Ripellino, maestro di fantasmi
Parlare, nel centenario dalla nascita, di Angelo Maria Ripellino, poeta, saggista, traduttore, docente universitario, critico teatrale, giornalista, è impresa chimerica, per la complessità della persona e per la ricchezza dei suoi temi. A parlare degli altri, degli amati scrittori slavi (e non solo), è sempre stato lui, per tutta la sua vita terrena, con quello stile sulfureo, esplosivo, eccessivo, estraneo a ogni accademia, metaforico nel suo tripudio barocco, turbinoso, sostanzialmente inimitato. Ripellino, nel corso del (raro) tempo che gli fu concesso in vita, ci ha mostrato il lato bizzarro e magnetico della letteratura europea più “segreta” (ceca, polacca, russa), traducendo, reinventando, ri-scrivendo, sempre sulla scia dei suoi remoti e recenti maestri, fra acrobazie linguistiche e stravaganze tematiche.
L’autore di Praga magica ha traversato, da bislacco flâneur, un’epoca conformista, piatta e contraddittoria, come quella tra gli anni cinquanta e settanta del millennio scorso, trovando sempre un eccentrico equilibrio nel raccontarci di avanguardie balorde e destini a noi sconosciuti. In ogni suo libro, critico, narrativo e spesso poetico, ci conduce, fin dall’inizio, dentro un mondo di lemuri e fantàsime, ciarlatani e alchimisti, pagliacci e negromanti, spettri e marionette, mostrandoci gli scrittori che ama e che vorrebbe noi avessimo l’occasione di amare proprio attraverso la sua sfavillante e frenetica traduzione-interpretazione. Una critica, la sua, da raptus emotivo, mai arresa alla neutra descrizione di un evento teatrale o letterario ma sempre trasfigurazione sarcastica, eccitata, funambolica, esposta in uno stile ebbro, apparentemente improvvisato. Sua è la scoperta, per il lettore italiano, di uno degli scrittori imprescindibili del Novecento europeo, il polacco Bruno Schulz. Leggiamo, dalla sua prefazione all’edizione Einaudi del 1972 delle celebri Botteghe color cannella, poi raccolta in Saggi in forma di ballata: «Ma come è dissimile la scrittura di Schulz dallo stile vitreo di Kafka, dalla sua casistica da talmudista, dalla sua avvocatura trascendentale: il linguaggio schulziano, succoso, sfavillante, pròdigo di aggettivi ed incline all’ornamento, agli svolazzi... Ciò che più stupisce nelle invenzioni dello scrittore galiziano è l’esuberanza irrefrenabile delle immagini. Grappoli, caracolli, cascate di comparazioni a disargine, un furore analogico. Lo stesso Schulz confessa: “Dipende da una caratteristica della mia esistenza che io parassiti nelle metafore, che mi lasci così facilmente trascinare dalla prima metafora che trovo”. Lo strabocchevole metaforismo dilata a proporzioni iperboliche le piccole epifanie di Drohobycz» (SFB, p. 202).
Quanti autori ci ha fatto conoscere Ripellino, attraverso le sue versioni e introduzioni e la sua attività di consulente editoriale, fin dai primi anni cinquanta? Migliaia, fin dal primo libro del 1950, Storia della poesia ceca contemporanea. Classici, scrostati dalla polvere del tempo e dei cattivi maestri, come Dostoevskij, Puškin, Lermontov, Tjutčev, Cechov, si affiancano ai più significativi esponenti delle avanguardie storiche, non di rado presentati per la prima volta in italiano: da Blok a Chlebnikov, da Pasternàk a Majakovskij, da Halàs a Holàn. Un universo in subbuglio, fitto di nomi noti solo agli specialisti, dove la tragedia della storia irrompe attraverso la voce conturbante e sfasata di interpreti originali, voci fuori dal coro.
Ripellino indaga ogni tema e ogni testo con annotazioni sorprendenti, dove la critica del testo si mescola alla percezione fisiologica dello scrittore esaminato, come in Gogol’ e Rozànov. Nella recensione Il cigno abbandonato (IRS, pp. 517-518), parla del «linguaggio frenetico della Cvetaeva, di quell’asfissia del linguaggio, malmenato e strozzato, ridotto a monosillabi, a gridi, a deflagrazioni – di quell’Alta Raucedine, sgrigliolìo di parole sfiancate e contratte, che si reggono insieme, come una turba di invalidi e di sbandati, mediante trattini e rimandi fonetici, che guizzano per i versi come micce…». Parole davvero impensabili, nella critica del suo tempo e nel tempo accademico di ogni critica; parole-incantesimi, frustate consapevoli, lampeggianti correspondances, come quando sottolinea la sorprendente somiglianza fra l’impassibile comico Buster Keaton e il materico poeta Boris Pasternàk. Vagando nei manifesti e nei vangeli dell’avanguardia, con una particolare propensione per cubofuturismo e costruttivismo, Ripellino ritrova invenzioni felici e assurde sciocchezze.
Con il consueto stile iperbolico, sedotto dall’accumulo verbale, scrive: «Una volta leggevo i manifesti dei gruppi letterari russi del Novecento con lo stesso fervore con cui gli appassionati per le corride divorano le reboanti rubriche taurine. Oggi quegli urli da ballatoio, quelle beghe di famiglia, quelle girandole da truffaldino, quegli imbonimenti da unguentario, quelle fanfaronate non riescono più a entusiasmarmi» (NGS p. 73). Sfila nei suoi saggi, come nel cabaret-manicomio del polacco Witkiewicz, un corteo carnascial+esco di golem e di robot, insieme ai profili ieratici o irriverenti dei poeti prediletti, dal lunatico Blok al clochard Chlebnikov, dal febbrile Majakovskij al telegrafico Sklovskij, dalla cristallografica Commedia del Discorso su Dante di Mandel’štam allo “stramparlone” Hrabàl. Ogni sua pagina è uno spettacolo pirotecnico di arguzie verbali che sfolgorano eccentriche non a coprire un vuoto speculativo ma a rivelare, come maschere illuminanti, percezioni critiche archetipali. Ripellino non si accontenta di scoprire un autore ma deve traboccare in lui, assaporarlo, inventargli una cornice in continue rifrazioni di specchi. Rivendica la caparbietà di non soccombere allo sfacelo, di tenere a distanza con la pienezza delle sue parole la presenza incombente della morte, annunciata dalla tubercolosi fin dagli anni della giovinezza. Fondatore di un linguaggio lirico ai limiti della narrazione poematica o del libro in versi, il critico siciliano azzarda analogie che aprono il testo a ipotesi nuove: parlare di un libro, introdurlo per il lettore, è inventare somiglianze e raffronti dove mettere alla prova il “clavicembalo non temperato” della sua prosa, in un subbuglio metaforico che entra in assonanza o contrasto con il tema trattato, evocandolo, raddoppiandolo, imitandolo, come nei fumi di una lanterna spettrale.
Una citazione da Rozànov, in Foglie cadute, è illuminante. Così Ripellino: «Sempre più e più mi pare – asserisce Vasilij Rozànov – che i letterati siano tutti dei brandeljàsy. Il bello di questo fonema è che non esprime e non indica nulla. E appunto per questa sua qualità si dimostra particolarmente applicabile ai letterati» (SFB, p. 7). Gli “sconfitti” senza futuro, che popolano le opere degli scrittori slavi, potrebbero ripetere, con il tetro Rozànov: «Porto la letteratura come la mia bara, porto la letteratura come la mia tristezza, porto la letteratura come la mia nausea» (ibidem, p. 7). Inclini a un patetico masochismo, sono le figure-ombra dei personaggi strampalati e distimici di tanti racconti praghesi, da Hrabàl a Nezval. Evidente la bipolarità dello slavista palermitano, la sua personale tristezza esistenziale di “malato” consapevole, tristezza che lui stesso, nonostante le esibite clowneries, denuncia in una delle ultime poesie: «Sonare su un violino in fiamme / una mia seguidilla / prima che cada il sipario come una ghigliottina. / Mi piace il fragore, il bailamme, / ma la mia vita arlecchina, / veliero viluppo di stracci/, con la sua gracile chiglia / si impiglia in un gruppo di ghiacci. // Avanzare con grandi falcate di goffa pavana, / gonfiarsi come una rana. / Riempire di propri scartafacci la stiva / sognare che il nome / fra tanto oblìo sopravviva. // Quanta enfasi, quanta arroganza cetrulla. / O vita, o Hanna Schygulla, / sciantosa di varietà, sulla riva / del Nulla» (NSV, p. 86). Ma, quando Ripellino è poeta in proprio, ci appare spesso troppo nudo e disarmato, e la sua scrittura bislacca è più prevedibile di quando, invece, con quella stessa scrittura, penetra nelle vite degli altri e utilizza aneddoti, testimonianze, leggende, manifesti, pezzi di destini, citazioni di opere, come un puzzle da cui far brillare la miccia della sua immaginazione.
Ripellino, benché la morte lo abbia rapito nel lontano 1978, era già da allora il custode di un mondo remoto, estraneo alla vita reale. I suoi saggi non sono mai sistematici, nella effervescente erudizione, nell’eccessiva empatia: assomigliano a tessuti polifonici, cantilene liriche, poemetti in prosa; la sua scrittura/pittura pulsa di una febbre mercuriale, intreccio di allusioni e illusioni, che è cadenza musicale e potente, divisa fra rigore e raptus.
La sua “letteratura come itinerario nel meraviglioso” è una favola che mescola “il trucco e l’anima”, come nel titolo di uno dei suoi libri più celebri. Dove non c’è trucco non c’è anima, e viceversa. L’enigma della finzione diventa vita balorda, eppure vita, anche se dentro una bruma di nebbie, come quando analizza la Pietroburgo di Andrej Belyi: «La Pietroburgo di Belyi è dunque un groviglio di gialle nebbie sventolanti sulle paludi. Una babele chimerica, fosforescente, fumosa, nei cui neri interstizi vacillano parvenze fonetiche, larve, siluette catapultate dagli ingranaggi d’una capziosa macchina cerebrale. Larve che appaiono e dispaiono come cerchi illusori di fuoco, tracciati con una fiaccola nel buio» (LIM, p. 201).
Davvero è difficile leggere una frase di Ripellino isolata dal suo continuo concertarsi-confrontarsi con la scrittura di un Belyi o di un Blok, di un Pasternàk o di un Gogol: ogni particella della sua sintassi commenta scene di racconti o dettagli biografici, quasi che il critico fosse testimone non del suo tempo ma proprio di quell’antico tempo letterario. L’espressionismo incantato in cui si muovono i fantasmi degli scrittori evocati da Ripellino come in un’onirica scena hofmanniana, è lontano dallo stile ascetico e tragico di Kafka: ma, oltre al Kafka di La metamorfosi e del Processo, esiste un lato kafkiano di grottesca efficacia: è lui a inventare una misteriosa creatura di nome Odradek, uno strambo essere-marionetta, un rocchetto di filo che fa ruzzolare chi incontra e che non ha nulla di umano. L’Odradek, come le marionette schulziane delle Botteghe color cannella, si accorda in modo perfetto alla fantasia dell’immaginoso Ripellino.
Trasformare il mondo in un arsenale di fantasmi subumani è il sogno non segreto del critico-scrittore, che strappa al silenzio spettri destinati al regno della notte. Non è insolito leggere, in alcuni suoi libri, frasi telegrafiche dove a dominare non sono i mattoni del pensiero ma il vapore dei nomi e dei luoghi, che esistono come giocattoli da teatro delle ombre, dissolvenze evocate dal regista praghese Joseph Svoboda. Ripellino scrive come su una tavolozza, pittore delle sue parole. Lo immaginiamo raccogliere la sua scrittura in supporti casuali, lettere, inviti, biglietti, simili ai versi che Chlebnikov perdeva nelle tasche del suo cappotto, nelle federe dei cuscini, nei vagoni ferroviari. Ma, più ordinato del poeta, il critico riunisce quei materiali, raccolti in tempi diversi su temi e autori prediletti, li assembla e organizza il suo discorso critico come un erudito, teatrale, forsennato puzzle. La limpida grafia ripelliniana, priva di correzioni, felice e sorgiva, contrasta nettamente con il materiale prorompente e caotico che descrive. Il gioco incalza. Ripellino crea un contromondo di fantasmi, un circo dissonante e invisibile con cui esorcizzare la morte. Ma soprattutto scrive dentro le frasi dei suoi personaggi. Di volta in volta è Gogol’ e Blok, l’eco di Gogol’ e Blok. La sua scrittura si intride della loro, vi si immerge, ne cattura onde, suoni, puzze, profumi, dissolvenze. Inventa un nuovo palinsesto, nebuloso e sulfureo. Si fa lei stessa pastiche, guazzabuglio, giocattolo composto di altri giocattoli, jeu infelice e gaio, caleidoscopio infranto, specchio illusorio come nel finale della wellesiana Signora di Shangai.
Ripellino stesso scrive, parlando del poema di Blok La Sconosciuta: «Queste trasmutazioni prodigiose si svolgono tutte sullo sfondo di Pietroburgo, concepita nella tradizione di Gogol’ e di Dostoevskij, come città incomprensibile e stregata, come incantesimo sorto dalle acque rugginose delle paludi finniche. Non è la Pietroburgo neoclassica dalle architetture severe, non la Palmira del nord magnificata da Puskin in Mednyi usadnik (Il cavaliere di bronzo), ma la Pietroburgo del Nevskij e soprattutto degli angoli periferici, intreccio di vicoli sordi, di grigie casupole, di taverne e cortili» (LIM, 145-146). Il gioco magico dell’alchimista palermitano continua, incantato, scomodo, inquieto: «Ma sì, Sparafucile era proprio un cavallo a dondolo. / Ed io con schinieri di carta stampata in groppa / alla scomoda schiena dell’incantevole mondo» (NSV, p. 275). E, con toni più struggenti, in una delle poesie più mature, ci racconta la sua essenza di homo melanconicus: «Com’è lontano il tempo in cui bussavo / alla luce di Kampa verdognola e viola / alla porta serrata con cinque mandate tenaci / da Holàn» (NSV, p. 389).
Libri consultati
- Angelo Maria Ripellino, Letteratura come itinerario nel meraviglioso (LIM), Einaudi, Torino 1968.
- Angelo Maria Ripellino, Saggi in forma di ballata (SFB), Einaudi, Torino 1978.
- Angelo Maria Ripellino, L’arte della fuga (AF), Guida editore, 1987 Napoli.
- Angelo Maria Ripellino, Notizie dal diluvio. Sinfonietta. Lo splendido violino verde (NSV), Einaudi, Torino 2007.
- Angelo Maria Ripellino, Iridescenze, vol. I-II (IRS), Nino Aragno editore, Torino 2020.
- Angelo Maria Ripellino, L’arte della prefazione (AP) (a cura di Antonio Pane), Pacini editore, Pisa 2022.