Leonora Carrington, dea della metamorfosi

14 Novembre 2022

Nell’anno che ha visto la 59esima Biennale d’arte veneziana curata da Cecilia Alemani utilizzare come titolo e come linea d’ispirazione Il latte dei sogni, dall’omologa raccolta di racconti per bambini, composta negli anni ’50 ma uscita solo nel 2013, l’attenzione su Leonora Carrington è stata richiamata da due testi: la riedizione del saggio di Giulia Ingarao, Leonora Carrington. Un viaggio nel Novecento (Mimesis 2014 e 2022) e il ritratto, empaticamente personale ma anche pieno di spunti critici, che Elvira Seminara ne fa all’interno della collana le Mosche d’oro di Giulio Perrone editore, Leonora Carrington. Dea della metamorfosi (Giulio Perrone Editore 2022).

Compito non facile quello di scrivere di un’artista che si è espressa a trecentosessanta gradi tra scrittura, pittura e scultura, ed è stata donna che ha portato su di sé lo stigma della diversità, dell’eccentricità, della follia. 

La difficoltà è quella di inquadrare una bambina ipersensibile, dislessica e ribelle all’educazione alto borghese che l’agiata famiglia inglese le vorrebbe impartire, la ventenne che si ritrova compagna di Max Ernst, musa bellissima del giro surrealista a Parigi e precoce scrittrice di racconti inquietanti, la giovane donna che nel 1940 finisce internata nel manicomio di Santander, dopo che Ernst è stato imprigionato e la loro casa malamente svenduta e smantellata, infine l’artista che dopo aver conosciuto tutta la migliore avanguardia europea trova in Messico il luogo ideale per far abitare se stessa e la propria opera: Leonora Carrington non si lascia incasellare. 

Al tempo stesso la diade follia-arte è davvero troppo logora per indulgervi ulteriormente, e bisogna a ogni costo evitare il rischio di lasciarsi trascinare in una sovrapposizione torbida fra l’opera e i dati di una biografia originalissima, di per sé romanzesca, senza che emerga una precisa riflessione sullo stile e sulla qualità. 

La storia della cultura può fare volentieri a meno di una pazza consacrata in più (che – mettiamoci il cuore in pace – a differenza dei colleghi maschi non diventerà, in virtù della propria follia, un genio) e necessita invece di solide biografie artistiche femminili che ci raccontino l’orizzonte e le possibilità di formazione di una donna, la fatica di emergere, il confronto con le proprie simili.

Da questo punto di vista il libro di Elvira Seminara pone alcune questioni importanti: Leonora Carrington era più scrittrice o più artista visiva? Seminara non dà una risposta definitiva, ma sottolinea, a ragione, una dimestichezza con il disegno e con lo studio della pittura che farebbe propendere a individuare un percorso che nella parola trova espressione ma nella figurazione ha il suo cuore pulsante. E d’altronde questa transfuga linguistica che scrive i primi racconti in francese (si possono leggere ora nella raccolta La debuttante, Adelphi) e approda allo spagnolo nella maturità, con il segno pittorico sembra trovare fin da subito una lingua universale, dove mostri, animali, fantasmi, visioni interiori e metamorfosi sottopongono a una torsione continua il visibile.

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"The Juggler" di Leonora Carrington (1954). Fonte: Christies.

Seminara a ragione parla della metamorfosi come la cifra più intima del suo immaginario: piedi umani che sono zoccoli di cavallo, e piedi di mobili che a loro volta diventano antropomorfi, mani che diventano zampe, palpebre che sembrano petali di fiori, capelli che volano in aria come saette e fulmini; nei dipinti di Carrington il simbolo non è mai calato da un codice, ma sembra germinare dagli accostamenti imprevisti e contaminarsi di continuo.

D’altra parte qualcosa di simile accade anche nei suoi testi, e molto interessante risulta il parallelo che Seminara istituisce fra la scrittura di Paola Masino, autrice di Nascita e morte di una massaia (uscito a puntate su “Il tempo illustrato” tra il 1941 e il 1942 e poi pubblicato da Bompiani nel 1945) e l’immaginario di Carrington. Non per accertare un legame diretto, ma per rintracciare una comunanza di orizzonte, un’esplorazione del quotidiano e del domestico femminile attraverso la lente del paradosso, del grottesco, dell’ironia.

Vale la pena riportare le citazioni da Masino che Seminara individua come indici di un sentire e di un’atmosfera comune alle due autrici: “Distesa in un baule che le fungeva da armadio, letto, credenza, tavola e stanza, pieno di brandelli di coperte, di tozzi di pane, di relitti da funerale, la bambina andava catalogando pensieri di morte” e ancora: “si districò i capelli da alcune pianticelle che le erano nate dalla forfora, con le mani leggere staccò l’una dall’altra le palpebre e aprì gli occhi”.

Quel fondo basso, oscuro, discriminatorio e umiliante, in cui Carrington e Masino hanno visto definirsi una parte della loro identità viene così scoperchiato dal sarcasmo, dall’invenzione fantastica e disvelante. Non siamo tanto lontano, per aggiungere un ulteriore confronto, dal romanzo L’iguana di Anna Maria Ortese, in cui l’animale-donna deve destreggiarsi in un mondo di sopruso e cinismo, preservando la propria natura, la propria non canonica bellezza, e la propria vulnerabilità. 

Non mi risulta che Carrington abbia conosciuto Ortese, così come non conobbe Masino, eppure è importante, come fa Seminara, ricostruire possibili genealogie di un pensiero e di forme dell’immaginazione femminile che si confrontano con la vocazione artistica. 

Carrington è invece ritratta in alcune foto con Fridha Kahlo che frequentò a città del Messico per un certo periodo, anche se fu nell’amicizia con la pittrice spagnola Remedios Varo che trovò quella comunanza e condivisione di sentire in grado di diventare progetto esistenziale ed estetico come ha brillantemente siglato Octavio Paz: “Due streghe stregate, indifferenti alla morale sociale, alle forme e al denaro che attraversano la nostra città con indicibile e ineffabile leggerezza. Dove andranno? Dove chiama l’immaginazione e la passione”. 

Donna bellissima, Carrington ebbe la saggezza di capire che anche la bellezza è un dato transeunte, uno stadio del corpo che passa, si modifica come tutto il resto. Valga in tale senso la lapidaria lettera al suo editore parigino, posta a premessa del memoriale En bas (trad. it di Ginevra Bompiani, Giù in fondo, Adelphi 1979), riportata qui da Maria Nadotti in un articolo che ha, tra gli altri, il pregio di cogliere l’autoconsapevolezza che fa grande un’artista.

E sempre a proposito di saggezza maturata, alla domanda su quale secolo, fra quelli passati, avrebbe scelto per vivere, pare abbia risposto: “Nel prossimo, dove il patriarcato sarà sconfitto”. Ce lo auguriamo anche noi. 

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Maria Nadotti | Leonora Carrington: penna, pennello e altre chimere

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