La resistenza nella Turchia di Erdogan / Il solco, di Valérie Manteau

17 Gennaio 2020

Sappiamo poco della Turchia, anche se ne parliamo così spesso. Al telegiornale le immagini scorrono accompagnate da un sentimento di estraneità: innanzitutto le battaglie contro i Curdi cui si associano scene di guerriglia, uomini armati, fumo di esplosioni recenti, e gente che si affanna concitata parlando un linguaggio a noi incomprensibile.

In questi ritratti confusi, resi ancor più sfocati dalla distanza, il nome del presidente Erdogan regna sovrano, sempre associato al male, quello con la m maiuscola, a indicare un personaggio sinistro dal quale è necessario prendere le distanze. Erdogan il Dittatore, Erdogan il Pazzo, Erdogan il Sadico: persino quando i giornalisti si sforzano di non formulare un giudizio, la condanna appare implicita e inappellabile.

 

Guardiamo alla Turchia con occhi occidentali, ci appare quindi una realtà inevitabilmente deformata dai nostri pregiudizi derivati da una precisa cultura, da uno stile di vita, da una forma mentis di cui non possiamo spogliarci neppure con il più risoluto sforzo di volontà. L’unica lente priva di artifici che può venire in nostro soccorso in questo sforzo di osservare la situazione turca è la Letteratura: che ci permette di entrare in contatto con una realtà così distante, di provare empatia per altri esseri umani, e cercare di decifrare tramite gli strumenti del pensiero un mondo che negli ultimi tempi appare al rovescio, in preda al caos, dove i diritti civili rischiano di perdere ogni valore.  

Il ritratto più compiuto della Turchia attuale ce lo fornisce la giornalista Valérie Manteau con il libro Il solco (L’Orma editore, 2019), vincitore del Premio Renaudot. Pubblicato da una piccola casa editrice francese il libro ha riscontrato un enorme successo proprio a causa della scottante attualità delle vicende narrate, diventando in breve un caso editoriale.

 

Audace e avvincente nella sua trama singolare che mescola il diario intimo al racconto storico, questo romanzo ci offre uno spaccato del nostro presente e allo stesso tempo appare come un’affascinante indagine esistenziale: la Manteau – ex giornalista di Charlie Hebdo – approda in Turchia nel periodo immediatamente successivo agli attentati alla redazione parigina. Una francese in fuga dal terrorismo che giunge in un Paese sulla soglia della rivoluzione; l’incontro tra Valérie e la Turchia sembra segnato dal destino.

Siamo alla vigilia delle sommosse di Gezi Park, una nazione intera sta per cambiare volto: pagina dopo pagina la Manteau documenta lo sconcerto, il nervosismo contagioso, la confusione di un Paese in cui «la tradizione democratica si mescola con il culto dell’esercito» fino a naufragare con il colpo di Stato del 15 luglio 2016.

Quella ritratta in Il solco è tuttavia una Istanbul che resiste e lotta per una democrazia inclusiva: una città che si difende dagli assedi di un potere accentratore con una forza irriducibile. Noi occidentali non vediamo il volto di questa Turchia combattiva che si ribella alla dittatura; la Turchia delle prigioni e dei processi, la Turchia degli intellettuali e degli scrittori messi a tacere con la violenza; la Turchia dei giovani che escogitano sommosse sottovoce, i gomiti piegati sui tavolini del Muz, e una ribellione sorda strozzata nel fondo della gola. 

 

Valérie Manteau riesce a porre a confronto con grande acume due nazioni in apparenza diversissime, mettendo in risalto insospettabili tratti d’unione. Ecco che la Turchia si svela in tutta la sua ricchezza culturale, come un Paese portatore di un patrimonio antichissimo, terra che fu culla della più fiorente civiltà umana. E l’identità europea – simbolo universale di coesione e sviluppo – viene messa in discussione: «Sul serio, ormai che può rappresentare la Francia nel mondo? I diritti dell’uomo? Siamo in piena decadenza, lobotomizzati dalla tv, dalla paura, dal kitsch ovunque e sempre, siamo un Paese morto e stecchito dal punto di vista culturale e politico, e ancora ci sono persone che guardano a noi nella speranza di sentire un autentico e profondo discorso di stampo umanista?»  

Il solco è un libro ibrido, che si muove in bilico tra più piani: reportage giornalistico, romanzo storico, memoir, diario intimo. La narrazione contemporanea sta progressivamente rompendo i canoni della forma stereotipata avvalendosi di un collage di generi letterari per raccontare appieno la multiforme complessità del presente. Il risultato è un prodotto narrativo originale, capace di mescolare i piani opposti di pubblico e privato, e riflettere le contraddizioni del tempo in cui viviamo. La letteratura di oggi ha bisogno di coraggio, di irriverenza, di rompere gli schemi di genere, come dimostra questo romanzo che aderisce strettamente allo spirito sovversivo della nostra epoca. 

 

 

Valérie Manteau riesce a restituirci il respiro della Turchia attraverso le voci dei suoi abitanti, gli odori che si mischiano per le strade del mercato aperto, le nenie cantate dalle donne al calar della sera «Canto senza speranza, sul confine», le favole dall’incipit ipotetico «C’era e non c’era una volta» che ci restituiscono l’inquietudine di un Paese incerto persino nei propri sogni.

Il cammino privato e sentimentale della protagonista si intreccia con la vicenda del giornalista armeno Hrant Dink, fondatore del periodico bilingue turco-armeno Agos (letteralmente “Il solco”), assassinato nel 2007 da un nazionalista turco.

 

Cosa significa il nome del giornale, Agos. Jean fa il gesto del seminatore che sparge il grano. Il solco, ecco cosa vuol dire. Agos era una parola condivisa da turchi e armeni, perlomeno tra contadini, all’epoca in cui i due popoli convivevano. Il solco, come i sinistri sillons che nella Marsigliese sono «bagnati da un sangue impuro»?

 

Far rivivere le coraggiose parole di Hrant, il suo impegno nel sostegno delle minoranze, diventa per Valérie una ragione di vita. Giunta in Turchia nel tentativo di dimenticare la strage di Charlie Hebdo, «le stanze invase dal sangue dei miei amici», ritrova nell’assassinio impunito di un altro giornalista martire la risposta che stava cercando. Ricostruendo la storia di Hrant Dink, Valérie compone un elogio fiero e indiscusso alla «libertà di stampa» e allo stesso tempo riscatta il proprio passato. In una recente intervista l’autrice ha dichiarato: «Sono sempre stata una grande lettrice, ma non ho mai pensato di scrivere prima dell’attentato a Charlie Hebdo. Per me l’approccio alla letteratura è stato necessario perché avevo bisogno di risolvere un problema. Per scrivere ci vuole un bisogno dietro, una necessità forte e sicuramente anche una buona dose di coraggio, qualsiasi sia l’argomento». 

 

La scia di sangue lasciata dai terroristi nella redazione di Charlie viene definita da Manteau «il solco insostenibile» e, in un certo senso, viene ripulita dalla purezza delle parole scritte da Hrant sulle pagine di Agos: «Come possiamo parlare di pace se fondiamo la nostra fratellanza sul sangue versato assieme? Non crede che potrei domandarle a chi apparteneva il sangue che avete versato voi?»

Valérie Manteau e Hrant Dink combattono dalla stessa parte, in nome della libertà di espressione, proprio come Asli Erdogan e Necmiye Alpay e i molti altri intellettuali che prendono corpo e voce in questo libro per far udire la resistenza della Turchia dinnanzi alla censura. Valérie Manteau racconta le loro storie, fa rivivere in presa diretta i processi indetti dal governo turco, la violenza perpetrata da un Paese che vuole porre a tacere il dissenso condannando all’incarcerazione, alla tortura, o all’esilio chiunque abbia l’audacia di opporsi.

 

«Sapete cosa significhi per un uomo essere prigioniero dell’inquietudine di una colomba?» L’eco della voce di Hrant Dink ci segue, come un fantasma, persino a lettura conclusa.

Il finale proposto dalla Manteau è una conclusione dolce, consolatoria, ci offre la prospettiva di un cerchio che si chiude, di una donna che ha trovato risposta alle sue domande e ritorna in Francia dopo aver maturato una nuova consapevolezza; tuttavia l’indignazione suscitata da queste pagine non sbiadisce una volta chiuso il libro, perché conduce ogni lettore a interrogare a fondo la propria coscienza.

Il confronto tra il nostro mondo occidentale e la Turchia è spietato, e non se ne esce illesi. Ad un certo punto del libro un amico turco chiede a Valérie: «Il vostro ruolo di europei in tutto questo quale sarebbe?» La domanda colpisce come schiaffo, un’offesa bruciante alla nostra arroganza di occidentali, alle nostre coscienze apparentemente pulite, intonse, che si limitano a commentare quanto accade nel Mediterraneo con tiepide dichiarazioni pacifiste, buone solo a riempire i giornali di slogan, il web di hashtag, che poi a ben vedere lasciano il tempo che trovano.

Il solco da questo punto di vista appare come un atto d’accusa al nostro orgoglioso europeismo, alle nostre politiche conservatrici che sanno sparare al nemico solo quando se lo trovano sotto casa e non intervengono, invece, per evitare l’onta di un altro genocidio come l’attacco ingiustificato dei Turchi contro il popolo curdo.

 

Dovremmo leggere questo libro come un risveglio della nostra coscienza europea, un invito ad aprire gli occhi su quanto succede intorno e ad avere una visione universale della Storia. Perché quanto accade alle minoranze in Turchia è il campanello di allarme di un fenomeno molto più pericoloso, di una minaccia crescente. Valérie Manteau ci ha mostrato il volto della Istanbul dissidente, ribelle, intellettuale e ingiustamente perseguitata cui preferiamo non guardare. Quanto accaduto di recente al popolo curdo in Turchia ci ricorda che c’è una macchia morale sulla coscienza mondiale che non si laverà via facilmente.  

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