Otto lezioni sull’Africa
Otto lezioni sull’Africa, da poco tradotto da Lorenzo Alunni per le edizioni e/0, potrebbero sembrare poche, ma Alain Mabanckou, scrittore congolese, ne approfitta per farci entrare, attraverso la letteratura, un po’ di più in quel continente che ancora soffre di troppi pregiudizi da parte di molti. Sono otto lezioni tenute al Collège de France, di cui l’autore fa parte, e non a caso la prima è dedicata a come l’Africa sia entrata nel nostro immaginario attraverso gli scritti dei primi viaggiatori-esploratori. Molti di loro hanno offerto letture esotizzanti e primitiviste a un tempo. Il mito nasce attorno alla città di Timbuctu, divenuta quasi metafora dell’altrove per eccellenza, mentre in Cuore di tenebra troviamo una terra che incute timore, paure, un mondo misterioso, intriso di stregoneria. Si tratta di un prologo alle lezioni successive, in cui l’autore affronta molte tematiche attuali.
Mabanckou è subito esplicito nell’affermare, che non si può disgiungere la letteratura africana dall’esperienza coloniale e dalla letteratura coloniale. Le due si intrecciano, inevitabilmente e solo mettendole di fronte, se ne possono leggere le influenze reciproche.
Bellissima e profonda l’analisi che Mabanckou, porta avanti nel secondo capitolo, del concetto di Negritudine. Questo movimento di idee, nato dalle menti di Aimé Cesaire e Leopold Sedar Senghor, nella Parigi degli ultimi anni Cinquanta, si proponeva di rivendicare un certo orgoglio africano, da contrapporre alla visione “bianca” di quel continente. Rivalutare il fatto di essere africano, questo era lo scopo e farlo attraverso le arti, la saggistica, per dimostrare che i neri non erano inferiori al colonizzatore. Mabanckou è molto onesto, dopo averne ripercorso la storia, fin dalle origini grazie agli scritti e all’impegno di W.E.B. Du Bois, ne mette in luce il merito, ma anche i limiti, dando voce anche agli intellettuali critici. Per esempio, lo scrittore nigeriano Wolw Soyinka, premio Nobel per la letteratura nel 1987, afferma che «la tigre non proclama mai la propria tigritudine: tira fuori gli artigli e balza addosso alla sua preda», oppure il maliano Manthia Diawara, scrittore e professore di letteratura negli Stati Uniti, non ha mai fatto segreto delle sue perplessità, convinto che avere in comune “l’avversario bianco” non sia sufficiente a costituire le fondamenta di una cultura comune.
Il movimento della Negritudine nasce a Parigi, in una realtà coloniale, da voci che venivano dall’Africa, ma studiavano nelle università della capitale francese. Forse anche per questo, nel loro anelito di un ritorno all’Africa (un’Africa spesso idealizzata, “pura”) trovarono una barriera di incomprensione quando iniziarono a rapportarsi con gli scrittori afroamericani. Non si capivano, le loro esperienze era molto diverse. «I negri esistono solo negli Stati Uniti» affermava James Baldwin, sottolineando l’unicità dell’esperienza americana, fondata sulla schiavitù e sul razzismo. Così come il volere mettere, giustamente, in luce il fondamentale apporto dato dalle popolazioni africane alla Storia, per esempio come nell’opera di Cheick Anta Diop, ha portato a una visione “bianca” capovolta, disconnettendo l’Africa dal resto del mondo, invece di inserirla in una rete di relazioni. Ma questo è facile dirlo oggi, a quei tempi il pensiero e le esigenze erano diverse.
Allo stesso modo alcuni tra i primi scrittori africani hanno raccontato in forme diverse il passato del continente, basti pensare all’epopea di Sundjata, primo imperatore del Mali, per legittimare una storia gloriosa. In quest’ansia di farsi riconoscere, è accaduto, ci dice Mabanckou, che si oscurassero anche i momenti e i personaggi negativi della storia africana, finendo per darne un’immagine quasi fiabesca. Le cose cambieranno in epoca post-coloniale, quando gli scrittori africani, molti dei quali appartenenti alla diaspora, inizieranno ad affrontare temi più “globali” e non prettamente legati all’esperienza coloniale.
Continuando le sue lezioni sulla letteratura africana, non poteva mancare un focus sulla lingua: qualche scegliere? Quella dell’ex colonizzatore? Certamente offre una possibilità di allargare a dismisura il proprio bacino di lettura, ma è una lingua straniera, è adatta a esprimere stati d’animo legati alle culture locali? Oppure la lingua tradizionale, come ha fatto, per esempio, il kenyano N’Gugi Wa Thiongo, che ha deciso di scrivere in gikuyu, cosa però che rende difficile l’accesso alle sue opere. «Parlare di letterature nazionali, significa rimproverare a quegli scrittori di aver sconfessato le proprie lingue a vantaggio di quelle degli ex colonizzatori. In questo senso, una letteratura congolese di lingua francese non potrebbe mai essere definita una “letteratura nazionale”, perché espressa in una lingua straniera, il francese, una lingua che, pare, non sarebbe in grado di supportare certi “codici” delle realtà africane», scrive l’autore, ma allo stesso tempo afferma che in questa idea si ritrovano tracce di una nostalgia del passato condita con un africanismo gregario che non lascia agli autori la possibilità di sentire il rumore del mondo. In questo modo la letteratura africana rimarrebbe confinata in un recinto continentale, se non “razziale”.
Intrecciando continuamente letteratura e fatti sociali, Mabanckou esplora in che modo sono stati descritti in diversi romanzi i bambini-soldato, impiegati sempre più spesso nei conflitti interni africani, così come il genocidio del Rwanda, avvenuto agli inizi degli anni Novanta e altri eventi della storia recente.
Il fascino di questo libro sta nello sguardo sempre “diagonale” dell’autore, capace di navigare con perizia attraverso le difficili acque della tradizione africana, dell’esperienza coloniale e di quella attuale, offrendo sempre un punto di vista originale, senza mai cadere in manicheismi o dogmi ideologici. Un libro che fa bene, perché aggiunge un altro piccolo tassello alla conoscenza dell’Africa, di cui malauguratamente noi ignoriamo ancora troppe cose.