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Némirovsky, il carnevale della vita

24 Febbraio 2025

Una scrittrice si rivela nelle sue esitazioni, nelle sue incertezze, nelle note a margine di un manoscritto incompiuto che tuttavia riesce a sprigionare la bellezza vaga e indefinita di quanto viene lasciato ancora all’immaginazione. «Questa funesta e stupida abitudine», così Irène Némirovsky definiva la sua scrittura, mitigando poi appena il rimprovero con un incerto «Mi piace, per ora, almeno»: lo scopriamo dalle numerose annotazioni autografe presenti in I giardini di Tauride, il racconto incompleto e frammentario che conclude la raccolta Il Carnevale di Nizza, appena edita da Adelphi con la curatela di Teresa Lussone.

Quel manoscritto ritrovato – un’altra perla della fortuna postuma di Némirovsky – fu rinvenuto nel 2014, ben dieci anni dopo la propizia pubblicazione di Suite francese, da una dottoranda di ricerca dell’Université Paris Nanterre, Elena Quaglia.

Il racconto appena abbozzato, ricco di note a margine e riscritture, permette di udire – a oltre ottant’anni dalla sua precoce scomparsa nell’inferno di Auschwitz – la voce viva di Irène Némirovsky, immergendo direttamente il lettore nel dietro le quinte della sua officina di scrittura.

In quell’ultimo racconto le parole sono spesso sottolineate, emendate, riscritte – e ad ogni correzione avvertiamo un sottile perfezionamento nello stile dell’autrice. Il lavoro filologico ce lo restituisce intatto. A un certo punto Irène annota: «Sento che qui c’è qualcosa di prezioso che non riesco a esprimere», un’osservazione che ci mostra tutto lo struggimento e il riannodarsi spesso inoperoso della sua prosa. Irène Némirovsky sembra costantemente rimproverare sé stessa e i suoi personaggi: in queste pagine cogliamo la sua frustrazione, soprattutto nei confronti della protagonista bambina «troppo innocente» e della madre «calma e sicura di sé». Eppure, è così che nascono i capolavori, grazie alla determinazione scaturita dall’insoddisfazione, la quale in fondo non si dissocia mai dal talento.

Leggendo con maggiore attenzione I giardini di Tauride e le correzioni a margine dell’autrice possiamo avvertire quell’incandescente forza creativa che avrebbe nutrito le pagine di Suite francese: Némirovsky, scrivendo e riscrivendo, stava affinando uno stile sperimentale, a tratti cinematografico, e accordando il coro di voci dei suoi personaggi. Il manoscritto riporta in calce la data 18 aprile 1934; all’epoca Irène aveva trentun anni e stava cercando di trovare una prospettiva, la giusta voce narrante. Da lì a poco avrebbe scritto il suo romanzo forse più autobiografico, Il vino della solitudine (1935), che vedeva come protagonista una bambina che diventa donna: Hélène, la quale, proprio come la piccola Élisabeth di I giardini di Tauride, ha la percezione oscura di essere un intralcio per la madre. Il rapporto complesso tra madri e figlie sarebbe stato una costante nella narrativa di Némirovsky, da Il vino della solitudine al più controverso Jezabel (1936): il germe di questa tematica lo troviamo già presente nell’annotazione manoscritta: «mostrare l’incomprensione reciproca», in quelle poche righe febbrili e illuminanti Némirovsky si prefigge di non fare di Élisabeth una «bambina poco amata» ma di mettere in luce, per l’appunto, qualcosa di più sottile, di più delicato, come «il momento esatto in cui ho cominciato a intravedere l’amarezza della vita».  L’innocenza non è mai completa nelle opere della scrittrice ucraina naturalizzata francese, c’è sempre qualcosa che la insidia e tutto ciò ha, per certo, un’origine autobiografica: l’infanzia della stessa Irène, nata a Kiev nel febbraio 1903, fu presto adombrata dal presagio della Rivoluzione russa che costrinse l’intera famiglia alla fuga dal paese d’origine. L’esistenza di Irène Némirovsky fu una vita in esilio, in bilico tra due lingue, due culture: la Francia, terra d’approdo, non l’avrebbe salvata, respingendola in quanto ebrea. I suoi giorni sarebbero terminati nel campo di concentramento di Auschwitz, dove morì a soli trentanove anni, lasciando due figlie – Denise ed Élisabeth – a custodire la sua memoria e, soprattutto, un prezioso quaderno contenuto in una valigia marrone. La riscoperta tardiva della scrittrice – grazie alla pubblicazione postuma di Suite francese, caso editoriale in Francia nel 2004 – è divenuta leggenda; ma l’inattesa salvezza letteraria rischia di oscurare con la sua aura mitica l’importanza del vissuto precedente di Némirovsky: la sua infanzia travagliata, la fuga, l’innocenza tradita. Il cuore pulsante della scrittura di Irène è racchiuso qui, nei suoi primi anni di vita, come ammise lei stessa: «Da un’infanzia infelice non si guarisce mai». Curiosamente nel racconto incompiuto di I giardini di Tauride ritroviamo proprio lo sviluppo narrativo di questa constatazione: il testo infatti si chiude con l’immagine della piccola Élisabeth che – come Irène – sale su una barca destinata a portarla lontano dalla patria. Némirovsky e i suoi genitori avevano lasciato la Russia via mare dopo una fuga rocambolesca attraverso i boschi travestiti da contadini.

Potremmo racchiudere l’intera vita della scrittrice di origine ucraina entro le due coordinate strategiche del “Secolo breve”: la Rivoluzione d’ottobre e la Seconda guerra mondiale, eventi sanguinosi e senza ritorno che avrebbero definito un’epoca.

A fare da contorno allo sradicamento di Irène c’era una famiglia disunita composta da Fanny (pseudonimo di Anna Margoulis), madre egoista e frivola e da Leonid, un padre perlopiù assente. Lei scrisse sempre in francese, la lingua della sua governante, Madame Zezelle, un’altra figura ricorrente nelle sue opere, dove sovente sono le balie a mitigare il vuoto affettivo lasciato dalle madri.

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Nei racconti di Il Carnevale di Nizza ritroviamo tutte le tematiche chiave di Némirovsky, variamente sviluppate attraverso una coralità di voci in grado di restituirci la vertigine e l’abisso racchiusi in ogni esistenza. Si tratta di testi giovanili che ci rivelano un lato inedito e prezioso dell’autrice: la raccolta adelphiana si apre con una serie di avventure satiriche con protagonista Nonoche, una ragazza ingenua e un po’ svampita, di facili costumi e di scarsa cultura, che al Louvre confonde la Nike di Samotracia con una sfinge egizia e si fa beffe della Gioconda. Racconti brevi, simili a sceneggiature, alcuni Némirovsky li scrisse a nemmeno vent’anni pubblicandoli su riviste: il primo, Nonoche dalla chiaroveggente, fu composto nel 1921 per il quindicinale «Fantasio». La scrittrice stessa definì questi suoi primi componimenti come opere «infantili e allegre»; ma non dobbiamo lasciarci ingannare dal suo giudizio poiché, superati i vivaci sketch dedicati a Nonoche, già siamo immersi nell’atmosfera tipicamente nemirovskyana in cui le luci e le ombre si confondono in un orizzonte brumoso ammantato di malinconia. Spesso a fare da sfondo è la città di Parigi, che è oscura e misteriosa, ovvero quanto di più distante dalla proverbiale Ville Lumière. Il paesaggio, nella scrittura di Némirovsky, non è solo paesaggio, diventa il riflesso preciso e specchiante di uno stato d’animo e la giovane penna dell’autrice è abile nel tratteggiarlo con dissolvenze quasi cinematografiche. Si avverte distintamente l’influenza di due maestri dell’arte del racconto: il russo Anton Čechov, al quale Némirovsky avrebbe dedicato persino una biografia (La vita di Čechov, edita in Italia da Elliot nel 2015), e Katherine Mansfield, citata esplicitamente nelle note come primaria fonte di ispirazione. La giovane Irène lesse e rilesse i racconti di Mansfield, in particolare Preludio e Alla baia, sino ad assimilarne il ritmo che in Il Carnevale di Nizza assume il tono malinconico di un leitmotiv che si ripete scandendo il tempo.                                                                                                                                      
Nella variopinta commedia umana che popola queste pagine una voce su tutte emerge, forse con maggiore struggimento: quella della Njanja, l’anziana tata russa che segue la famiglia dei padroni sul suolo francese, dopo che San Pietroburgo è stata sconvolta dalla Rivoluzione. Nella donna anziana, ritratta come se fosse cristallizzata nella sua vecchiaia immutabile, si condensa il sentimento di nostalgia per la patria perduta: la Njanja sogna la neve, ma scopre che a Parigi non potrà vederla. «Dunque l’inverno non arriverà mai?» domanda con angoscia. In poche pagine Irène Némirovsky condensa con intensità il senso di soffocamento e di disperazione che scaturisce dalla percezione di “essere stranieri”: l’anziana donna è condannata a morire lontano dalle sue pianure innevate, stretta dalla morsa fatale di una nostalgia senza redenzione. Saranno «mani straniere» a chiudere i suoi occhi, annientando così «tutto ciò che restava di un’intera stirpe»: un intero Paese (il castello, il parco secolare, lo stagno), osserva Némirovsky, viveva nel cuore fedele della vecchia, nella sua tristezza inconsolabile perché incapace di dimenticare. È interessante osservare che il racconto di I giardini di Tauride con protagonista la piccola Élisabeth si chiudeva con un sentimento analogo: «Si sentiva stanca e vecchia». Nel momento in cui abbandona per sempre la sua terra natale la bambina avverte il peso insostenibile di una vecchiaia precoce: da questo punto di vista due personaggi all’apparenza così distanti, come Élisabeth e la Njanja, appaiono in realtà invincibilmente uniti.  Infanzia e vecchiaia sono due stagioni della vita che si corrispondono e sembrano amplificare il senso di sradicamento che doveva abitare nel profondo il cuore dell’autrice. Nell’infanzia, così come nella vecchiaia, alberga il presentimento della fine: i bambini sanno che non resteranno bambini per sempre e questa certezza, nei racconti di Il Carnevale di Nizza, è amplificata da malinconici ritornelli come «Enfance, innocence, aube de la vie» che attraversano testi di grande pregio letterario. Uno su tutti Natale, un racconto che si apre con un’atmosfera festosa ma si rivela essere tutt’altro: la storia di un aborto mancato, una sorta di rovescio satirico, ma dal retrogusto tragico, del tema della natalità. L’ipocrisia borghese è ritratta dall’autrice in maniera maestosa con un’audacia che si rivela soprattutto nella scelta della cornice: il giorno di Natale, la festa per eccellenza dell’infanzia, perde parte del suo fascino dissolvendosi nella più amara consapevolezza dell’età adulta. Dopo la vertiginosa atmosfera d’attesa della vigilia, cosa resta? La carta stracciata dei pacchi regalo, le stelle filanti sparse per terra, un albero spoglio e una bambina che piange senza sapere perché – il dramma le è stato occultato, ma lei, con il sesto senso innato che hanno solo i bambini, lo ha inteso. Ora finalmente cade la neve, la neve un tempo tanto attesa dalla povera Njanja; eppure l’incanto è finito per sempre. Némirovsky è abile nel ritrarre le tristezze improvvise che attraversano l’infanzia come presagi: la graduale perdita di innocenza è la chiave di volta di quasi tutti i testi della raccolta, obbedendo all’osservazione autografa custodita nelle ultime pagine: «Mi occupo della mia infanzia/ cercare di descrivere una bambina più amara, più vera».  La rivelazione finale del laboratorio di scrittura nemirovskyano getta una nuova luce sui racconti precedenti e ci permette di rileggerli sotto una prospettiva inedita: ma sarebbe inesatto dire che l’infanzia (o la perdita dell’innocenza) sia il grande tema letterario di Irène Némirovsky, perché in realtà la tematica peculiare che attraversa le grandi opere della scrittrice è la giovinezza e la sua inevitabile perdita. Spesso l’autrice si sofferma sul tempo che passa sui corpi delle donne e la resa dei conti spietata con il proprio viso nello specchio, la consapevolezza atroce delle prime rughe. L’incapacità di accettare la perdita della giovinezza raggiunge l’apice con il personaggio, quasi demoniaco, di Gladys in Jezabel:

«Ci resta sempre in fondo al cuore il rimpianto di un’ora, di un’estate, di un fuggevole istante in cui la giovinezza si schiude come una gemma».

La considerazione la ritroviamo già espressa in nuce in questi racconti, in particolare nel cechoviano Una colazione in settembre – che vede per protagonista Thèrese nel giorno del suo quarantesimo compleanno – e in Il Carnevale di Nizza, che dà il titolo alla raccolta.

«Si goda la giovinezza finché è giovane… passa così in fretta» è l’ammonimento lanciato da una maschera – un uomo senza volto, pare la rappresentazione stessa dello spirito carnevalesco – alla giovane Simone. L’avvertimento rimane inascoltato ed è sottolineato dal malinconico ritornello che si ripete «La jeunesse est courte/ L’amour passe»: la giovinezza è breve, l’amore passa. La donna lo riascolterà alla fine trovandosi di fronte al suo amore perduto, nella città di Nizza dove tutto era iniziato, constatando con angoscia che «il tempo passa» e ormai è troppo tardi.

Ecco dunque cosa rappresenta il Carnevale nella sua essenza più metaforica: la caducità dell’esistenza.

È la festività che più di ogni altra esalta il piacere e le gioie della gioventù, a partire dagli antichi canti carnascialeschi e dal ben noto Trionfo di Bacco e Arianna di Lorenzo Il Magnifico: «Quant’è bella giovinezza che si fugge tuttavia, chi vuol essere lieto sia, del doman non vi è certezza». Il tentativo di sfuggire alla morte attraverso l’ebbrezza. Le illusioni della giovinezza e il loro lento svanire sono il controcanto della narrativa di Némirovsky che era forgiata, a ben vedere, dal contesto storico di riferimento.

La generazione di Irène Némirovsky era stata privata della giovinezza: i ragazzi di quegli anni, nati tra la Rivoluzione russa e le due guerre mondiali, avevano toccato con mano la rovina morale della guerra, erano stati depredati della loro gioventù e della sublime pretesa di immortalità che essa porta sempre con sé. Sapevano bene cosa significava essere mortali, dunque non restava loro che la ricerca forsennata del piacere, poiché già un’altra guerra li attendeva al varco. È un sentimento che Némirovsky descrive bene in I falò dell’autunno (1941, pubblicato postumo), in cui le stoppie brucianti nei campi si fanno presagio della catastrofe imminente della Seconda guerra mondiale e, al contempo, del male necessario che insidia ogni vita, preparandola a un nuovo avvenire. Come osserva Bernard, protagonista del romanzo: «Per la guerra occorrono macchine (…) Gli eroi, la gloria, dare il proprio sangue per la patria, sono tutte chiacchiere dei civili». Una volta rivelata la verità sulla guerra resta solo l’insaziabile fame di vita contrapposta all’inevitabilità della morte.

Questa consapevolezza è il ritornello malinconico di Il Carnevale di Nizza: dietro la commedia umana delle maschere trascinate dalla continua fanfara si spalanca l’abisso del vero. La grande fiera del Carnevale, dei divertimenti e dei canti, non dura a lungo, è una follia breve, prima o poi si spegne come un gran falò. «Il Carnevale è morto» ed ecco che crolla la scenografia traballante, la farandola di maschere si tramuta in una «ghirlanda di demoni».

Dicono che Irène Némirovsky avesse trascorso i suoi ultimi giorni, prima dell’arresto, lavorando forsennatamente al manoscritto di Suite francese perché non si era resa conto della gravità di quanto stava accadendo, che la sua vita stessa fosse in pericolo: basta leggere questi suoi primi racconti per intuire invece che no, se n’era accorta benissimo, proprio per questo scriveva, nel colore azzurro del suo inchiostro preferito.

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