Africa rossa

1 Dicembre 2024

Un libro coraggioso, che non può non far discutere quello di Kevin Ochieng Okoth. Nel suo Red Africa, infatti, Okoth attacca con veemenza quello che lui definisce Afropessimismo 2.0, una visione per cui l’Africa è un perpetuo caso disperato, attribuito a difetti intrinseci e “naturali” della psiche africana. Un caso senza soluzione, dunque, senza. Questa lettura, adottata da molti intellettuali africani contemporanei, non tiene però conto della storia e in particolare del ruolo del colonialismo e della tratta degli schiavi. Finisce così per cadere in una sorta di auto-vittimizzazione, secondo la quale: «La “nerezza” (blackness) è una condizione eterna che impedisce ai neri di partecipare alla politica e li condanna a una vita di morte sociale».

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Come uscire da questa impasse? Okoth individua nel marxismo una soluzione, quel marxismo spesso attaccato da molti intellettuali, perché eurocentrico e pertanto estraneo alle culture africane, pertanto non può esserci una lotta unitaria per superare il razzismo strutturale. In sette capitoli, Okoth, pur riconoscendo alcuni passaggi non chiari nel pensiero di Marx, indica chiari esempi di casi in cui il teorico tedesco ha riconosciuto i particolari benefici del lavoro schiavistico per il capitalismo, in quanto distinto dal lavoro salariato. Okoth ritiene che il punto di partenza delle critiche radicali nere a Marx sia in qualche modo distorto. «Dovremmo chiederci non cosa ci dice Marx sulla schiavitù, ma cosa ci dice la schiavitù su Marx», scrive e contrappone il riformismo di personaggi come Julius Nyerere, Léopold Senghor e Kwame Nkrumah al dinamico afro-socialismo di Amílcar Cabral, Agostinho Neto, Samora Machel e Andrée Blouin, tra molti altri. Questi sono i movimenti che meglio caratterizzano la tradizione dell'“Africa rossa”.

Accusa di mancanza di coraggio e di radicalismo molti leader africani post-indipendenza, cosa che avrebbe favorito il neocolonialismo. Dimostrando non poco coraggio critica anche un monumento della storia africana come Leopold Senghor, accusato di voler piacere più ai bianchi che ai neri. Si lamenta di come gli afropessimisti guardino più al pessimista Pelle nera, maschere bianche di Franz Fanon che non al suo più radicale e combattivo I dannati della terra, come a dire che un Fanon depoliticizzato è meno pericoloso per l'ordine esistente. L'autore sfida il finto radicalismo di certi discorsi post-coloniali: concepite negli uffici confortevoli e climatizzati delle istituzioni accademiche catturate dagli interessi neoliberisti, queste idee o prestano un'attenzione eccessiva al simbolico (estetica decolonizzata) o, peggio ancora, generano apatia.

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Ganvié, Benin, Marco Aime.

Da questa ondata critica si salvano alcuni leader africani come Amilcar Cabral e Agostino Neto, ma curiosamente non cita Thomas Sankara, che di fatto è stato uno dei più rivoluzionari tra i leader africani. Interessante, invece, la parte dedicata al contributo delle donne africane alla lotta rivoluzionaria, argomento assai poco trattato.

Conscio che non c’è facile soluzione a un atteggiamento culturale piegato da secoli di storia, Okoth rilegge però con un certo ottimismo i recenti movimenti africani, e invita i giovani africani a non chiudersi nell’angolo, ma ad adottare principi universalisti. Ecco perché, a differenza delle sue controparti ideologiche pessimiste, Okoth vede la possibilità di imparare sia dai fallimenti che dai trionfi e scrive: «Sta a noi costruire un comunismo per i nostri tempi dalle rovine dell'Africa rossa...»".

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In copertina, Ganvié, Benin, Marco Aime.

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