Franco Farinelli, paesaggio e geografia

29 Gennaio 2025

Nel suo ultimo libro, Il paesaggio che ci riguarda. Un progetto collettivo, un metodo sovversivo edito dal touring club Italiano, Franco Farinelli torna sui temi che lo hanno fatto conoscere per l’originalità e la profondità del suo modo di pensare la geografia come la scienza umana per eccellenza in quanto espressione del “patto cognitivo” che l’umanità di volta in volta stringe con la Terra. Ma ci torna con un’urgenza rinnovata e resa più impellente dal contesto che si è sviluppato negli ultimi decenni grazie alla tecnologia digitale: il web, la comunicazione tramite smartphone, la dematerializzazione di molti lavori, la globalizzazione del commercio e dei consumi sembrano infatti rendere obsoleta la nozione di paesaggio.

Mentre si mette in evidenza la necessità di una nuova geografia – evidenza alla quale le guerre negli ultimi anni hanno contribuito pesantemente – è necessario domandarsi se sia possibile e sensato tenere separati paesaggio e geografia. Nell’epoca dell’informatizzazione dello spazio, dove non ci si scambiano più lettere che viaggiano da un luogo all’altro, bensì messaggi che arrivano qualche secondo dopo essere stati inviati, dove molto delle transazioni umane può avvenire quasi senza lasciare traccia materiale, diventa infatti sempre più difficile definire il paesaggio stesso.

Eppure argomenta Farinelli è solo recuperandone la matrice storica, ben più articolata e sovversiva dell’idea di luogo ordinato dalla mano o dall’occhio umano che certa pittura e letteratura possono superficialmente suggerire, che possiamo riappropriarci di uno strumento tanto più importante quanto più risulta rimosso dal discorso comune.

Il concetto di paesaggio che interessa Farinelli affonda le sue radici tra la fine del Settecento e l’Ottocento, nell’opera di Alexander Von Humboldt, instancabile viaggiatore, botanista, filosofo, scienziato e scrittore, fondatore di un metodo comparativista che mirava a cogliere l’unicità e la relativa affinità e unitarietà di ogni singola manifestazione della natura.

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Nel libro pubblicato nel 1808, Ansichten der Natur (Quadri della Natura), e in quello uscito nel 1847 Kosmos Humboldt esprimeva la convinzione che: “tutta la natura vivente è attorcigliata da un comune regolato ed eterno laccio.”

Pervenuto a questa sintesi tramite l’osservazione attenta e scevra da pregiudizi di luoghi molto diversi e distanti fra di loro, visitati durante i suoi mitologici viaggi intorno al globo, Humboldt riteneva che il paesaggio fosse il modello di rappresentazione elaborato dall’umanità per comprendere la continuità e i legami sottili che pervadono tutto il vivente.

Ma come puntualmente sottolinea Farinelli il paesaggio, attraverso la sua rappresentazione pittorica, letteraria (e in seguito fotografica) si lega nella cultura tedesca tra Settecento e Ottocento a un preciso intento politico.

La predilezione per le vedute di montagne avvolte all’orizzonte da nebbia, lungi dall’essere solo una qualità estetica ritenuta apprezzabile, era per Goethe e Humboldt il segno di una possibilità di apertura spirituale e politica a un mondo diverso. Il dipinto di Gaspar Friedrick, Un viandante su un mare di nebbia (1818) ora alla Hamburger Kunsthalle di Amburgo, è l’esempio più noto di questo modo di porsi nei confronti della natura: la figura umana di spalle, consapevole di redigere e offrire il proprio punto di vista collocato e non eludibile, si confronta con un orizzonte mobile, dove rocce e vapori si confondono e sembrano scambiarsi i contorni, dove lo sguardo non è pacificato ma sollecitato, e dove il guardare dell’uomo è controbilanciato dalla percezione altrettanto forte di essere oggetto di rispecchiamento da parte degli elementi.

Farinelli afferma che “Anche per Humboldt come per Goethe la bruma che in lontananza avvolge ogni cosa è spia, insomma, della dipendenza dalla rappresentazione pittorica della descrizione letteraria, ma allo stesso tempo è molto di più. Per Humboldt, politico della conoscenza, essa è la metafora di ogni civile intenzione progettuale, di ogni progettualità politico sociale: sempre all’orizzonte ma mai raggiunta, perciò indeterminata e indeterminabile nelle sue forme meno vicine”.

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E d’altro canto la fascinazione per i paesi tropicali, ad esempio, è intrisa di un anelito alla libertà dal regime feudale e aristocratico che ancora dettava la composizione e la geografia europea. Portando nelle case della borghesia europea le tavole colorate, inserite nei suoi libri, che raffiguravano luoghi lontani, Humboldt come molti altri viaggiatori ottocenteschi aveva un preciso intento pedagogico: educare a uno sguardo conoscitivo e scientifico sulla Terra, allargandone gli orizzonti. Il paesaggio per come lo intende Humboldt viene così a coincidere con uno dei tre punti individuati dal filosofo canadese Charles Taylor come tratti costitutivi dell’identità moderna: l’interiorità, il valore della vita individuale di tutti i giorni, la concezione della natura come intima forma morale.

E oggi? In un mondo in cui molto di quello che accade può non lasciare traccia, perché avviene dietro uno schermo, o perché non ci viene mostrato, secondo Farinelli questa precisa nozione e funzione cognitiva del paesaggio dovrebbe essere quella che ci consente di capire la forma dei luoghi in cui viviamo; anche per opporsi all’omologazione imposta dalla globalizzazione – tutti i luoghi tendono ad assomigliarsi sotto l’imperativo commerciale e capitalista – occorre capire le interazioni che l’umanità compie con il territorio, ciò che si decide di valorizzare e ciò che si occulta, ciò che viene rappresentato e ciò che viene negato.

La geografia è scienza del paesaggio, non mera riproduzione cartografica, e la conoscenza del territorio non si può mai ridurre a mappa bidimensionale, bensì richiede immersione tridimensionale in un pianeta in cui ogni punto può essere di volta in volta centro o periferia e i confini più che dati certi sono segni di interazioni.

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