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L’Africa a Venezia
Quando pensiamo a Venezia, al suo passato, uno dei primi nomi che ci vengono in mente è quello di Marco Polo e di conseguenza del rapporto tra la città della laguna e la lontana Cina. Sebbene i Pitura Freska, gruppo musicale reggae veneziano, alcuni anni fa auspicassero un papa nero, il legame tra Venezia e l’Africa è meno evidente. Eppure, sulla Torre dell’orologio, che domina piazza San Marco, ci sono i celebri “mori” e non dimentichiamo che anche Otello, lo sventurato innamorato di Venezia è un “moro” anch’egli: "Haply for I am black", dice.
In realtà la relazione tra Venezia e l’Africa è più lunga e consistente di quanto si pensi, semplicemente non è stata raccontata. Per esempio, già nel XIV secolo si registravano intensi scambi commerciali tra la città e l’Africa subsahariana. Tramite le carovane del deserto, Venezia importava oro e rame dall’Africa occidentale e allo stesso tempo esportava manufatti e carta. Carta, sì, proprio così: sono noti a tutti i celebri manoscritti delle biblioteche di Timbuctu, città medievale colta e letterata. Per produrre quei testi occorreva carta e questa arrivava da Venezia, che raccoglieva la produzione delle numerose cartiere attive allora nel Veneto e nel Friuli-Venezia Giulia. Così come nella città maliana molte donne indossavano collane fatte di tubetti di pasta di vetro colorate, che ancora oggi vengono ancora chiamate “pierres de Venice”. Arrivavano da Murano.
Il libro Venezia africana, curato da Paul Kaplan e Shaul Bassi, attraverso una serie di itinerari, ci racconta le molte testimonianze della presenza africana a Venezia. Sono tanti, infatti, i dipinti, i testi, i segni che testimoniano questa realtà. Una realtà che spesso ha il volto triste della schiavitù, perché già dal 1200 i veneziani praticavano il commercio degli schiavi, prima dai Balcani (è da “slavo” che deriva la parola “schiavo”) e poi anche dall’Africa subsahariana.
L’immagine che questi percorsi ci offrono non è però solamente legata a questa tragedia, ma presenta diversi aspetti relativi al modo in cui gli africani venivano percepiti a Venezia: ci sono paggi di corte, abbigliati alla veneziana, re Magi e altre figure. In alcuni casi appaiono come gli estranei all’ennesima potenza, il volto dell’Altro tout court, mentre in altre riproduzioni sembrano inseriti nella normale routine veneziana. Si può addirittura vedere un barcaiolo nero in un mosaico di San Marco.
Come si diceva, il libro è strutturato in itinerari, percorribili a piedi o in barca, ciascuno dei quali conduce a incontrare testimonianze “afro-veneziane” da cui prendere spunto per una riflessione che va al di là delle immagini stesse. In realtà gli itinerari non sono tutti percorsi reali, ma anche mentali, in cui il testo ci accompagna attraverso storie, percezioni, visioni e riletture della storia. In questo modo l’intero libro, corredato da molte illustrazioni, ci offre un’occasione per rileggere Venezia sotto un’altra luce, con occhi diversi, da un’angolatura differente. In questo modo ci restituisce in pieno la dimensione internazionale e multiculturale che la città aveva fin dall’antichità.
Già il fatto che il simbolo della città è un leone, animale quanto mai africano, è significativo e anche nei mosaici della Basilica di San Marco troviamo altri elementi africani, come nella placca della Missione degli apostoli, risalente al 1105, in cui sono raffigurati due rappresentanti dell’umanità e uno ha la pelle scura. Anche nella cupola della Pentecoste spicca l’immagine di due egizi “neri”, ma troviamo anche un barcaiolo africano che sta “rubando” il corpo di San Marco, cosa peraltro mai avvenuta, ma incolpare un africano in fondo poteva fare comodo. All’interno del Palazzo Ducale spicca una tela ovale, dipinta da Paolo Veronese, in cui appare la testa di un africano.
Non solo i dipinti, ma a saperli leggere anche le pietre e i marmi parlano del continente africano, il porfido rosso e il granito di Assuan, che corredano molti edifici antichi venivano dall’Egitto, così come l’alabastro era tipico della regione di Orano, in Algeria.
Una passeggiata nel Sestiere Castello conduce ad altre scoperte. A partire dall’atrio del celebre hotel Danieli, dove si trovano statue in legno dipinto, che raffigurano dei “mori”. Nella chiesa di San Zaccaria si può poi ammirare un re Magio nero, dipinto da Niccolò Bambini (1717), che indossa un turbante e anche nel Museo delle Icone a San Giorgio dei Greci si trova un’altra adorazione dei Magi in cui figurano moltissimi personaggi dalla pelle scura. I percorsi non sono solo pedonali, ma anche storico-letterari, come per esempio la ricostruzione del commercio delle perline colorate, per poi ricordare il celebre gruppo reggae di Marghera Pitura Freska, che suonano musica che dall’Africa è andata in Giamaica, per arrivare fin sulla laguna a coniugarsi con il dialetto veneziano.
Alla fine della lettura un pensiero balza alla mente: quando oggi sentiamo parlare del pericolo che le nostre città siano “troppo” multiculturali, dovremmo pensare a come erano città come Venezia, Genova, Gerusalemme nell’antichità e ci accorgeremmo di quanto ridicole siano certe paure.
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