Restituzione: di chi sono le opere d’arte?

5 Gennaio 2025

Proprio in questi giorni è uscito nelle sale (ma è visibile anche in streaming) il film-documentario di Mati Diop dal titolo Dahomey, che riguarda proprio il ritorno in patria di quei 26 oggetti, sottratti in epoca coloniale. Girato in modo suggestivo, con una profonda voce narrante, il film porta a riflettere sull’annosa questione delle “restituzioni”. Di particolare interesse, sono le scene girate all’università di Abomey-Calavi, che riprendono un vivace e interessante dibattito tra gli studenti beninesi. Da un lato c’è chi celebra il ritorno degli oggetti, dall’altra chi critica il fatto che su settemila pezzi conservati nei musei francesi, ventisei siano davvero pochini. Alcuni poi recriminano il fatto che quelle opere, una volta tornate in patria, siano state messe nel museo nazionale. Di nuovo in una teca, mentre si tratta di oggetti rituali, che devono “vivere”, agire e non essere conservati per essere poi ammirati.

La questione centrale però (e non vale solo per l’Africa) è: di chi sono le opere d’arte? Un pomeriggio del giugno 2020 Mwazulu Diyabanza, artista congolese, si reca insieme ad altri quattro compagni al Musée de Quai Branly, una delle più ricche raccolte di arte “etnica” al mondo, erede del celebre Musée de l’Homme, che sorgeva al Trocadero. Come al solito il museo è affollato e nel bel mezzo della visita Diyabanza improvvisa una sorta di arringa contro i furti d’arte perpetrati in Africa in epoca coloniale. Dopodiché lui e i suoi compagni hanno rimosso un palo funerario dell’Ottocento proveniente dal Ciad, dirigendosi verso l’uscita, dove sono stati bloccati. Diyabanza è stato successivamente protagonista di altri episodi simili, inscenando furti di oggetti africani da diversi musei, per protestare contro le razzie compiute dai colonialisti. «Ho dovuto pagare con i miei soldi, per ammirare qualcosa che è stato sottratto con la forza e che appartiene al continente da cui provengo. Nessuno vieta a una persona di ricuperare le sue proprietà» ha detto in un’intervista. Parlando del British Museum, l’avvocato specializzato in diritti umani George Robertson, lo definisce: “il più grande ricettacolo di opere d’arte rubate al mondo”. Sono sempre più numerosi gli attivisti che inscenano proteste di questo genere, così come sono in aumento le richieste da parte di molti Paesi africani, di restituzione delle opere d’arte sottratte.

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Natitingou (Benin), Marco Aime.

Anche l’Italia si è trovata ad affrontare questo problema, basti ricordare la vicenda del celebre obelisco di Axum che dal 1937 si ergeva a Roma presso il Circo Massimo e che venne restituito all’Etiopia nel 2005. Il tema è quanto mai vivo: «Non posso accettare che una larga parte del patrimonio culturale di molti paesi africani si trovi in Francia» ha dichiarato il 28 novembre 2017 a Ouagadougou Emmanuel Macron, che ha poi commissionato un rapporto sul tema al senegalese Felwine Sarr e alla francese Bénédicte Savoy, aiutati da un centinaio di esperti in varie discipline. Al contrario, nel Regno Unito, il British Museum non ha voluto andare avanti sulla questione, sebbene abbia ricevuto diverse richieste da altri paesi.

Una delle raccomandazioni del Rapporto Sarr-Savoy, esorta ad «accogliere favorevolmente le richieste di restituzione di oggetti raccolti nell’ambito di certe sedicenti “missioni scientifiche” a meno che non esistano testimonianze esplicite sul pieno consenso dei proprietari o custodi degli oggetti nel momento in cui questi vennero presi. Il Rapporto ha dato i primi frutti, con la restituzione di alcune opere, tra cui i ventisei “Tesori di Abomey”. «Non sono nichilista, non ritengo che non sia successo niente: è iniziata la restituzione a due paesi – dice Sarr – Ma dobbiamo andare molto oltre, perché il gesto che è stato fatto non è all'altezza della posta in gioco».

Emmanuel Kasarherou, il nuovo presidente del museo Quai Branly, ha però giudicato “molto militante” il Rapporto e dichiarato che non sarebbe stata la linea guida della sua azione. A differenza del suo predecessore, che era più favorevole alla circolazione e alla condivisione delle opere d'arte in questione, per Kasaherou è possibile che le opere vengano restituite, purché sulla base di ricerche scientifiche per individuarne le origini precise.

Sulla difficoltà della restituzione si pronuncia anche Simon Njami, direttore di Revue Noire, rivista di arte africana: «Come possiamo definire con esattezza a chi appartengono tutti gli oggetti di arte africana custoditi presso i nostri musei? I confini dell’Africa prima di essere chiaramente tracciati dalle potenze europee durante la conferenza di Berlino del 1884-85 erano estremamente labili, praticamente inesistenti. Questo rende impossibile identificare esattamente quale Stato africano sia il legittimo proprietario di molti manufatti da noi custoditi. Restituire queste opere d’arte è fuori discussione. Tuttalpiù possiamo organizzare periodicamente una mostra itinerante lungo l’Africa».

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Natitingou (Benin), Marco Aime.

Non sono però molti gli Stati africani che richiedono la restituzione, il Benin è uno dei più attivi, ma molti altri governi non sembrano particolarmente interessati. Per loro le questioni di sicurezza o economiche sembrano più urgenti della questione delle restituzioni. Ci sono, inoltre, alcune difficoltà tecniche: molti Paesi non hanno delle strutture adatte a conservare oggetti antichi.

Alcuni musei hanno proposto una sorta di “restituzione temporanea”, una sorta di prestito, ritenuto però inaccettabile da molti esponenti africani, secondo i quali tale modalità avrebbe l’obiettivo di mantenere intatta e inalterata la proprietà illecita di questi pezzi d’arte rubati a chi li ha veramente prodotti. «Questi oggetti devono essere restituiti ai legittimi proprietari e in modo definitivo. Semmai i musei africani possono ‘imprestarli’ ai musei europei per delle mostre tematiche dietro compenso monetario che servirà a finanziare la conservazione del nostro patrimonio culturale ed artistico», dichiara al quotidiano britannico» dice Peju Layiwola, professore presso l’Università di Lagos.

Al di là dei problemi tecnici, il merito del dibattito è di avere messo il dito nella piaga, nel fare uscire dal silenzio il fatto che l’80-90% del patrimonio artistico africano è fuori dal continente ed è stato in gran parte rubato. Non si tratta solo di una questione inerente il mondo dell’arte, la difficoltà principale sta nel fatto che questo tema costringe a ripensare l’intero passato coloniale, con il quale non si sono mai fatti fino in fondo i conti.

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In copertina, Timimoun (Algeria), Marco Aime.

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