Speciale
Paesaggi fatati delle langhe
Una fiaba
C’è una masca (da maschera, termine longobardo che significa strega) col nome Micilina o Miciulina, abitante a Pocapaglia nelle Langhe/Roero, che é citata nelle Fiabe italiane raccolte da Italo Calvino (Mondadori 1993) e precisamente in La Barba del Conte:
Un giorno Masino parte in giro per il mondo, e in paese inizia ad accadere una cosa strana: gli animali vengono rapiti, presumibilmente dalla malvagia “Maschera Micilina”.
Ecco comparire la masca…
I contadini iniziano così a cercare gli animali nel bosco, ma le uniche cose
che trovano sono ciuffi di pelo, forcine e orme di scarpe.
Dopo alcuni mesi e altri furti, gli abitanti di Pocapaglia decidono di chiedere aiuto al Conte dalla lunga barba nera. Lui però rifiuta e quindi gli abitanti scrivono a Masino, pregandolo di tornare in paese:
Vista la sua furbizia e la sua intelligenza gli bastano solo tre domande (una al barbiere, una al ciabattino e una al cordaro) per risolvere l’arcano.
Parte per il bosco e ritorna con... il Conte.
Era il Conte non la masca il responsabile dei furti! Era lui infatti l’unico ad avere una barba lunga, le scarpe (gli abitanti erano troppo poveri per permettersele) e sicuramente uno spirito non avrebbe avuto bisogno di corde per rubare gli animali.
E che dire delle forcine trovate nel bosco?
Le utilizzava per fissarsi la barba sulla testa, in modo da sembrare una donna, in questo caso la “Maschera Micilina”.
Il Conte fu così condannato a restituire tutte le bestie, a pulire le stalle e ad andare tutte le notti nel bosco per preparare le fascine agli abitanti.
Una fiaba, quella in cui Micilina è sospettata ingiustamente di furti, a insegnarci che non sempre le autorità sono affidabili (come il temibile Conte) e furbe come invece l’astutissimo Masino che lo smaschera (perdonatemi il gioco di parole) facilmente.
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Due testimonianze
Una fiaba. Ma consideriamo le testimonianze di due anziane contadine nate nel 1891 in località molto vicine a Pocapaglia raccolte da Nuto Revelli negli ultimi anni Settanta (L’anello forte. La donna: storie di vita, Einaudi 1985) La prima è Lucia Rosso:
Dicevano che a Pocapaglia (non lontano da Sommariva Perno) avevano bruciato
la Miciulina. L’avevano messa su un mucchio di fascine, poi hanno dato fuoco e
lei bruciava e loro (le masche) gridavano: “tacte, tacte, salvte” (attaccati, attaccati,
salvati) però io non l’ho visto (p. 30).
La vicenda della masca Micilina è ricordata da una seconda testimone di Nuto,
Maria Laneri, in una intervista rilasciata dieci giorni prima, il 17 luglio del 1978:
Mia mamma veniva da Monticello e raccontava che c’era una donna a Pocapaglia, la masca Miciulina, che passava sempre da casa loro e dai vicini, li aiutava nei lavori di campagna ma era proprio una masca. Diceva sempre ai bambini: “U fas la goba”(Vi faccio venire la gobba). Poi l’han bruciata viva questa masca, è proprio la verità! Un panettiere l’ha messa sopra un mucchio di fascine perché faceva male alla gente (p. 318).
Colpiscono queste testimonianze perché anche se nate alla fine dell’Ottocento, le due anziane non potevano certo averla vista la masca (come dichiara, a dire il vero, Lucia Rosso) ma neanche la mamma di Maria Laneri avrebbe potuto incontrarla. Micilina è esistita davvero, è finita arsa sul rogo sì ma tra la fine del 1500 e l’inizio del 1600!
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E i documenti in archivio
Confrontando questi scarni dati con la documentazione locale, i lineamenti di Micilina si precisano meglio (esistono al proposito alcuni brevi monografie di studiosi locali). Una tal Micilina, sposata a un manesco e ubriacone di Pocapaglia ma nata a Barolo, risulta in effetti condannata al rogo per il giudizio dell’Inquisitore del tribunale di Savigliano (e del giudice di Cherasco) su una rocca a nord di Pocapaglia. La terribile esecuzione fu accompagnata, così dice un manoscritto risalente al Settecento, da un lungo corteo di confratelli incappucciati di nero col parroco e il seguito di tutti i parrocchiani. E forse, aggiungo, delle stesse invisibili masche, come racconta Lucia Rosso con quel magnifico sussurro antico: “tacte, tacte, salvte”.
Anche il nome della masca ne tradisce l’essenza. Le masche si trasformavano in gatti (di qui Micilina o Miciulina) cani o lupi per poi riprendere le fattezze umane. Erano dotate di poteri ultraterreni (simboleggiati dal possesso del Libro del comando) atti a compensare lo stato di effettiva marginalità in cui quelle donne in carne ed ossa, spesso vivevano, afflitte da povertà, vedovanza, malattie mentali come ci dice Nuto Revelli. Ma le masche sono insieme “racconti”, insegna l’antropologo Marco Aime (Il lato selvatico del tempo, Ponte alle Grazie 2008) capaci di comunicare, come avviene nel corso delle lunghe veglie contadine, i confini e i limiti tra i comportamenti comunitari giusti e quelli no. Non è un caso che spesso vedevano le masche o i folletti, i contadini che in piena notte tornavano dalle osterie mezzi ubriachi o gli adulteri. Ecco che la masca è allora proiezione dello stesso animo umano (una sorta di super io che regola la convivenza).
La memoria è luogo: ecomemoria….
I pensieri mi si affollano in testa. La prima considerazione che faccio riguarda il Tempo. La memoria se declinata col magico acquista nella cultura contadina, tanto più per le donne che ne sono custodi privilegiate, apparentemente un significato quasi metastorico, ultratemporale: una memoria che si snoda lungo il corso delle generazioni (“si diceva” in paese o “la madre ricordava”). Una seconda riflessione conseguente riguarda lo spazio, per meglio dire il territorio. Più che la coerenza cronologica o temporale (nonostante le due donne siano coetanee, del 1891) sembra significativa la coerenza geografico-territoriale. Monticello, luogo di nascita della madre di Maria è assai vicino a Sommariva Perno, il paese di Lucia Rosso, ed entrambe le località sono effettivamente contigue a Pocapaglia, luogo di residenza della masca Micilina destinata evidentemente a godere nei secoli di una straordinaria fama…
E che luoghi! Non meno fatati, diabolici, si potrebbe dire, delle masche stesse, come illustra la natura del paesaggio. Tra Bra a Cisterna d'Asti (e particolarmente evidente proprio a Pocapaglia) corre una sorta di frattura, creatasi oltre 250.000 anni fa e lunga ben trentadue chilometri che ha dato luogo a selvagge forre, profonde gole, guglie, pinnacoli, piramidi di argilla giallastra e testimonianze fossili. Un curioso fenomeno geologico che dà forma ad ampi scorci panoramici sulle Rocche e, nella forra sottostante, a calanchi e torrioni, prodotto di erosioni millenarie causate dai corsi d’acqua nel Roero. Incredibile la luce chiara dei calanchi che ho visto dorarsi in una giornata di sole, illuminando i burroni sottostanti. È una vertigine di colori che mi cattura, dal giallo splendente dei calanchi argillosi, al verde cupo, al marrone. Certo, considero, sono le immagini stesse del paesaggio a costruire la dimensione fatata della masca Micilina di Pocapaglia, la sua potenza ultraterrena ma non solo.
Oltre il tempo, all’incrocio di lunghe, lunghissime durate
Micilina è tutta luogo, lavoro nei campi, paesaggio di rocche e calanchi, terragna in senso proprio, mentre il suo potere ultraterreno, non meno significativo, dissolve il tempo, incrocia le diverse durate nella sua stessa fisionomia: come risulta nella testimonianza di Lucia Rosso il riferimento alla sua natura di strega è affidato quasi esclusivamente alla filastrocca finale “tacte, tacte, salvte” – con le masche che avevano fatto cadere intorno a Micilina invisibili gomitoli di corda cui aggrapparsi – propria di quello che Carlo Ginzburg (Storia notturna: una decifrazione del Sabba, Einaudi 1989) sulle orme di Propp, definirebbe una tipica fiaba di magia. Maria Laneri precisa che il principale potere della masca starebbe nella capacità di far spuntare la gobba ai fanciulli. Ma qual è il significato della gobba? La deformità è una caratteristica della strega (un’anziana spesso ripiegata su sé stessa). In sé certo pare una maledizione ma nell’età greco-romana la gobba era associata alla ricchezza e alla fecondità da cui dipendevano le società contadine. La sua ambivalenza fa della figura del gobbo (come in genere delle ‘creature contraffatte’) una maschera carnevalesca, propiziatrice di fecondità e insieme simbolo di irridente inversione delle armonie del mondo. Coerente, tra l’altro con la fenomenologia del vagabondaggio barocco proprio del Seicento (insieme alle turbe di ciechi e storpi che affollavano le strade di derelitti).
A ciò si aggiunga anche un’altra considerazione: oltre che maschera e figura dei riti agrari pagani il gobbo assume quella postura sbilanciata e la conseguente “asimmetria deambulatoria” di cui parla Carlo Ginzburg. Come il malformato o lo zoppo anche il gobbo può stare, a tutti i titoli, tra le “figure in bilico” (l’espressione non è casuale e allude di sicuro ai disagi deambulatori) tra il mondo dei vivi e quello dei morti, capaci per questo di un contatto più immediato con le potenze del sottosuolo che paiono le vere dispensatrici delle ricchezze della terra. Così nelle fiabe di magia il marchio soprannaturale è sempre impresso nel corpo (spesso il piede come in Achille o Cenerentola o Edipo). E forse anche nei piedi dei fanciulli storpiati dal tocco o semplicemente dallo sguardo di una strega di campagna come Micilina.
Quando c’erano le masche….
Così la nostra Micilina, evocata dalle contadine delle Langhe e del Roero ancora negli anni Settanta nelle vesti di una semplice vicina un po’ strana, certo finita male, riassume su di sé gli archetipi più antichi delle streghe che affondano nel remoto universo rituale dei culti agrari pagani più che nel sottobosco demoniaco disegnato dagli Inquisitori della Controriforma. È una figura ambigua, lunare e capace di usare in forma imprevedibile i propri poteri sulla natura: propiziare i lavori nei campi (anche materialmente come racconta Maria Laneri) o insieme procurare una grave epidemia di quei bachi da seta (per cui viene, secondo alcuni, bruciata sul rogo) così preziosi nella magra economia contadina. La sua figura trascende il tempo all’indietro (simboleggiando antichi riti agrari) ma è destinata alla fine: né la salveranno i gomitoli inviati dalle masche invisibili sul rogo. Il suo tempo è irrimediabilmente segnato anche se Micilina sembra vivere, e morire, nell’universo femminile fatato delle fiabe di magia (come indicano i gomitoli, tanto cari alla Bella Addormentata). Così, quelle parole antiche, quelle immagini di folletti, luci azzurrate dispettose, fate che si annunciano, maliziose, intrecciando le code dei cavalli – e ricorrenti di continuo nei racconti dei contadini di quei luoghi – divengono schegge in rovina di un discorso ormai irrimediabilmente perduto. Come gli edifici che han smarrito il loro senso, le tettoie scoperchiate che aggettano sul vuoto o il disegno enigmatico delle pietre implose, disseminate, a cascata, sui prati.
Le masche allora sono il racconto vivo di una cultura antica: quando “c’erano le masche – così si esprime un testimone ancora di Nuto Revelli – che è un po’ come dire “quando c’era il nostro mondo”. Che adesso, come le masche, non c’è più.
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