Il signor Alonso e la volpe giapponese
Da più di una decina di anni ho in casa una piccola scatola rettangolare che contiene sabbia finissima e bianca, qualche conchiglia, minuscoli frammenti di corallo, uno sterpo secco che assomiglia a una scopetta. Bottino di un’isola incantata che, in realtà – come mi è stato fatto notare – non avrei mai dovuto prelevare dal luogo originario; a mia parziale discolpa dirò che è veramente poca la sabbia e che, all’epoca in cui la presi, non sapevo fosse vietato. Sono una raccoglitrice assidua di conchiglie, pigne, sassi, pezzi di corteccia, semi; una propensione che mi deve essere stata trasmessa dalle antenate del Paleolitico.
A volte mi accosto a questa riserva di sabbia durante le telefonate con amiche o amici che vivono altrove e questo – la lontananza, il vivere in posti diversi – fa sì che le conversazioni possano durare a lungo, essere piene di divagazioni, piccole scoperte, resoconti. Mentre parlo o ascolto, spazzolo la sabbia con lo sterpo, le conchiglie affiorano o si nascondono, traccio linee e cerchietti che poi cancello, mucchietti di qua e di là.
È un rituale cui non avevo mai prestato la dovuta attenzione e che la lettura del libro di Clementina Pavoni, Il signor Alonso e la volpe giapponese. Un caso clinico nel gioco della sabbia (Einaudi, 2022), mi ha aiutato a mettere a fuoco.
Giocare con la sabbia è diventato uno strumento dell’analisi e della terapia psicologica grazie all’intuizione di un’allieva di Jung, Dora Kalff (1904-1990) che nel corso della propria vita professionale si era dedicata in particolare a bambini e adolescenti. Il libro, Il gioco della sabbia e la sua azione terapeutica, pubblicato per la prima volta in Germania e in lingua tedesca nel 1966, definiva quella che in seguito è diventata una pratica analitica applicata anche agli adulti. Il Sandspiel offre la possibilità di dare corpo a conflitti interiori, traumi e disagi tramite una rappresentazione non-verbale o pre-verbale.
Come funziona? L’analista mette a disposizione del paziente una sabbiera e tanti oggetti in miniatura: casette, alberelli, mezzi di trasporto, animali, uomini, donne, bambini, angeli etc. e lascia che il paziente modelli quella materia e scelga di disporre taluni oggetti nello scenario creato. La sabbia così realizzata viene fotografata, come si prende nota di un sogno fatto, per poterlo analizzare e conservare in seguito e nel corso della terapia, solo che a differenza del sogno che si formula per immagini e deve essere travasato nel linguaggio verbale diurno, la scultura della sabbia si dà già per immagini.
La sabbia che insieme all’acqua può essere plasmata a piacimento, ma al tempo stesso non oppone resistenza a venire cancellata, è un materiale che invita a forme di rappresentazione che sono ‘un fare’ che si dà lì per lì, e attinge a contenuti inconsci non esprimibili ancora a parole. Clementina Pavoni, nell’introduzione al racconto del caso clinico del signor Alonso, ammette la propria iniziale riluttanza a servirsi di questa tecnica proprio perché per un’analista abituata a esprimersi come una che scriva su foglio a quadretti, così si autodefinisce, il gioco della sabbia implica invece un’apertura alla riserva di creatività e di indicibilità del vissuto che appaiono assai più difficili da ponderare.
Eppure, pare di capire dall’esperienza di cura che Pavoni riporta – il signor Alonso è un adulto che non si ama, pieno di odio verso una madre alcolizzata e una vita, la sua, costellata da rimpianti e occasioni sprecate – il gioco della sabbia è stato fondamentale per poter ricondurre un dolore monolitico, cosmico e insuperabile, a un dolore che può essere guardato, condiviso, ridimensionato e infine traguardato.
Leggendo il racconto di Clementina Pavoni, corredato dalle fotografie delle varie sabbie realizzate dal Signor Alonso, si ha l’impressione che le immagini che via via danno forma all’angoscia del paziente fornendo talora barlumi di speranza – come la piccola volpe giapponese riportata da un viaggio che da animale astuto e ambivalente qual è potrebbe trarre il signor Alonso in inganno ma anche indicargli la via per uscirne – non siano solo rappresentazioni, mere esternazioni di un paesaggio interiore.
Per modellarle infatti è stato necessario un contatto delle mani con la sabbia, una scelta degli oggetti e del loro posizionamento, infine la condivisione di uno sguardo con l’analista. Insomma la componente del gioco, e del fare e del lasciarsi andare, ha operato mentre sentimenti ed emozioni venivano incarnati e nel farlo ha innestato la possibilità di un cambiamento.
Le sabbie del signor Alonso sono molto varie: ha raffigurato i propri genitori, il proprio volto, il proprio corpo per frammenti e poi finalmente intero, la presenza della propria mente e l’occhio dell’analista, in più di un’occasione ha espresso il piacere di concedersi questo gioco. E questo piccolo piacere, una goccia nel mare della sua sofferenza psichica, è diventato il passaggio attraverso cui si è fatta strada la possibilità di una riconciliazione con se stesso e la propria storia familiare.
A libro chiuso, ripenso alla piccola scatola di sabbia e all’uso inconsapevole che finora ne ho fatto. Perché mi è capitato di manipolare la sabbia soprattutto durante lunghe telefonate con amici? Forse anche io cercavo quello “spazio libero e protetto”, secondo la definizione di Dora Kalff, in cui far affiorare emozioni che a parole non riuscivo a dire? Non so, e non ho le competenze per estendere o articolare meglio questo punto di contatto.
Quello che invece posso dire, per il tipo di formazione e di allenamento a leggere le immagini che ho ricevuto, è che si tratta di vettori potenti sempre, e in particolar modo se sono il corrispettivo di emozioni e di ombre che ci portiamo dentro, di cose che sappiamo senza conoscerle. Le prime informazioni che qualsiasi essere vivente riceve passano per la concretezza di forme materiali, il tatto, il buio e la luce, il senso dell’immersione nello spazio, l’udito e l’olfatto pronti a tradursi in figure molto prima che in parole.
Un vasto sensorio pre-verbale ci accompagna fin dalla nascita, ma si ipotizza anche nell’ultima fase pre-natale, e si arricchisce nel corso dell’esistenza dando forma e struttura ai primi contatti con l’amore, con la frustrazione, con l’abbandono, la tristezza, molto prima che intervenga il logos razionale e analitico. Prima che arrivino i nomi delle cose, e la sintassi che li tiene insieme, siamo attraversati da figure. Forse questo spiega perché le figure possano accedere più facilmente ai gangli sorgivi dove ciascuno di noi ha sperimentato rabbia, odio, gioia, piacere, abbandono, e disperazione.
Ma tornando nello specifico alle figure di sabbia, quello che le caratterizza è che sono forme create con le mani, uscite dalla manipolazione digitale, quindi da un gesto sempre creatore, da un gesto che è estetico nel senso etimologico: proviene dal sentire. Da un lato hanno il potere evocativo proprio dei sostituti, delle cose che stanno per – l’oggetto modellato nella sabbia sta per l’oggetto che da qualche parte esiste – dall’altro proprio perché evocano e rappresentano, ma non sono la cosa in sé, possono sprigionare uno scarto, una variazione, e produrre quel cambio di senso e sentimento, che è vita nuova e ossigeno per chi soffre.