
Almaty: viaggio nell’ex Sovietistan
Guardo dalla finestra del grande albergo di Almaty (quando la città, nel 1928, ospitò per circa un anno Lev Trockij [1879-1940] per poi espellerlo l’anno successivo, si chiamava ancora Alma-Ata), ex capitale dell’ex repubblica socialista sovietica del Kazakistan (le fu preferita, nel 1997, Astana), fondata dai russi nel 1854 e che cosa vedo? Vedo il “Sovietistan”, o almeno ciò che rimane nelle due lunghe stecche edilizie del periodo staliniano e post-staliniano che si fronteggiano l’un l’altro creando al loro interno un vasto spazio alberato. Tutta la città ne è piena tanto da poter azzardare la definizione di “città giardino”. In lontananza si scorgono le ciminiere di una fabbrica stagliarsi in un cielo grigio che impedisce la vista del massiccio innevato dello Zailiysky Altau di oltre tremila metri, così vicino alla città da poterlo abbracciare. Scendo in strada per vedere da vicino la stecca edilizia senza balconi e i suoi abitanti, passando dal giardino alberato, ma non c’è anima viva, neppure alle finestre; li vedrò certamente ritornare dal lavoro e magari qualcuno di loro porterà i bambini a giocare sull’altalena, godendosi intanto il silenzio, lo stesso che si udiva nei cortili dei palazzi popolari durante il regime comunista che fin dal 1922, anno in cui si concluse la guerra civile vinta dai bolscevichi, intese avviare un’opera di modernizzazione e laicizzazione del paese.
La finestra da cui osservo tutto questo è dell’hotel Mercure, un albergo di lusso di vetro e acciaio con una hall in cui ci si potrebbe perfino nascondere. Esso fa parte di un complesso assai più ampio, progettato e costruito da una società italiana, sul modello nordamericano dell’edificio multifunzionale high-tech. Infatti, oltre all’albergo esso ospita un residence, un business centre, un ristorante il cui nome è dedicato a un famoso vino bianco italiano, un grande spazio commerciale e l’Istituto Italiano di Cultura (IIC), l’ultimo di 100 sparsi in tutto il mondo e aperto da un solo anno. Ciò che colpisce chiunque vi giunga per assistere a un qualsiasi evento culturale, è il fatto, del tutto inedito, che si debba passare attraverso tre piani di esposizioni di vini, liquori e altri prodotti alimentari di qualità, abbigliamento e moderno design di arredamento per poterlo raggiungere. Proprio di fronte alla grande vetrata d’ingresso dell’Istituto è esposta una poltrona in finto marmo con due piante grasse altrettanto finte ma il direttore, l’impavido Edoardo Crisafulli, che conobbi ad Haifa, in Israele e che in seguito rividi a Beirut e più recentemente a Kiev, durante l’epidemia di Covid-19, dove ero chiamato a partecipare come giurato internazionale al Kiyv International Film Festival, non si scoraggia, anzi, orgoglioso di esserne il direttore e quindi di aver contribuito attivamente alla sua nascita, già prevede di integrare il miglior design italiano in una più ampia e organica prospettiva culturale di scambio tra Italia e Kazakistan, sebbene sorga comunque il sospetto che ad Almaty l’Istituto sia nato anche per favorire i rapporti commerciali tra l’Italia e il Kazakistan. È ancora lui a porre l’attenzione sulla figura di Abaj Kunanbayuly (1845-1904), scrittore, poeta, compositore e filosofo kazako, universalmente riconosciuto come il fondatore della moderna letteratura kazaka. Noto come traduttore di molti classici della letteratura russa, fu un poliglotta (le sue lingue predilette: il russo, l’arabo, il persiano ma anche diverse lingue europee) che ebbe il merito, grazie a una visione umanistica e a una profonda cultura, di essere promotore di tolleranza religiosa e di incontro tra le culture, raccolte in un unico pensiero di pace:
Potrà mai della gente senza coscienza indagare su cosa è bene e cosa è male? Non potrà resistere e cercherà il profitto anche se danneggia la vita degli altri. Senza diligenza e duro lavoro non si raggiunge la vera conoscenza... Non sarà la scuola russa a insegnare ai kazaki il male né a portarli su una strada sbagliata. Chi è disonesto per natura comunque diventerà furbo e subdolo... Non pensare al guadagno ma all'onore, sforzati di imparare e sapere sempre di più.

L’ex stato sovietico, tra i cinque dell’Asia Centrale si rivela il più incline, per scelta del suo presidente Qasim-Yomart Tokayev (1953), a una maggiore apertura ai mercati occidentali, pur tuttavia adottando una sorta di realpolitik con la vicina Cina (Almaty è a poco più di duecento chilometri dal confine cinese) e, naturalmente, con la Russia di Vladimir Putin, di cui conserva l’uso dei caratteri cirillici e la lingua diffusa in tutti gli ambienti del paese, sebbene abbia rifiutato di schierarsi apertamente a favore dall’invasione dell’Ucraina. Pur non essendo così dissimile dalle altre democrazie autocratiche degli ex paesi sovietici (con l’eccezione del dittatoriale Turkmenistan), Tokayev mostra di perseguire una politica più tollerante anche rispetto al culto religioso (con una presenza dell’Islam che potremmo definire moderata). Inoltre, il governo kazako finora si è astenuto dalla scelta di far parte dei “Brics”, il raggruppamento dei paesi dall’economia emergente come Brasile, India, Cina, Sudafrica etc., per taluni versi in contrapposizione all’atlantismo dei paesi Nato, il cui vertice si è riunito a Kazan in Russia, proprio in ottobre 2024.

La città non mostra affatto di soffrire del trauma dello spostamento ufficiale della capitale ad Astana, avvenuto nel 1997 come mossa politica dell’allora presidente Nursultan Nazarbaev (1940), fermamente deciso a fare tabula rasa del passato sovietico ancora oggi rappresentato, almeno in parte, da Almaty, edificando una città quasi dal nulla, Astana, sulla base di un precedente insediamento fondato nel 1830 sempre dai russi come avamposto militare nel mezzo della steppa, poco lontano dal confine russo. Gelida d’inverno e torrida d’estate, la vecchia Akmola, di russa memoria, è il folle sogno di un autocrate nazionalista kazako che la volle come una sorta di disneyana Las Vegas dove ciascun architetto (tra i quali alcuni italiani) progetta e realizza il proprio avveniristico giocattolo tra fontane zampillanti, colonne e statue alla memoria e giardini che sembrano finti. Ad Almaty il declassamento non ha lasciato tracce negli abitanti dal momento che la città, sviluppatasi negli ultimi quarant’anni per insulae ortogonali, separate le une dalle altre da larghi viali alberati e non di rado da ampi giardini e parchi, resta pur sempre il centro della cultura (con almeno due grandi università di cui una islamica), e soprattutto del business. Esiste perfino un Festival del cinema ma è purtroppo dedicato prevalentemente al mercato d’importazione. Quest’anno, ad esempio, si celebra la recente scomparsa dell’attore francese Alain Delon (1924-2024) con la proiezione di En Plein soleil – Delitto in pieno sole 1969 di Renè Clement.

In questa immensa griglia urbana che suscita l’idea di uniformità, si trovano dispersi, senza perciò costituire un vero centro urbano, il Teatro d’Opera, costruito nel 1924 in stile classico, il Museo Centrale di Stato, monumentale edificio moderno in cemento a vista ma non esente da un certo decorativismo post-staliniano, fortemente voluto dai sovietici nel programma di valorizzazione del patrimonio nazionale, l’ex palazzo presidenziale, immensa costruzione staliniana, ora trasformata in sede universitaria e la grande chiesa ortodossa, costruita in legno nel 1904 dall’architetto A.P. Zenkov sul modello della chiesa moscovita di San Basilio. Si trova nel parco Panfilov dove in una vecchia dacia trova spazio il Museo degli strumenti musicali. È il luogo prediletto dalle mamme con i bambini che giocano allegramente con le automobili elettriche e con i palloncini, allietati da stormi di piccioni. Un quadro idilliaco che sembra appartenere a un’epoca lontana, meno frenetica e caotica, quando un qualsiasi umile gioco poteva realmente rallegrare un bambino. Non lontano, il memoriale dei soldati kazaki dell’Armata Rossa, caduti nella seconda guerra mondiale. Il plastico monumento del soldato eroico con la fiamma perenne che brucia nell’indifferenza delle nuove generazioni, risveglia il ricordo di ciò che fu il realismo socialista, anche se nessuno qui sembra rimpiangere il vecchio regime, un tempo nuovo e ancor prima perfino d’avanguardia. Penso a Majakovskij e agli altri artisti e intellettuali e poeti che vissero in prima persona l’illusione di un sogno e la sua dissipazione che fu la loro stessa fine. Che cos’è rimasto allora di russo-asiatico e di sovietico nel nuovo Kazakistan che aspira al nuovo mercato globale? Nulla. Forse la vita reale, quotidiana, che ancora si svolge nelle “stecche” sovietiche (le cosiddette case popolari) che il regime non ha ancora voluto distruggere per far posto a nuovi e fiammanti centri commerciali, oppure, ad esempio, nel “Mercato Contadino” che non si trova in Kazakistan ma a Taskent, capitale uzbeka; un edificio a pianta circolare, la cui volta è un intreccio di carpenteria lignea, immensa agorà dove si accumula in un tripudio di colori, ogni sorta di alimento proveniente dall’intera l’Asia Centrale.

All’Istituto Italiano di Cultura si prepara intanto la “Settimana della lingua italiana”, che avrà poi inizio con una conferenza su Marco Polo e lo spirito del viaggio a settecento anni dalla morte del grande viaggiatore, anticipata da una mostra su Marcello Mastroianni, l’attore italiano più famoso all’estero. Anche in Kazakistan ha i suoi ammiratori. La mostra a lui dedicata, infatti, richiama un folto pubblico che ascolta con attenzione il racconto di Francesca Fabbri Fellini, riminese, nipote del regista che già ebbi modo di conoscere a Kiev in occasione di una mostra sul Casanova di Federico Fellini nei vasti spazi del Museo dedicato al grande regista sovietico di origine ucraina Alexander Dovzenko (1894-1956). Numerose foto di scena di alcuni tra i film più noti come La dolce vita, 8 1/2, Matrimonio all’italiana, etc., sono messi in mostra accanto a scatti più “intimi” come quello in cui Marcello, sorridente, si trova in compagnia di alcuni amici e della madre di Federico Fellini mentre il regista sembra essere, invece, un po’ indispettito per una semplice ragione che mi viene prontamente raccontata: Il “maestro” che poco prima aveva tenuto sulle proprie gambe Anita Ekberg, veniva a sua volta redarguito dalla vecchia madre che chiedeva al figlio un po’ di decoro. Ma tra tutti gli scatti, uno campeggia a mo’ di presentazione della mostra: un ritratto forse un po’ malinconico dell’attore accanto ad una vecchia Porsche nel giardino della sua villa romana.
Tutte le fotografie sono di Maurizio Fantoni Minnella.
