Annie Ernaux, come una lama

12 Dicembre 2024

La scrittura come atto politico, la scrittura come rivendicazione, che quindi si tramuta in arma ed è sottile, affilata, tagliente, proprio come un coltello. Nella similitudine si radica in profondità il concetto, oltre la valenza puramente retorica: il coltello non è un oggetto, ma sintetizza una presa di posizione simbolica, indica la distanza oggettivante da affidare alla scrittura per far assumere alla vita una forma letteraria che non la tradisca.

Non potrebbe esserci maniera più esatta e incisiva per definire lo stile di Annie Ernaux, la scrittrice francese insignita del Premio Nobel per la Letteratura nel 2022.

Lei stessa lo dichiara in questo libro-intervista con Frédéric-Yves Jeannet, pubblicato per la prima volta in Francia da Gallimard nel 2011 con il titolo La scrittura come un coltello e ora portato in Italia da L’orma editore nell’ottima traduzione di Lorenzo Flabbi, voce italiana di Ernaux, che ne firma anche la postfazione.

Affondare come una lama nelle cose, passando dal privato al collettivo, ecco la formula inconscia dell’auto-socio-biografia. L’uso della lingua piatta e affilata è una forma di aderenza concreta al reale, ai suoi rapidi fotogrammi, osserva Ernaux ribadendo così il proprio legame autoriale con la fotografia che per lei rappresenta «il tempo allo stato puro. Potrei stare ore davanti a una foto come davanti a un enigma».

C’è una componente materica e oggettiva nella scrittura dell’autrice francese che affascina e credo sia stata ancora troppo poco indagata; infatti non possiamo comprendere appieno la rivoluzione letteraria di Annie Ernaux senza tenere conto del lavoro profondo da lei compiuto sulla forma scritta.

Il suo è stato uno dei premi Nobel per la Letteratura più meritati degli ultimi anni, perché Ernaux non è semplicemente una “scrittrice”, è nello specifico una scrittrice che ha inventato una maniera di scrivere coniando un nuovo genere letterario e anche un nuovo stile. Questo libro-intervista, una sorta di Frantumaglia per usare un termine caro a Elena Ferrante, con cui Ernaux ha molte analogie, ci permette di comprenderlo aprendoci le porte della sua officina di scrittura.

Le parole «sono pietre», la cosiddetta écriture plate (scrittura piatta) è l’idea che diventa atto trasfondendosi nell’aderenza completa a un ideale capace di concretizzarsi. In questo libro, Annie Ernaux ne rintraccia l’origine e soprattutto rivendica l’utilizzo del genere auto-socio-biografico, ovvero l’intenzione di usare la propria soggettività per «individuare, per svelare, meccanismi o fenomeni più generali, collettivi».

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Johannes Vermeer, Donna che scrive una lettera.

Nell’anno del centenario della morte di Franz Kafka è impossibile non cogliere il riferimento kafkiano nel titolo: La scrittura come un coltello. Troviamo una corrispondenza simile nel noto epistolario delle Lettere a Milena (1952), in cui lo scrittore boemo confessa alla sua amata: «E forse non è vero amore se dico che tu mi sei la cosa più cara; amore è che tu sia per me il coltello con il quale frugo dentro me stesso». Più che una metafora quella di Kafka appare un’iperbole, l’immagine del coltello è volta a sintetizzare un desiderio irriducibile che non è solo l’ardore nei confronti della donna amata, ma rappresenta la ferma volontà di mettersi a nudo attraverso la relazione con l’altro, spogliandosi così di ogni convenzione, di ogni pregiudizio, per riconoscersi infine pienamente sé, senza fraintendimenti.

Il simbolismo del coltello per Kafka rappresenta una sintesi sublime di intelligenza, coraggio e desiderio – inteso nella sua accezione più primordiale di Eros che presuppone l’esistenza necessaria del suo doppio complementare, Thánatos. Il desiderio, inteso in senso tale, spalanca dentro di sé l’abisso: la lama squarcia la superficie delle cose e così, ferendo, rivela.

Lo stesso accade ad Annie Ernaux che affida un ruolo analogo alla sua scrittura: che sia per lei il coltello utile ad affondare dentro sé stessa. La scrittura è dunque il salto nell’abisso che prelude all’esame di coscienza.

«J’ai toujours voulu écrire dangereusement» rivela Ernaux nel corso della sua corrispondenza via mail con Frédéric Yves-Jeannet. Ho sempre voluto scrivere pericolosamente. Il pericolo, questo oscuramente noi lettori lo percepiamo, non è nella scrittura in sé ma nella forma che viene usata.

Nei suoi libri Annie Ernaux si serve di uno stile tagliente come una lama: potrebbe narrare della malattia in tono patetico, della passione amorosa con trasporto poetico, ma non lo fa mai. Lascia il lettore sempre sull’orlo di un abisso, a un passo dal cedere alla commozione, allo sgomento. La sua è una scrittura che non teme di narrare l’indicibile e che non conosce censure, tanto da apparire a tratti spietata nella sua crudezza. Le parole sono distillate con il contagocce e ridotte all’osso: nessuna è lasciata al caso, si susseguono l’una dopo l’altra, abolendo la bella aggettivazione, la sintassi aulica, il lirismo letterario, l’uso della metafora, rivelando impetuosamente l’urgenza del raccontare. Questa maniera di scrivere si trasforma in un’esplorazione rischiosa dell’io che giunge sino all’estremo limite, poiché l’autrice non teme di dire di sé oltre l’accettabile, di svelarsi, e fare di questa autentica “messa a nudo” un atto rivoluzionario e quindi politico.

È probabilmente la ragione che ha reso Ernaux un’autrice così popolare e amata: la sua lingua piana, semplice, accessibile, ha travalicato i confini della letteratura pura riuscendo a essere un prodotto di valore, ma non elitario. Era proprio questo l’intento autoriale di Annie Ernaux, creare uno stile in grado di recuperare il significato primigenio del linguaggio, ovvero «comunicare» senza per questo cedere alla logica fallace del compromesso letterario.

Nella scelta stilistica di Ernaux si trasfonde una presa di posizione sociologica: l’autrice vuole scrivere nella «lingua dei dominati», ovvero quella della sua classe sociale d’origine. La lingua dei suoi genitori, che gestivano un piccolo emporio-drogheria (èpicerie-mercerie) nel paesino di Yvetot, in Normandia. Nei romanzi dedicati alle figure genitoriali, in particolare Il posto e Una donna, la scrittrice mantiene il loro punto di vista attraverso l’uso del linguaggio utilizzando la cosiddetta écriture plate, che in qualche modo sembra risarcire il tradimento da lei compiuto attraverso il salto sociale nella borghesia, ovvero ciò che l’ha trasformata in una «transfuga di classe», come si sarebbe definita in seguito mutuando il concetto dal sociologo Pierre Bordieu.

Nell’esergo di Il posto (1984), il libro dedicato alla memoria del padre Alphonse, Ernaux inserisce una citazione di Jean Genet: «Scrivere rimane l’ultima risorsa quando abbiamo tradito». Non possiamo concepire la scrittura di Annie Ernaux – e dunque l’invenzione del suo stile e del genere letterario dell’auto-socio-biografia che ne consegue – senza la premessa necessaria del «tradimento». Nel romanzo successivo dedicato alla madre Blanche, Una donna (1987), Ernaux riafferma il proprio proposito di mantenersi «au-dessous de la littérature», al di sotto della letteratura, adottando un punto di vista che diventa una precisa presa di posizione politica.

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Mary Bradish Titcomb, La scrittrice.

La scrittura come un coltello traduce la lezione di letteratura più autentica di Annie Ernaux attraverso la consapevolezza di una donna (e di una scrittrice) che ha trasfuso i propri ideali in uno stile letterario audace e senza uguali. Nell’écriture plate di Ernaux, spesso criticata in passato perché non conforme alla letterarietà intesa in senso canonico, sono contenute le motivazioni profonde e radicali del suo scrivere.   

Dobbiamo partire da questi presupposti per comprendere il senso di «un esame di coscienza letterario» quale quello contenuto in questa ultima pubblicazione italiana.

La scrittura come un coltello è un libro ibrido che trae la sua origine da un fitto scambio di mail (o posta elettronica, come viene chiamata dall’autrice in modo un po’ antiquato) che si è prolungato sino a divenire una corrispondenza annuale tra il 2001 e il 2002.

La genuina curiosità di Frédéric-Yves Jeannet, scrittore e insegnante di Letterature comparate presso l’Università del Messico, nei confronti della narrativa peculiare di Ernaux è stata la scintilla alla base di quella che sarebbe poi diventata la più intima intervista alla scrittrice francese. A fare la differenza, come sottolinea la stessa autrice, è stata la presenza di un interlocutore profondamente “coinvolto”, che quindi le ha imposto di rispondere con la massima sincerità e precisione.

In queste pagine leggiamo Annie Ernaux prima del Nobel e, tra l’altro, una Ernaux che non ha ancora scritto il suo libro capolavoro, Gli anni (2008); eppure nelle sue parole sono già contenuti tutti i presupposti dei futuri trionfi letterari: perché in La scrittura come un coltello si prende coscienza dell’officina letteraria ernauxiana, dei suoi strumenti artigianali e materici, le parole intese «come pietre e coltelli», e delle ragioni profonde che muovono – magmatiche come correnti sotterranee – l’impulso del suo scrivere. Troviamo la visione del tempo «che appartiene alla Storia ma si sottrae al racconto» opposta a quella della memoria, intesa in senso propriamente proustiano, che sarebbe stata al principio dell’auto-socio-biografia.

Il lavoro di scrittura, compiuto con costanza, con determinazione, anche con audacia, diventa l’unica maniera per attingere al fondo di una verità, che è poi la verità più intima dell’essere. Sin dal suo primo libro, Gli armadi vuoti (1974), che riportava ancora l’etichetta posticcia di «romanzo», Annie Ernaux ingaggiava una sfida provocatoria alla letteratura intesa in senso proprio nel tentativo di «mettere in crisi il concetto di libro come opera chiusa».

Nelle prime pagine di Gli armadi vuoti troviamo una scena indicibile, l’aborto, la descrizione della sonda insanguinata che la protagonista ha nell’utero: a partire dal suo esordio Annie Ernaux si pone contro la letteratura istituzionalizzata, addirittura la deride, sancendo l’inefficacia delle metafore dinnanzi alla cruda realtà dei fatti.

Al centro della ricerca di uno scrittore – di ogni scrittore – ricorda Ernaux, c’è una ferita sempre viva. Non è difficile immaginare quale sia la sua, facendo una rapida anamnesi della sua opera: la lacerazione sociale, la vergogna femminile, l’aborto, il femminismo e il conflitto che da esso deriva, sono alcuni dei temi più ricorrenti nei suoi libri, che si accompagnano sempre a una rivisitazione sociologica della memoria.

Ma è davvero possibile «mostrare l’esperienza della scrittura»?, si interroga la scrittrice, seguendo un’attitudine metaletteraria che i suoi lettori avranno ormai imparato a conoscere. No, conclude Ernaux, «c’è qualcosa di irreale in questo: l’esperienza della scrittura è tutto sommato impossibile da mostrare, e forse è in altri spazi che si rivela a pieno». La scrittura viene quindi presentata come una pratica oscura, informe, perennemente in divenire: si può spiegare tutto questo senza farsi tentare dal mito della predestinazione o dall’inganno del talento? Entrando in punta di piedi nell’officina letteraria di Ernaux, Frédéric-Yves Jeannet sceglie il termine giusto per invitare la scrittrice a riflettere su ciò che lei giudica indicibile, ed è questo: «L’esplorazione di un altrove».

Questo libro-intervista non è un esercizio di razionalizzazione, ma un viaggio verso una terra astratta e inesplorata, il tentativo di inseguire le tracce di un processo mentale che rappresenta la più bella dichiarazione di libertà, perché presuppone il decentramento da sé stessi.

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Nicolaes Maes, Vecchia donna che sonnecchia su un libro.

«È lì che esisto veramente»: confessa Annie Ernaux a proposito della sua scrittura, segnando così la dicotomia necessaria tra vita profonda e vita di superficie. La scrittura è ciò che le permette di non «vivere nella superficie di me stessa, nella dispersione», le consente di andare a fondo, di spalancare l’abisso del pensiero.

È una verità, ne sono certa, valida per molti scrittori: la scrittura non è da intendersi in senso astratto, come un’attività o un processo, no, la scrittura è un luogo in cui ritrovarsi o, forse, proprio incontrarsi per la prima volta. Lei questo lo mette in atto attraverso il decentramento che si esprime anche nella bella definizione neutra che Ernaux dà di sé stessa: argina l’annosa domanda «scrittore o scrittrice?» definendosi semplicemente come «qualcuno che scrive».   

«Non mi penso mai come scrittrice, soltanto come qualcuno che scrive, che deve scrivere, tutto qui».   

Nelle pagine di La scrittura come un coltello c’è tutta Annie Ernaux, il suo cammino di scrittrice: il tema della memoria che la lega a Proust, la sociologia di Pierre Bourdieu, il suo femminismo mutuato dalla lettura di Simone de Beauvoir e poi attualizzato al presente. Tutto si lega in una serie di immagini, o sarebbe meglio dire «fotogrammi», e già diventa memoria collettiva affermando la funzione sociale della letteratura.

È interessante notare che nella crisi della forma romanzo Annie Ernaux non individua un fallimento – come oggi viene dichiarato a gran voce da eminenti critici letterari in titoli altisonanti quali “Il romanzo è morto” – ma una sfida: dobbiamo trovare nuovi modi di narrare il presente per rendere la letteratura viva e permetterle così di adempiere alla sua funzione di collante sociale.

A proposito del libro che avrebbe rivoluzionato la sua scrittura, Il posto, Ernaux dice che «tutto in quel libro la forma, la voce, il contenuto, è nato dal dolore».

Dolore in francese, La douleur, è una parola femminile.

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