Wolfson, schizofrenico, nato a New York, cresciuto in un ambiente monolingue inglese, che si rifiuta di parlare in quella lingua (la sua, “la lingua della madre”) e scrive romanzi in lingua francese. Il libro sottolinea la vicinanza dell’autore a dolori inenarrabili, come quando descrive l’esperienza protomentale dello stupro pedofilo, quell’attimo in cui la creatura violata entra come in trance e non può parlare, la lingua soffocata in gola verso una condizione pre-lallativa che le blocca il fiato.

In Linguaggi senza senso l’afasia accompagna il discorso, l’autismo le relazioni, la filosofia il balbettìo, la schizofrenia il dialogo. Nulla viene rimosso o escluso, ma tutto è un concatenarsi di analogie che ci riporta alla filosofia di Giordano Bruno, al diagramma di un flusso dove, se osservi un vuoto, non vedi l’assenza del paesaggio ma la molteplicità delle particelle che compongono quel vuoto. Includere, parlare, guardare, baciare, tacere, leggere, scrivere, sono esperienze che si agglutinano insieme. Il linguaggio autistico può anche essere polifonico, pur non esprimendo sequenze verbali precise, e rivela un’emozione segreta, potenziale, che si esprime senza esprimersi: “quanto è stato definito nei termini di disabilità, sul piano del discorso medico-sanitario, può assumere connotazioni poetiche e politiche, se includiamo nel campo degli studi disabili il piano socio-letterario…” (LSS. p. 96). L’autore si spinge anche oltre, quando studia il rapporto fra l’indicibilità del dolore e l’inadeguatezza del linguaggio. Così scrive Barbetta: “...tra corpo e linguaggio vi è infatti reciproca immanenza, ce lo insegnano i corpi teneri dei neonati, dei feriti, dei disabili, dei folli che gridano, lamentano, gioiscono e non si lasciano comprendere nel loro non dire, con espressione, ciò che sentono. Qualcosa per noi rimane oscuro sul piano significante, qualcosa ci costringe ad abbandonare la semantica (LSS, p. 116). Come fa il protolinguaggio blanchotiano, nelle sue strutture narrative, che mai si organizzano in racconto o romanzo, ed evocano, come in Thomas l’obscur, un esistere fantasmatico, informe. Gli artisti restano messaggeri misteriosi: di qualunque linguaggio facciano uso, testimoniano una dissociazione radicale e si mettono ai margini del mondo reale, come “i folli che gridano”. Barbetta inventa, con Linguaggi senza senso, un libro scientifico dove mostrare visioni poetiche, terapeutiche, personali, sottraendo lingua e persone al colonialismo unificante del potere, a tutti i livelli del potere: mantenendo viva una clinica transculturale che traversa linguaggi incomprensibili (ma sempre da ascoltare e interpretare), lasciandoli aperti alla poesia della mancanza di senso, immersi nel libero sguardo dell’osservatore che non soggiace a semplificanti, oppressive verità. “Questo libro è una riflessione sui linguaggi privi di senso. Il neopositivismo logico e lo scientismo si sono scagliati contro i linguaggi privi di senso, li hanno rigettati, censurati, accusati, ridicolizzati, manicomializzati, farmacologizzati, mietendo consensi da sempre” (LSS, p. 17). Barbetta rifiuta ogni forma di rimozione: esige, dal lettore, un alto livello di attenzione e di lucidità che salvi l’uomo dalla vergogna di non aver voluto ascoltare, con l’intelligenza e con l’emozione, ciò che corpi e linguaggi cercavano di esprimere oltre le regole del senso: compito, questo, di una psicoterapia olistica, capace di consapevole pietas. L’autore ribalta l’impianto epistemologico della psicologia per tornare a riflettere su oggetti parziali o stati alterati. Come quando, in condizioni di estraniazione mentale, si possono ricordare parole pronunciate in lingue estranee alla propria, e ogni volta percepiamo che la realtà non è uno stabile sistema di leggi definite ma piuttosto un vaso ampio e fragile, dove si condensano l’io e l’altro da sé in forme sempre nuove, semplici e complesse.

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