Roberto Longhi e la cultura italiana / Con gli occhi di Artemisia

29 Maggio 2021

L’importanza di Roberto Longhi nella cultura italiana, non solo per la storia dell’arte ma per la letteratura e le sue intersezioni con altre forme di espressione, come fotografia, cinema e teatro, è stata da lungo tempo individuata e sancita; Gianfranco Contini e Cesare Garboli, due fra i più importanti critici del Novecento, hanno studiato la prosa longhiana, l’incredibile tensione stilistica che la innerva nel confronto con le opere d’arte e la sua capacità di traduzione fra codici diversi, visivo e verbale, che diventa atto conoscitivo. 

Marco Antonio Bazzocchi nel bel libro Con gli occhi di Artemisia. Roberto Longhi e la cultura italiana, edito ora dal Mulino, amplia ulteriormente l’indagine sull’influenza longhiana e mostra attraverso l’analisi delle opere di alcuni scrittori, suoi allievi o a lui molto prossimi – Anna Banti, Pier Paolo Pasolini, Giorgio Bassani e Giovanni Testori – come il magistero di Longhi abbia innescato una riflessione ramificata e talora divergente sullo sguardo e sulle immagini nel loro rapporto con la parola scritta. Una ricchezza di esiti che dà conto non solo dell’incisività del pensiero longhiano, ma anche della peculiare stagione in cui venne formulato e recepito: all’inizio di quell’era contrassegnata dal pictorial turn, secondo la fortunata definizione dello studioso americano William J. T. Mitchell, ossia nel momento in cui la concorrenzialità di fotografia e cinema nel raccontare la realtà, rispetto alla letteratura, ha prodotto una svolta epistemologica nei confronti dello specifico linguaggio visivo.

 

Bazzocchi pone in sequenza gli studi longhiani che vanno da Mattia Preti, passando per Piero della Francesca per arrivare a Caravaggio e individua un progressivo consolidarsi di uno sguardo che da una parte rilegge il passato col presente, e allora l’estetica cubista aiuta a definire una predilezione per la forma, il volume, il colore e la luce verso la linea, dall’altra proprio nella luce trova una sorta di corrispettivo di quello che per Proust era la memoria involontaria, ossia la possibilità che le cose si rivelino. La scoperta che “le forme producono livelli successivi di realtà, livelli che non sono accessori o esornativi, ma che acquistano valore nel tempo”, e che la scrittura può cogliere proprio questa vita postuma delle opere d’arte è un carburante formidabile per la letteratura, anche quando ciò avviene per negazione. È il caso di Anna Banti, moglie di Roberto Longhi.

 

Il suo romanzo Artemisia, scritto durante la seconda guerra mondiale, perduto sotto i bombardamenti del 1944, quindi riscritto e terminato nel 1947, racchiude tutta la complessità del rapporto con il tempo, la memoria e l’indicibilità delle immagini. Banti ha dovuto lottare con la propria memoria per recuperare le parole del perduto manoscritto, ma anche con la figura di Artemisia, un fantasma che si manifesta a tratti, che non si lascia mai afferrare del tutto e che riflette la difficoltà del suo essere pittrice e donna, portatrice di sguardo proprio e oggetto di sguardo maschile, nonché vittima di stupro da parte di un collega del padre. Banti sceglie, all’opposto del marito, di non praticare quasi mai nel suo romanzo l’ecfrasis dei quadri di cui parla. Un esempio: a partire da Giuditta che decapita Oloferne, dipinto sul quale Longhi aveva speso una pagina di raffinata e ironica disanima, Banti crea viceversa un episodio tutto narrativo, scevro da descrizioni, ma carico del valore simbolico ed esistenziale che per la pittrice violentata da Agostino Tassi quella scena poteva avere: desiderio, vendetta, violenza. 

Pasolini usa il termine di manierista a proposito di Banti perché intuisce che c’è un tipo di scrittura – ma nel suo caso anche di cinema, un esempio per tutti: La Ricotta, – che si nutre di immagini pittoriche e di una sedimentata cultura visiva per poi trasformarla in narrazione. 

 

 

Bassani nelle Storie Ferraresi lo fa con rappresentazioni auratiche della sua città natale che in verità si rivelano opache a un vero sguardo conoscitivo, puntualmente negato, perché Bassani sopravvissuto alla shoà “ha bisogno di morire progressivamente dentro ogni sua opera”. Seguendo questa lettura attentissima alla semantica delle immagini create dall’autore, Il giardino del Finzi Contini, lungi dall’essere un romanzo nostalgico come da tanti superficialmente viene letto, è il racconto dell’impossibilità della storia, della morte che può essere arginata solo con la memoria e i suoi sepolcri – si pensi all’incipit con la discesa nelle tombe etrusche, seguita dalla descrizione del mausoleo di Moisé Finzi Contini nel cimitero ebraico di Ferrara, fino alla discesa del protagonista ragazzino nel luogo buio delle mura della magna domus, dove Micòl gli ha indicato di nascondere la bicicletta. “Questo tempo del buio, della notte, dell’impossibilità erotica, è in realtà il tempo che verrà riempito nel corso del romanzo, al termine del quale avviene una catastrofe: il campo di concentramento e la camera a gas” allusi nell’incisione di Giorgio Morandi, inserita nella prima edizione, che solo in apparenza raffigura un campo da tennis. 

C’è poi il capitolo davvero densissimo del rapporto fra Pasolini e Longhi: la dedica nel 1962 di Mamma Roma allo storico dell’arte, col quale Pasolini aveva iniziato la tesi di laurea poi andata perduta negli ultimi anni della seconda guerra mondiale, è solo la punta dell’iceberg di una devozione intellettuale manifestata anche attraverso i ripetuti disegni del profilo di Longhi fatti a matita e carboncino da Pasolini. Ciò che di interessante Bazzocchi aggiunge è l’intreccio con altri due grandi studiosi letti in quegli anni: Benjamin e Auerbach, dal primo Pasolini preleva l’idea di montaggio come unico modo per mettere in dialogo il presente con la sua finta rappresentazione, e il passato con la sua luce di verità, dal secondo l’idea allegorica e figurale che dalla costruzione della Divina Commedia di Dante può essere trasferita al romanzo contemporaneo, come avverrà negli incompiuti Divina Mimesis e Petrolio. L’elemento che colpisce di più è proprio la capacità di Pasolini di riadattare alle proprie necessità espressive non solo concetti critici e filosofici ma anche spunti linguistici: la disperata vitalità che si attribuisce altro non è che quella assegnata da Longhi, e poi ripresa da Briganti, ai pittori manieristi.  

Diversa ancora la strada intrapresa da Testori che, se da un lato sembra calcare le orme di Longhi sul piano dell’espressività linguistica, dall’altro arriva a negare proprio l’idea di realtà come fotogramma, contrasto fra luce e ombra, scrittura della luce sul buio, che il maestro aveva elaborato per Caravaggio. A Testori interessa il pulsare della materia, che sia nei quadri di Ennio Morlotti o nella carne stessa del suo amato pittore lombardo, Francesco Cairo, le cui figure di santi in estasi, di martiri e personaggi biblici vengono lette come affiorare in superficie, dal subconscio, di movimenti profondissimi che debordano l’immagine e invitano a uno sforzo visionario per andare oltre. 

Parlare di maestri oggi sembra un gesto fuori tempo massimo. Eppure, pensando a Longhi non si può che constatare l’enorme forza propulsiva da lui esercitata anche, e soprattutto, su chi da lui si è più allontanato. 

 

Marco Antonio Bazzocchi, Con gli occhi di Artemisia. Roberto Longhi e la cultura italiana, Il Mulino 2021.

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