La bellezza e lo strazio: Nan Goldin di Laura Poitras
Prima ancora di provare a rendere l’effetto e le riflessioni che ha prodotto su di me un racconto intimo e politico al tempo stesso, straziante ma anche analitico, a tratti investigativo, qual è All the Beauty and the Bloodshed, (Tutta la bellezza e il dolore) vorrei soffermarmi sulla traduzione italiana che è stata fatta del titolo, perché il dolore, così è stato reso “the Bloodshed”, mi pare un’attenuazione o una sintesi troppo levigata del sostantivo originario che alla lettera sarebbe “lo spargimento di sangue”, o “lo strazio”, di certo qualcosa di più espressivo e specificamene legato al corpo.
Cominciare dal titolo per parlare di queste due ore di filmato, firmate dal premio Oscar Laura Poitras, che a stento può essere ristretto alla categoria del documentario e che giunge nelle sale italiane dopo aver ricevuto importanti riconoscimenti internazionali, tra cui il Leone d’oro alla 79esima mostra del cinema di Venezia, ci consente di accostarci fin da subito alla stratificazione che lo caratterizza, si tratta infatti di una frase che Nan Goldin ha rinvenuto in un referto psichiatrico della sorella Barbara, morta suicida nel 1965. Secondo l’estensore di quel rapporto, l’amatissima sorella della fotografa americana Nancy, detta Nan, Goldin vedeva questo in una macchia del test di Rorschach: bellezza e strage.
Ma non è questo l’inizio del racconto che parte, invece, dal Metropolitan Museum, in particolare dall’ala egizia dove è stato ricostruito il tempio di Dendur e dove, fino a non molto tempo fa, si poteva leggere a caratteri cubitali il nome della famiglia responsabile dell’ingente donazione al museo: i Sackler, titolari di una delle più grandi aziende farmaceutiche al mondo, la Purdue Pharma.
E proprio davanti alla vasca del tempio Nan Goldin insieme al gruppo di attivisti riuniti sotto il nome di P.A.I.N. (Prescription Addiction Intervention Now) mette in scena una delle tante azioni o perfomance con le quali cerca di sensibilizzare l’opinione pubblica, il governo federale e la corte di giustizia sull’epidemia da uso di oppioidi che dal 1996 a oggi ha fatto, nei soli Stati Uniti, più di mezzo milione di morti per overdose, senza contare i danni causati dalla dipendenza da cui la stessa Goldin è stata affetta. Gli attivisti scandiscono alcuni slogan, tipo “Sackler lie, people die”, poi gettano nella vasca davanti al tempio di Dendur i flaconi vuoti del farmaco Oxycontin, l’oppioide prodotto da Purdue Pharma, e si lasciano cadere a terra come morti.
Queste riprese, come molto altro materiale relativo all’azione di PAIN, non sono state fatte da Laura Poitras ma dai collaboratori di Nan Goldin. Quando la scena del museo finisce ci ritroviamo in uno studio oscuro nel mezzo di una tormenta di neve, accompagnate dalle note di “Cold Song” di Purcell: Laura Poitras viene brevemente inquadrata dietro la telecamera, per la prima e unica volta in tutto il filmato, ed è la sua voce che dialoga e interroga Nan Goldin, mentre iniziano a scorrere alcune sue celebri fotografie e alcuni collaboratori vengono ripresi chini sul computer. Ho voluto raccontare questo passaggio perché oltre a essere di grande efficacia estetica – l’oscurità in cui vengono illuminate le diapositive, lo studio in mezzo al bosco coperto di neve, la musica del King Arthur di Purcell, le voci confidenziali della regista e della fotografa – è anche uno spazio in cui l’autrice ci mostra, con un effetto di elegante mise en abîme, come ha lavorato: accogliendo, selezionando e montando moltissimo materiale preesistente, non solo fotografie di Nan Goldin, ma filmati prodotti da lei e dai suoi amici, registrazioni eseguite durante gli incontri degli attivisti o risalenti a molti anni prima, clip inedite e, soprattutto, i racconti di Nan Goldin.
Laura Poitras afferma di aver sempre ammirato il lavoro di Goldin e di essersi interessata fin dal suo nascere, nel 2017, all’azione di P.A.I.N., tanto da decidere di girare su questo soggetto un documentario, ma come ci ricorda il titolo, il film è diventato ben presto qualcosa di molto più complesso che non la restituzione della lotta contro una famiglia potentissima, fino ad allora ammirata per la sua filantropia museale. Il film si è trasformato in un gesto di ascolto e di ricerca nella memoria personale e familiare di Nan Goldin, ma anche di un’intera generazione che ha vissuto in quel wild side cantato da Lou Reed. Uno dei tanti meriti di Poitras è quello di avere preservato e sottolineato questo carattere collettivo – anche le musiche del film sono scelte da un gruppo The Soundwalk Collective -, un senso di comunità proprio non solo alle performance degli attivisti di P.A.I.N. ma del modo di essere e di vivere di Nan Goldin e di una generazione di artisti, attivi a New York tra la fine degli anni ‘70 e i primi anni ’90, che non ha mai considerato l’arte come avulsa dalla politica e l’ha usata, insieme al proprio corpo, come un mezzo per dire la verità. Cosa intenda per verità Nan Goldin lo chiarisce subito: la verità ha qualcosa di sporco addosso, l’odore di come sono andate veramente le cose, al di là di ogni infingimento: “è difficile mantenere la memoria” dice, perché la memoria e la realtà spesso tendono a dissociarsi.
Proprio nella ricerca della verità risiede il legame che tiene insieme le tre narrazioni che compongono il documentario: il piano delle vicende legate alla battaglia contro i Sackler e la Purdue Pharma, la biografia artistica di Nan Goldin e la sua storia personale.
La famiglia Sackler e la Purdue Pharma, sebbene del tutto consapevoli del rischio di dipendenza che l’Oxycontin comportava, ne hanno massicciamente propagandato l’uso come se si trattasse di un innocuo antidolorifico, coi proventi hanno finanziato musei e università negli Stati Uniti e in tutto il mondo. Quando Nan Goldin si rende conto che moltissime delle opere che ha ammirato nei musei sono state donate o acquistate tramite i Sackler, scatta in lei l’idea che dietro la bellezza possa esserci anche moltissimo denaro sporco, grondante della sofferenza di migliaia di persone. Negazione e beffa ammantate di mecenatismo filantropico, perché donando i Sackler godevano di detassazioni consistenti.
La negazione è anche la cifra della vita famigliare di Nan Goldin: quando la polizia arrivò in casa per comunicare che la figlia Barbara si era suicidata sotto un treno, la madre si raccomandò che dicessero agli altri figli che era stato un incidente. Ma Nan aveva sentito, e sapeva che sua sorella si era deliberatamente tolta la vita, incapace di sopportare lo stigma della malattia mentale con il quale la famiglia l’aveva bollata fin da piccola, facendola ripetutamente internare in ospedali psichiatrici.
In verità, ricostruendo la memoria dell’amatissima sorella, leggendo a distanza di anni i referti medici che formavano il suo triste dossier, Nan Goldin si rende conto che Barbara era solo una ragazza piena di talento e di voglia di vivere represse da una madre inadeguata, sessuofobica, a sua volta abusata. Barbara era stata vittima della negazione della propria personalità al primo emergere di una sessualità adulta, ed era stata vittima dell’insofferenza per il perbenismo di provincia in cui erano cresciute. Eppure, in modo tragico, le aveva indicato la strada della ribellione e della ricerca di una propria autenticità.
Sul piano della biografia dell’artista negazione e verità, riconoscimento e memoria sono infatti parole altrettanto ricche di significato. Nan Goldin dopo il suicidio della sorella intraprende una lunga fuga dalla propria famiglia che la porterà a scoprire chi può essere e cosa può fare di se stessa. Non facile per una ragazzina traumatizzata ed educata a una femminilità repressa e convenzionale, di cui sente il bisogno profondo di liberarsi ma che, ad esempio, permane nel modo di vestirsi. Mentre la moda hippie furoreggia, vediamo Nan, che pure per un certo periodo vive in una comunità di quel tipo, andare in giro con gonne attillate e una collana di perle al collo. Ma di certo il viaggio che Goldin intraprende è all’insegna della diversità, della non conformità sessuale, politica e culturale, quello è il terreno in cui riconosce i propri simili e si sente riconosciuta. Le tappe sono scandite da incontri importanti con quelli che sarebbero poi diventati artisti come Cookie Mueller, David Armstrong, David Wojnarovicz, per citarne solo alcuni, tra le figure di spicco della vitalissima controcultura newyorkese che fu poi sterminata nei primi anni ‘90 dall’Aids.
Vivendo di espedienti, vivendo ai margini – Nan Goldin confessa di aver lavorato anche per un certo periodo come prostituta in una casa chiusa – condividendo l’appartamento con drag queen che dovevano rinchiudersi di giorno per paura della polizia, ma poi uscivano la notte per esibirsi e trovare clienti, in una promiscuità costante e spesso favorita dall’uso di droghe, Nan Goldin non aspira a raccontare il mondo diverso da come lo conosce, ciò che le interessa portare sulle copertine di Vogue non è una modella bella in senso canonico, ma i travestiti, gli omosessuali, le persone come lei che dichiarano la propria bisessualità, figure come la proprietaria del Tin Pan Alley Bar, ballerina e cuoca, che accoglie tutti, aiuta chi vuole uscire dal giro della prostituzione, chi ha problemi con la dipendenza, chi è semplicemente diverso a modo suo. E Nan Goldin fotografa questo mondo, i suoi primi slideshow sono lunghissime performance accompagnate da musica, e destinate a cambiare, arricchirsi nel tempo perché per Goldin fotografare significa testimoniare l’esistenza, l’esserci delle persone in un certo momento e in un certo modo: “Pensavo che non avrei perso nessuno se solo l’avessi fotografato abbastanza.” Un atto di amore e di riscatto, prima ancora che un gesto artistico.
Poitras compie un’opera di montaggio mirabile: dalla vita registrata attraverso gli scatti di Goldin alle sue opere, come ad esempio The Ballad of sexual dependency (1979-1985), alla prima mostra da lei curata nel 1989 e dedicata all’Aids, Witnesses against our wanishing, fino alle azioni organizzate con il gruppo P.A.I.N. la regista coglie il nesso fortissimo fra la poetica di Nan Goldin e la sua biografia: una ricerca inesausta sulla verità soprattutto quando è scomoda, quando ferisce e vorrebbe essere rimossa. Poitras vince una delle sfide più difficili: fornire un ritratto non stereotipato di un’artista che per certi aspetti incarna tutte le declinazioni possibili del più stereotipato binomio, ossia genio e sregolatezza, e lo fa con la stessa consapevolezza dichiarata da uno dei produttori, Howard Gertler: “creare il ritratto convincente di un’artista non è un processo immediato.”
In effetti, molta dell’efficacia di All the Beauty and the Bloodshedd viene dal fatto che i diversi piani narrativi intrecciati danno la possibilità di lavorare in prospettiva: dal presente in cui la famiglia Sackler ha dovuto patteggiare per la propria incolumità giudiziaria versando sei miliardi di dollari come risarcimento per il danno causato, al futuro in cui PAIN vorrebbe che quei soldi fossero impiegati per aiutare le persone con dipendenza da droghe, dal passato lussureggiante dei nightclub e della promiscuità sessuale alla conta di coloro che sono sopravvissuti fino ai giorni nostri, dall’idea romantica e balorda, condivisa in gioventù da Goldin, che drogarsi fosse un modo per essere diversi alla consapevolezza odierna di come lo stigma sociale pesi nell’allontanare la possibilità di venirne fuori. Tutto questo raccontano gli scatti, le parole, le azioni di Nan Goldin che Poitras ha saputo raccogliere in un flusso a più strati senza smussarne le contraddizioni o i punti ciechi, ricreando quella stessa fiducia fra lei e la fotografa che quest’ultima ha sempre voluto ci fosse fra se stessa e i soggetti dei propri scatti. Non c’è mai niente di scabroso, pornografico o voyeuristico nelle fotografie di Goldin. Anche quando riprende le persone negli atti più intimi, coglie la loro vita nel momento in cui si rivela e, magari, brilla di una sua bellezza; che poi tutt’intorno ci sia sangue e dolore, anche questo – sembra dirci - fa parte della vita.