Alì “Farka” Touré: la mia musica viene dall'acqua

3 Marzo 2025

Sono passati quasi vent’anni anni da quando Alì “Farka” Touré, il più celebre musicista del Mali ci ha lasciati. Era nato nel 1939 nel piccolo villaggio di Kanau, sulla sponda sinistra del Niger, non lontano da Timbuctu. Sì, proprio da quella città che nel nostro immaginario vive sul confine tra mito e realtà lontana. Non a caso era solito scherzare, dicendo: «Per qualche persona, quando dici Timbuctu, è come dire “la fine del mondo”, ma non è vero. Io vengo da Timbuctu e posso dirvi che siamo proprio nel cuore del mondo». Decimo figlio di sua madre, dopo che molti suoi fratelli maggiori erano morti venendo al mondo o poco dopo: «Il nome che mi fu dato era Ali Ibrahim – raccontava – ma è frequente in Africa dare a un figlio un soprannome». Per lui i genitori scelsero “Farka”, che significa “asino”, un animale che nel Mali è ammirato per la sua tenacia e per la robustezza.

Talking Timbuktu
Il mio primo incontro con la sua musica avvenne nel 1995. Mio padre era appena mancato e un amico mi regalò un cd, dicendomi: «Ti terrà compagnia». Era Talking Timbuktu di Alì Farka Touré con Ry Cooder. Dalle casse uscì un suono che scivolava tra dolcezza e disperazione con una semplicità, che solo la vita vera riesce a esprimere. La voce che al primo ascolto sembrava stridula, diventava di volta in volta accecante nel suo tagliare l’aria e raccontare storie di anime. 
Il secondo incontro fu di persona e proprio là, nel centro/limite del mondo, nella sua Niafunké, pigramente appoggiata sulle acque limacciose del Niger. La sua casa lo sapevano tutti dov’era, una casa grande, sempre piena di gente che andava e veniva. Lui era lì, seduto su un tappeto nel suo grande boubou azzurro, mentre nel cortile grandi e piccini si ammassavano davanti a un enorme televisore acceso. Aveva l’aria di un patriarca d’altri tempi. Il suo modo di parlare e di raccontare aveva i tempi e i ritmi dei griot, i cantastorie della tradizione orale, che però non amava molto: 
«Il griotismo è molto diverso dalla cultura. Un griot è uno che inventa. L'arte invece è una risorsa che ha le sue radici nella storia, che educa, che incoraggia a lavorare e che dà l'ispirazione per fare bene o anche, talvolta, per fare male. È questo l'arte. Il griotismo è musica commerciale, fatta per guadagnare. Quello che racconto io, cantando nei dialetti locali, serve a sensibilizzare, educare, risvegliare lo sviluppo e il lavoro e l'amore sociale. È questo. Non lo faccio per comprare whisky o birra!».
Sempre pronto alla battuta, allo scherzo, terminava spesso i suoi discorsi con un proverbio, com’è tipico della tradizione maliana. Un proverbio che talvolta serviva a rafforzare la frase, mentre a volte lasciava in sospeso il giudizio, creando un momento di sospensione, che induceva a pensare. 
Chiacchierammo di musica e mi accorsi solo dopo un po’ di quanto inadeguate fossero le mie domande. Per me Ry Cooder, il chitarrista californiano con cui aveva realizzato Talking Timbuktu, è un grande della musica e gli chiesi cosa avesse provato a suonare con lui: «Non ho guadagnato niente. È stato come mettere zucchero nel miele per renderlo dolce. Lui ha imparato, e va detto che impara in fretta. Gli ho dato qualcosa che non conosceva: le radici di questa arte» disse, «ho solo dato, perché vengo da qui, da una terra dove si trovano l’ombelico e le radici della tradizione africana. Quando dicono: l'arte, la musica ... siamo noi che abbiamo la musica. Ogni etnia di questo paese ha la sua cultura, la sua storia, le sue leggende, la sua arte e ognuna ha espressioni diverse. Non è come in Occidente dove si suona solo per il piacere di farlo». Mi ha spesso colpito come il costante complesso di inferiorità, che gli africani tendono ad avere nei confronti dei bianchi, svanisca quando si scende sul terreno della musica. «Il senso della musica è universale, però ho visto giapponesi, canadesi, americani, italiani venire qui a imparare a suonare la kora, lo xilofono, le percussioni, ma non ho mai visto un africano andare in Europa per imparare a suonare o a ballare. Noi possiamo dare tanto. In Giappone c'erano musicisti che volevano suonare con me. Eravamo di culture molto diverse, ma la musica è universale. Ho cercato di insegnare qualcosa a quella gente, ma sai, quando metti lo scorpione nella bocca fai attenzione a dove metti la lingua. Dopo erano obbligati a suonare come me!».
Qualcuno lo ha definito il John Lee Hooker del Mali, cosa che non ha mai gradito, lui che ha sempre rivendicato il primato della sua terra su quella musica che sarebbe poi diventata il blues: «Mi hanno chiesto più volte qual è la differenza tra il blues americano e quello africano. Gli ho risposto che in Africa non abbiamo la parola blues. È senza significato».
Eppure è di lì, dalla vasta ansa che il fiume Niger compie, fino ad accarezzare le sabbie del Sahara, prima di lanciarsi verso l’oceano, che quella scala di cinque note, quel canto che mescola il ritmo dell’Africa nera con la melopea araba, che è partita quella musica. È partita in catene, nelle voci degli schiavi che l’hanno portata nelle Americhe, dove ha incontrato altri suoni, altri ritmi. Così è nato il blues, la musica dell’anima.

The river
Martin Scorsese, ha intitolato un suo film-documentario Dal Mali al Mississipi, ma nella pellicola il viaggio va in senso opposto: parte dalle storie di vecchi bluesmen americani, raccolte dal bluesman Coray Harris, per approdare sulle rive del Niger, dove il protagonista incontra Alì e suona con lui. Perché puoi chiamarlo come vuoi, ma quella musica, quella, viene di lì. Quelle corde tirate, quelle note strozzate legano il Niger al Mississippi. Due fiumi, acqua, un tema che ritorna spesso nei titoli di Alì Farka Touré. 
«La mia ispirazione viene dall'acqua. È col fiume che lavoro. Quando lo vedo l'ispirazione mi entra dentro. «È il paesaggio che dà la forza. La musica incoraggia l'agricoltore, l'allevatore il pescatore a fare meglio il loro lavoro. In un giorno potrei incidere tre CD. Io non scrivo mai la musica. Non ho nemmeno un registratore. Lavoro con le idee e la sera, se la pancia è piena, nel mio giardino lo spirito vola nelle nuvole».
La terza volta che lo incontrai, fu nel 1998 a Villa Arconati, a Bollate, dove Alì teneva un concerto. Riuscii a incontrarlo prima che iniziasse. Sedemmo anche quella volta su un tappeto messo lì per lui. Si ricordava benissimo della mia visita, chiacchierammo un po’, prima che venisse chiamato a suonare, in modo magico, come al solito. Gli dissi che più ascoltavo i suoi pezzi e quelli di altri maliani, più avevo la sensazione che la musica, tutta la musica, nascesse dai suoi luoghi.
«È la verità» disse ridendo.

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In copertina, Ali "Farka" Touré

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Ali Farka Touré