Ananda Devi. La voce del patriarcato
La voce non tace, confabula, continua il suo monologare ininterrotto: è graffiante, ruvida, audace, non teme di dire oltre la decenza, di narrare al di là dell’ammissibile, perché tanto ormai non ha nulla da perdere. Annoda le memorie e ininterrottamente racconta, come Sheherazade ne Le mille e una notte, perché sa che smettere di raccontare equivale a morire. Il lettore ne è turbato e, al contempo, attratto, non riesce a sottrarsi al magnetismo di quella voce benché ciò che dica sia malvagio, violento, inaccettabile e il finale appaia già scritto nelle prime righe, inesorabile come una cantilena: «Sono un uomo, e sono in via d’estinzione» e ancora: «Sono vecchio e sono in via di decomposizione», il presente già declina nell’imperfetto del ricordo, poiché non c’è più nessun futuro previsto – o prevedibile – per il narratore.
È questa voce, insieme spietata e lirica, al centro del nuovo romanzo di Ananda Devi, Il sari verde, edito da Utopia nella forbita e minuziosa traduzione di Giuseppe G. Allegri. Al «sari verde» del titolo è legata l’immagine più bruciante dell’intero libro, che si scolpisce nella mente come un marchio a fuoco.
Dopo il successo di Eva dalle sue rovine (Utopia editore, 2021), la scrittrice mauriziana di ascendenza indiana torna a Port Louis, la capitale dell’isola Mauritius, per narrare un’altra storia di violenza e riscatto, ma da una prospettiva ribaltata: al centro della scena, stavolta, c’è il carnefice; e sullo sfondo non più il tumultuoso mondo in divenire dell’adolescenza, ma la vecchiaia. L’autrice compie una scelta narrativa coraggiosa a partire dalla prima persona adottata: a dire «io» è la voce più becera del patriarcato incarnata in un uomo anziano e in fin di vita che intesse un lungo monologo sul proprio letto di morte allo scopo di confessarsi – e quindi assolversi – dalle colpe commesse, persino dall’atto più terribile che un essere umano possa compiere.
Il sari verde è la storia di un delitto a lungo nascosto come il più inconfessabile dei segreti; dapprima taciuto, si aggira come una presenza fantasmatica tra le pieghe della narrazione sino a essere rivelato in tutta la sua macabra evidenza. Ananda Devi affronta un tema scottante della nostra contemporaneità – la violenza di genere sino alla sua manifestazione più estrema, il femminicidio – adottando un punto di vista inedito, quello del «mostro». Il patriarcato, in queste pagine, parla una lingua ancestrale e tuttavia moderna, che non conosce confini temporali o geografici. Mettendo il carnefice al centro della scena, l’autrice riesce ad analizzare il lessico famigliare dell’abuso, studiarne il linguaggio, il meccanismo e i moventi. A parlare è dunque l’antagonista per eccellenza, ma, attenzione, lo fa nel momento in cui è più debole e indifeso – anziano e malato, a faccia a faccia con la morte, chiamato al tribunale di sé stesso. Non c’è traccia di pentimento nella voce narrante, vuole espiare la sua colpa – che ora viene a fargli visita sotto forma di un sari verde, presenza fantasma della sua vittima – ma per farlo si giustifica, sino ad autoassolversi. L’assassino rivendica il proprio delitto, ecco sin dove si spinge il monologare ininterrotto della voce, attingendo a una verità oscura, inenarrabile. Solamente il finale inchioda il responsabile alla propria colpa attraverso le parole della figlia: «C’è solo un nome per la violenza, Padre, dice, ed è violenza», la voce femminile emerge con prepotenza solo in questa accusa che diventa rivendicazione e riscatto collettivo.
Ananda Devi, attraverso una scrittura lirica che mantiene sempre intatto il proprio ritmo scandito, riesce a scandagliare gli abissi più oscuri dell’animo umano sino a inoltrarsi in quel territorio inesplorato, al confine tra la vita e la morte, tra l’odio e l’amore. Credo che il compito più alto della letteratura sia esplorare questa linea d’ombra, svelando le contraddizioni più irrisolvibili della coscienza, senza tuttavia scioglierne il nodo. Devi lo fa in maniera illuminante, rovesciando il patriarcato dall’interno e, per farlo, utilizza la sua stessa voce.
È senz’altro più semplice (e rassicurante) adottare il punto di vista della vittima, indurre il lettore a empatizzare con lei; ma la strategia narrativa di Ananda Devi va al di là della morale, mostrandoci così la vera potenzialità letteraria, ovvero la capacità di abitare le contraddizioni e le moltitudini di ciascuno, andando persino oltre le categorie canoniche di “giusto” e “sbagliato”. La voce narrante di Il sari verde ci fa inorridire, ci disturba a tal punto da voler chiudere il libro di colpo, eppure, al contempo, la sua malia è talmente forte da indurci immediatamente a riaprirlo: cos’è che ci fa più male, lo strazio subìto dalle vittime della storia, oppure la consapevolezza di entrare in connessione, a tratti, con il carnefice?
Il linguaggio del romanzo è crudo, affilato come un bisturi che incide e scarnifica, non tende a edulcorare né a mitigare concetti e visioni, descrivendo persino il corpo nei suoi particolari più raccapriccianti.
A parlare è un vecchio mauriziano – anche se la sua voce non ha età, è nutrita dell’eternità del tempo e della memoria – che per tutta la sua esistenza svolse la professione di medico, considerato il «dio dokter» dai propri concittadini. La sua figura, nel corso della storia, emerge in tutta la propria sinistra doppiezza: c’è la dimensione pubblica del dottore venerato alla stregua di eroe; e quella privata, nascosta all’interno delle mura domestiche, di marito geloso e irascibile, di padre possessivo e prepotente. A questa dualità conclamata se ne accompagna un’altra, sebbene più latente: l’universalità del discorso sulla mortalità – che ci riguarda tutti, nessuno escluso – e la sfera più individuale, soggettiva, della vita di un uomo con i propri trionfi e fallimenti, vanità e debolezze.
L’uso della prima persona singolare appare come un’arma a doppio taglio, poiché da un lato sviscera profondamente la prospettiva patriarcale nelle sue cause e conseguenze; mentre dall’altro ci impedisce di cogliere appieno gli altri punti di vista e, a tratti, ci induce addirittura a identificarci con l’io narrante. Il dolore delle donne parla in questa storia; eppure non ha voce, viene espresso attraverso gli sguardi, i gesti, gli occhi spalancati e smarriti e, soprattutto, tramite i silenzi colmi di sofferenza e rancore muto, solfureo.
La scenografia è quasi teatrale: il monologo dell’uomo sul proprio letto di morte è inframezzato dall’apparizione delle donne della sua famiglia, vive o defunte. La voce del patriarcato deve quindi costantemente confrontarsi con questa discendenza matrilineare verso la quale riversa il proprio odio ribollente. Il rimpianto del figlio maschio morto è, al contempo, movente del delitto inconfessato e chiave di lettura psicologica dell’intera storia.

Ora che sta per morire l’uomo si trova in balia delle sue vittime – moglie, figlia e nipote, che si trasformano nelle sue aguzzine; ma è difficile stabilire esattamente la verità di quanto accade, in bilico tra realtà e visione onirica, tra memoria e allucinazione, tra profezia e follia lucida. Ananda Devi sa maneggiare con cura il lessico della violenza, come aveva ben dimostrato in Eva dalle sue rovine, dove già veniva messo al centro un trauma, narrato da una prospettiva corale da tragedia greca. In queste pagine, però, il linguaggio va oltre il connubio tra poesia pura e dolore, qui fa capolino la rabbia – tra l’alto resa in maniera magistrale dal traduttore, Giuseppe G. Allegri, che riesce davvero a cogliere le varie sfumature del linguaggio e la maniera in cui esse si declinano in emozioni. La narrazione è come un’onda che travolge e inabissa – la voce sembra già provenire dall’oltretomba, ci parla da una remota lontananza, come da un limbo, in attesa del giudizio finale.
Se cercate un libro consolatorio, rassicurante, andate oltre, perché da queste pagine la pietà è bandita, così come ogni forma di solidarietà o gentilezza che, anzi, viene addirittura vilipesa o sfidata. Se invece cercate un libro che vi faccia riflettere, questa è la lettura giusta. A mio avviso nelle pagine di Il sari verde scorre sottotraccia una domanda fondamentale: «Cosa scatena la violenza?» è il quesito principale da porsi oggi, nel nostro costante interrogarci sull’aumento dei casi di femminicidio ormai al centro della cronaca nera. Adottando la prospettiva rovesciata, Ananda Devi riesce a inoltrarsi nel profondo di questioni che, altrimenti, resterebbero solo in superficie. Conosciamo la storia solo dal punto di vista delle vittime: “lo amava troppo/ era sottomessa/ aveva deciso di vederlo solo un’ultima volta/ era una donna libera”, ma raramente abbiamo il coraggio di addentrarci nel cuore oscuro dei carnefici. Senza volerlo ragioniamo a posteriori, solo sulle conseguenze, mentre in Il sari verde viene invece analizzato, tramite l’espediente romanzesco, il pensiero spinoso e contraddittorio della mente abusante. Pagine molto intense nel libro raccontano la gelosia per una moglie «troppo bella» che innesca la violenza: l’uomo teme di essere sminuito e infine derubato del proprio potere, di divenire un «marito comandato a bacchetta» e quindi umilia la donna, nel tentativo di affermare la propria posizione dominante. Analizzare non significa giustificare, ma risponde al tentativo di comprendere cosa accade nella psiche di un soggetto violento, quali cortocircuiti e meccanismi di difesa si innescano. Pagine brillanti e altrettanto atroci sono dedicate alla maternità vista attraverso gli occhi di un uomo che si sente defraudato: «Per me non c’era più spazio» afferma la voce, dichiarando apertamente l’indicibile, ovvero la gelosia maschile per la diade esclusiva madre-bambino in cui «il posto del padre era inesistente». La violenza dell’uomo si sposterà successivamente dalla moglie alla figlia, Kitty «figlia male amata di madre male amata», che si rintana nel silenzio e tenta di emanciparsi sposando un uomo mite e intellettuale, diverso dal padre. Anche questo è un aspetto interessante del romanzo di Ananda Devi, poiché attraverso l’accostamento tra i due personaggi uomini – il vecchio padre e il marito di Kitty – ci dimostra che il patriarcato, nella sua connotazione più maschilista e becera, non è una prerogativa maschile: esistono anche uomini che credono nella parità di genere. Si apre quindi uno spiraglio verso un immediato futuro che la voce narrante osserva con disprezzo: «È l’era di Khali (…) l’era dei valori sbeffeggiati, delle carte rimescolate», la rivoluzione delle donne che «hanno imparato a dire no: un colpaccio nella storia evolutiva delle femmine!» viene giudicata come il principio di un’era di decadenza. La ribellione suprema viene incarnata dal personaggio di Malika, la nipote dichiaratamente lesbica, che per prima ha il coraggio di rinfacciare al nonno i comportamenti abusanti, la violenza psicologica esercitata nei confronti della figlia che è cresciuta «con la paura dentro», sino a svelare il segreto racchiuso nell’apparizione del sari verde. Ma il vecchio dokter non ammetterà mai le proprie colpe, anzi, affermerà di andarne fiero, poiché in fondo quella violenza era la sua sola maniera di governare ciò che non poteva controllare, di porre un ordine e, forse, pure una forma di giustizia personale. La voce, fino all’ultimo, si autoassolve da ogni crimine commesso: «Perché mai dovrei dire che sono un mostro quando non sono altro che un uomo?». L’umanizzazione del carnefice è la parte più difficile da accettare e, al contempo, la meglio riuscita del romanzo di Devi, poiché attraverso questo monologo violento e inquietante, torrenziale come una colata lavica, si intrecciano diversi interrogativi sull’inevitabilità della morte, la presenza-assenza di Dio, il senso della vita di un uomo.
La voce narrante è incorporea, eppure completamente immersa nella materialità della vita, non contempla lo spirito, perché crede che Dio «cessa di esistere con noi: Dio muore ogni volta che muore un uomo, quante morti ha dunque già conosciuto in questo mondo?». Questa equiparazione uomo-dio rivela forse l’essenza del dokter, il suo inconfessato delirio di onnipotenza: credeva di avere potere sulla vita e sulla morte, per poi scoprirsi mortale lui stesso. La radice del patriarcato in fondo è proprio qui, in questa assoluta volontà di potenza che non ammette rivali né alleati.
Il sari verde di Ananda Devi è un romanzo feroce perché non teme di narrare oltre il dicibile, scardinando certezze e convinzioni per addentrarsi nei territori ombrosi del dubbio e della violenza. In questo senso ricorda la premiata autrice Neige Sinno, vincitrice dello Strega Europeo, che in Triste Tigre (Neri Pozza, 2024) dichiara: «Perché a me, in fondo, sembra più interessante quello che succede nella testa del carnefice». Libri come questi sondano il potere e i limiti della letteratura, spingendosi in territori estremi: è bello che a farlo siano scrittrici talentuose, capaci di esplorare le infinite potenzialità del linguaggio.
Nel suo primo romanzo tradotto in italiano, Il velo di Draupadi (Edizioni Lavoro, 2004, trad. M. Ferrara), Ananda Devi componeva un concerto di voci femminili mostrando il possibile riscatto identitario attraverso la protagonista Anjali, una «donna diversa», che ha il coraggio della ribellione. Quell’opera, pur pregevole, era ancorata all’ambientazione esotica e alle tradizioni e ai riti della comunità indiana presente sull’isola Mauritius. Ora l’autrice compie il passo successivo scegliendo di raccontare un’altra storia di riscatto, ma da un punto di vista rovesciato in grado di darle una connotazione universale: la voce corale delle donne in Il sari verde appare solo nel finale ed assolve la stessa funzione salvifica del deus ex machina nella tragedia greca.
Dare la parola al patriarcato oggi ha un significato politico, vuol dire ricordare le ragioni per le quali lo si combatte.
