Gli invisibili di Le Clézio

3 Febbraio 2025

Jean-Marie Gustave Le Clézio, lo straniero. Il grande autore francese, insignito del Nobel per la Letteratura nel 2008, si è sempre definito «francese di adozione, ma non di cultura» rivendicando le proprie origini mauriziane. Per comprendere la narrativa di Le Clézio non possiamo trascurare questa ferita originaria che alimenta la sua scrittura: «ciò che mi ha nutrito è un sentimento di estraneità» ha dichiarato in una recente intervista rammentando la sua infanzia travagliata.

Nato a Nizza nell’aprile del 1940, il piccolo Jean-Marie venne al mondo mentre infuriava la Seconda guerra mondiale e fu segnato, per sempre, dalla brutalità sanguinosa di quel tempo. I suoi primi anni furono contraddistinti da un involontario esilio: la fuga da Nizza, devastata dal conflitto e dalle rappresaglie naziste, e l’approdo nella terra africana, in Nigeria, dove lavorava il padre chirurgo. Una migrazione al contrario: in quegli anni di guerra molti francesi cercavano rifugio nelle colonie, soprattutto in Marocco e in Sud America. L’esodo continuò fino all’agosto del 1944, quando Nizza fu liberata.

Anche Jean-Marie Gustave Le Clézio è stato un bambino in fuga dal conflitto, non poi così diverso dagli attuali profughi siriani, ucraini, afgani, iraniani, libici; come loro scontò la fame, patì la paura delle bombe e del nemico, ebbe vestiti laceri, rattoppati. Chi è stato migrante, lo rimane per sempre. La ricerca delle origini, di un’identità e di una patria, è infatti una tematica ricorrente nella narrativa dell’autore francese: da Ritornello della fame a Stella errante, sino ai più recenti Canzone bretone e Il bambino e la guerra.

Le Clézio fu insignito del Premio Nobel per la Letteratura proprio in quanto «esploratore di un’umanità al di là e al di sotto della civilizzazione regnante». Dobbiamo leggere in quest’ottica – non solo in chiave politica e di integrazione – l’attenzione costante dello scrittore per la condizione dei clandestini e dei rifugiati. Il viaggio e i paesaggi esotici africani forgiarono il suo immaginario, al pari delle storie sull’isola di Mauritius narratogli dalla nonna sotto forma di leggende e ninnenanne.

La condizione originaria di estraneità, di “non appartenenza”, si percepisce in maniera peculiare in questo suo ultimo libro, Il lato nobile. Storie degli indesiderabili (Rizzoli, 2024, trad. Maurizia Balmelli), in cui l’autore, adottando il suo stile inconfondibile e poetico, si serve del principio alla base di tutte le storie, ovvero la capacità di connettere chi legge alle emozioni altrui, per innescare il suo inusuale ribaltamento di prospettiva: dare la parola a chi parola non ha.

I protagonisti di questi otto racconti vengono da lontano, portano con sé i profumi di luoghi esotici e il mistero di linguaggi a noi incomprensibili. Sul loro corpo segni di ferite invisibili, nei loro occhi la profondità di un abisso. C’è Maureez che cerca il padre, un pescatore scomparso in mare, finché non impara a trovare la propria voce accordandola al suono della musica Wade in the water, children: la canzone le rintocca nel cuore, rivelando il suo talento nascosto agli altri e permettendole di attraversare le acque segrete del ricordo sino a Tomy Samson, il padre perduto. C’è Chepo, il ragazzino delinquente che vaga nelle fogne come un piccolo ratto e infine viene catturato e rinchiuso nel reparto detenzione degli immigrati illegali. Yoni, l’uomo della foresta depredato della sua patria natale, che cerca un nuovo luogo da poter chiamare casa. La paura, la rabbia, la fame. Lo sfogo di Aminata, la donna africana che indossa larghi vestiti colorati per sconfiggere l’eterno grigiore della città di cui è prigioniera: «Parlate male dell’Africa, ma siete voi che avete ancora gli schiavi!» e ancora l’indignazione: «Noi africani siamo invisibili?». Le sue parole ribaltano i pregiudizi occidentali, spalancando una nuova visione: siamo noi, uomini bianchi dell’Europa disunita, i veri selvaggi, schiavi del capitalismo e dell’indifferenza sovrana, sempre più soli dietro i nostri schermi digitali a inseguire i sogni schizofrenici di una società individualista, competitiva, marcia all’interno.

Negli occhi scuri di Aminata c’è la nostalgia delle strade di polvere, della foresta, del vento, dei balli dei bambini e dei canti degli uccelli. «Sono le vostre città a essere sporche» dice perentoria e c’è una verità ineludibile nella sua accusa, capace di mettere in evidenza la trascuratezza data dal cinismo, dall’egoismo, dalla fretta cieca che pervade l’uomo del nuovo millennio.

Essere stranieri significa essere condannati a una nostalgia perenne. È un sentimento invisibile, che la gente del luogo non conosce e nemmeno cerca di comprendere, troppo affannata dietro le quotidiane incombenze del vivere. Lo comprendi solo quando la straniera sei tu, poiché – come questo libro ben dimostra – ci sono molti modi di essere sradicati dalla propria origine e la conseguenza peggiore è la solitudine. Non è facile spiegare la condizione di «straniero» a chi non ha mai vissuto a lungo fuori dai confini del proprio Paese: non è solo quella dell’immigrato, del clandestino, del bambino cencioso e vestito di stracci che chiede l’elemosina sul metrò, può essere anche quella di una ragazza italiana che lavora a Parigi e si confronta con un genere diverso, sottile, mascherato, di razzismo. Solo vivendo altrove scopri che la parola «italiani», così bella, può diventare un insulto; lo stesso accade ai migranti di Le Clézio che vengono derisi quando nominano, con affetto e voce affettata dalla nostalgia, il loro paese natale. I migranti non hanno nome, le loro identità sono oscurate dal trionfo dello stereotipo: gli uomini sono tutti Mohamed, le donne sono tutte Fatima. I loro capi non si preoccupano di dar loro una fisionomia riconoscibile: contano solo come forza lavoro, devono spaccarsi la schiena nelle fabbriche, lavorare il calcestruzzo, cucinare il cous cous. Lo racconta bene Renault, uno dei personaggi più toccanti di Il lato nobile, un vagabondo che un tempo lavorava come impiegato delle risorse umane in una multinazionale che reclutava migranti. La storia di Renault suona come quella di un pentito di mafia: dopo tanti anni è crollato, non è più riuscito a reggere il gioco sporco del capitalismo, ha scelto di licenziarsi e ora vive per strada, poiché la società mette ai margini chi non si adegua alle sue logiche del profitto.

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Jean-Marie Gustave Le Clézio. 

Il razzismo ha molte forme, le più gravi le assume quando è supportato da convinzioni inscalfibili: ho udito i peggiori commenti razzisti in bocca a persone altolocate, laureate, appartenenti alla borghesia, parlavano con eleganza, senza rendersi conto dell’insulto sotteso ai loro discorsi. Le pagine di Il lato nobile. I racconti degli indesiderabili di Le Clézio gettano luce su questo pregiudizio invisibile, dando parola a chi si trova al di là della barricata: ecco chi sono gli stranieri, ecco cosa pensano, come vivono, cosa sognano. Ogni racconto ci propone un’identificazione totale, la musicalità delle parole è incalzante come il battito di un cuore di carne, specialmente in un testo intitolato Le souvenir de toi, Oriya (pubblicato inizialmente nel 1993 sulla rivista «Le Courrier de l’Unesco») in cui un uomo ricorda la moglie che ha lasciato al paese, dalla quale spera un giorno di tornare. Scottato dal caldo, scorticato dal freddo, ora trasporta badili e impila blocchi di cemento. È solo il ricordo di lei a tenerlo in vita. L’uomo racconta le sue giornate di lavoro e di fatica: fa il muratore e ogni giorno compie sforzi sovrumani per erigere belle palazzine: «Ho costruito più case di quante ce ne vorrebbero per le famiglie di Tata, ho costruito città intere». L’opposizione tra l’arrogante opulenza occidentale e la miseria felice del Terzo mondo è evidente nell’uso di questo parossismo. Di quante case hanno bisogno gli uomini bianchi per vivere? sembra chiedersi l’uomo, stanco, logorato dalla fatica. Il suo lamento è scandito in una poesia d’amore per Oriya, che ricorda i versi di esilio di Nazim Hikmet.

Ogni partenza è una forma di esilio, dunque di prigionia. Se nel carcere di Bursa il poeta turco cantava con struggimento crescente il ricordo della donna amata: «I tuoi occhi i tuoi occhi i tuoi occhi» sino ad avverare l’identificazione completa con la patria perduta «e in ogni stagione, ad ogni ora, Istanbul», ecco che in questo racconto di Le Clézio emerge la medesima analogia donna/patria infine trasfigurata nel sogno: «Sei tu che vedo, Oriya. (…) E la scintilla del tuo sguardo entra nel mio, per la vita». Chissà perché leggendo il finale dolente di questo racconto si ha l’impressione che l’uomo stia per morire, nonostante nulla venga detto, la chiusa straziante della sua lettera suona come un addio.

Quando finisce davvero il viaggio di un migrante? Nella nostalgia lancinante che traspare da queste parole c’è la risposta a tutti i bellimbusti che oggi perentori, dalle tribune politiche e non, tuonano che gli stranieri dovrebbero tornarsene «a casa loro».

Jean-Marie Gustave Le Clézio non vuole comporre un manifesto politico, benché l’intenzione inclusiva sia il messaggio sotteso alle pagine, Il lato nobile. Racconti degli indesiderabili è un libro originato da una profonda intenzione meditativa. Capiamo, leggendo, che questi racconti non sono un mero compitino ideologico composto su ordine dell’editore: con uno stile ritmato, poetico, incisivo, Le Clézio intreccia memoria e desiderio sino a dirci, tra le righe, che lo straniero è lui, come ha più volte dichiarato. Il racconto chiave per comprendere questa intenzione autobiografica latente è Il fiume Taniers. Il titolo riprende un’antica ninna nanna creola-mauriziana, un canto che lo scrittore apprese dalla voce grave e strascicata di suo nonno. Quel ritornello riconnette, nella sua lenta melodia, passato e presente: sono le parole che il nonno di Le Clézio aveva appreso dalla sua balia nera, il latte che aveva bevuto nell’infanzia e lo aveva nutrito. L’autore utilizza la ninna nanna creola per rievocare l’esistenza perduta di Yaya, la vecchia nénéné del nonno, un’altra invisibile.

Era figlia di schiavi, di lei non rimane che una fotografia sbiadita in cui non sorride. Le braccia forti di Yaya hanno accudito un’intera famiglia, una famiglia non sua: quando morì suo figlio, lei lo seppellì nel giardino del capanno e poi, con gli occhi ancora rossi, si recò al lavoro dai signori. Le Clézio le rende omaggio attraverso la filastrocca del fiume, restituendoci la sua figura attraverso la voce, che ancora non ha smesso di cantare: la storia del fiume Taniers – che non esiste più, è ormai riarso sotto l’asfalto delle strade – avrebbe sostenuto anche lo stesso Le Clézio, bambino, quando nel buio di una cantina attendeva la fine del bombardamento aereo.

Il fiume è metafora che scorre sottotraccia e diventa il filo conduttore invisibile di tutte le storie del libro. Chi si è perduto insegue sempre le acque di un fiume per ritrovare la strada, cammina nel solco tracciato da un torrente: come Yoni – protagonista dell’ultimo racconto – che si addentra nella foresta per non fare più ritorno.

«Scoprire la vita dei fiumi tutt’a un tratto gli dava una sensazione che non riconosceva, che era rimasta nascosta nel suo intimo sin dall’infanzia, la sensazione della libertà».

Il fiume trasporta relitti, oggetti non identificabili «che sembravano venuti da un altro mondo», ed ecco che si fa portale della memoria, proprio come la filastrocca del fiume Taniers. Tutti i fiumi portano al mare, la grande distesa d’acqua che apre simbolicamente i racconti di Il lato nobile con la storia di Maureez Samson: «Da sempre ascoltava il rumore del mare sugli scogli». Sarà proprio il rumore delle onde, trasfigurato in un’altra musica, Wade in the water, children, il canto antico degli schiavi fuggiaschi, a restituire Maureez a sé stessa quando si sarà perduta. L’acqua si fa memoria e sentiero, ma è anche metafora del fluire costante del tempo che offusca i confini tra passato e presente: le immagini di guerra narrate nel libro di Le Clézio, le case distrutte dalle bombe, i muri crollati, le donne e gli uomini feriti dai combattimenti, richiamano la storia di ieri – la Seconda guerra mondiale cristallizzata nei ricordi dell’autore – ma anche alla storia di oggi – la devastazione di Gaza, il conflitto in Ucraina. Gli stranieri sono ovunque, dappertutto, gli stranieri siamo anche noi, estranei l’uno all’altro. Jean-Marie Gustave Le Clézio narrando storie di gentilezza e d’avventura ci invita a guardare nelle profondità inabitabili dell’animo umano, a fare i conti con il nostro egoismo e la nostra solitudine, proponendoci infine una percezione rovesciata delle situazioni: se fossimo noi, al loro posto, cosa faremmo?

Il ribaltamento di prospettiva rivela il pregiudizio occidentale in tutta la sua efferatezza. Spingiamo la visione ai margini, ai lati delle strade, oppure in basso, dove ci sono le persone distese a terra nei cunicoli dei metrò, che dormono intirizzite sui cartoni ammassati.

Gli indesiderati, gli umili, sono forse rimasti gli ultimi a predicare un ideale perduto, la salvezza spirituale, in un mondo in cui ormai tutto è materiale: lo cantava anche Fabrizio De André in Smisurata preghiera quando faceva riferimento a «chi viaggia in direzione ostinata e contraria, con il suo marchio speciale, di speciale disperazione», dopo tanto vagare è giusto che qualcuno li aiuti, sono loro le «anime salve». Lo saremo anche noi se sapremo vedere oltre la lente appannata dell’apparenza, del pregiudizio, oltre la ripetizione apatica dei gesti che ci condanna all’incomunicabilità, alla frustrazione o all’invidia. Il razzismo oggi si nutre della stessa infelicità latente che avvelena il quotidiano: i più accaniti se la prendono con gli “stranieri” per sfogare la propria rabbia interiore. Non vedono degli esseri umani, vedono un capro espiatorio. Grazie alla tecnologia siamo gli uomini più iperconnessi di ogni tempo, eppure sui social network più che all’instaurarsi di solide amicizie si assiste a un proliferare di narcisismo, ognuno parla a sé stesso o di sé stesso. Non sappiamo davvero comunicare le emozioni, abbiamo perso l’empatia che Le Clézio riaccende come una fiamma viva attraverso le storie di Il lato nobile. Racconti degli indesiderabili.

Storie di uomini, donne, bambini e ragazzi spezzati dalla vita – da cui la gente si tiene a distanza, come se temesse un contagio – eppure se solo li guardassimo negli occhi capiremmo che l’umanità non è morta, in realtà ha solo smesso di riconoscersi.

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