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Diluvio: con tutta l’acqua alla gola

21 Marzo 2025

Megauragani, megalluvioni, megaincendi, megasiccità. Clima radicalizzato, politica radicalizzata, società radicalizzata, comunicazione radicalizzata. Ottundimento cognitivo, letargia tecnologica, inettitudine gestionale, impotenza economica. Il mondo come lo conoscevamo ha l’Alzheimer, la sua demenza è così avanzata e così capillare che tutte le persone di buona volontà, quelle che ancora pensano e sentono, che ancora credono nel dovere dell’azione, nel mutuo appoggio, nell’amore per le specie e i paesaggi terrestri, sono trattate da quel mondo malato che non li riconosce più come dei fantocci impotenti. E appunto il senso di impotenza, di sfiducia, di ansia oscura spinge i giusti all’azione illegale, al gesto violento, alla seduzione del caos. E tutto accade senza strappi eclatanti, un grado in più alla volta, un’elezione alla volta, un piccolo crollo alla volta, nella periferia, nel centro, nella mente di ogni individuo. Immaginate un libro che racconta questa minuziosa entrata nell’Apocalisse, pagina dopo pagina, fallimento dopo fallimento, verso il Secolo Oscuro che è il nostro, che è già pronto, già qui. Questo libro è Diluvio di Stephen Markley, Il Signore degli Anelli dove Sauron vince, dove la Contea brucia come Los Angeles e i maghi che arrivano in tempo non arrivano più. Eppure, c’è chi dice che nel libro ci sia speranza. Vediamo.

Diluvio è un doppio miriagono. Un miriagono è un poligono regolare di 10.000 lati che l’occhio umano percepisce come un cerchio, perché i suoi lati sono infinitamente piccoli e perché l’angolo tra due lati è di 179°57'50,4". Siccome non può essere visto, il miriagono deve essere immaginato, ed è questo il rapporto che abbiamo con la complessità se vogliamo capirla, mentre la percezione viene letteralmente a mancare. Diluvio di Stephen Markley è un doppio miriagono nel senso che allestisce una doppia complessità, tematica e letteraria. Da un lato un labirinto di eventi generali e vicende particolari nell’iperpaesaggio tossico del collasso climatico, politico e cognitivo. Dall’altro un romanzo poliedrico, polifonico, pluristilistico che vuole restituire i disturbi della comunicazione e delle relazioni umane ai tempi della post-verità. Scritto tra il 2010 e il 2022 è quel genere di libro che Franco Moretti avrebbe definito un’opera-mondo, una definizione molto fortunata che però, riusata male, tende a perdere per strada il focus critico che premeva a Moretti, la “forma epica”.  Di tutti i modi in cui si è parlato e si potrebbe parlare del libro di Markley, la dimensione epica è quella che a mio parere occorre approfondire.

Diluvio è “profetico”, “anticipatore”, “non è una distopia, è la realtà in cui viviamo”, lo stesso Markley, assecondando un trend che forse non rende giustizia alla vera importanza di questo libro, continua a ripetere che “non c’è gioia nell’essere una Cassandra”. In effetti la sua America del 2040 è già l’America del 2025, a riprova che la speculative fiction può produrre scenari di previsione destinati ad avverarsi. Ma non c’è niente di magico in tutto questo, lo sanno i vari think tank di collassologi che studiano il presente climatico, geopolitico e sociale per immaginare con grande precisione il prossimo futuro. Il punto è come si manipola la complessità, come si affronta quell’iperoggetto mutisistemico e policaotico che alcuni chiamano ancora Antropocene. Il punto, per Stephen Markley, è stato dare unità letteraria a una Babele informativa e narrativa che, come ogni complessità, esplode a varie velocità in ogni direzione possibile. Perché leggendo il libro non si coglie solo la grande abilità gestionale di uno scrittore che sa intrecciare voci, storie e fili temporali, ma si percepisce un’atmosfera immersiva che funziona come un campo magnetico, un contenitore invisibile ma potente che scongiura il rischio del crollo e della dissipazione narrativa. Un’architettura letteraria, la forma epica appunto, che trasforma un potenziale cumulo di detriti in una sontuosa cattedrale fuori scala.

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Ma cos’è l’epica lo abbiamo dimenticato. Usiamo l’aggettivo con molta leggerezza, per farne iperbole retorica o metafora impropria, e dimentichiamo l’essenziale, che l’epica è un genere. In un passato ormai quasi preistorico, Ezio Raimondi scriveva: “al contrario dello scrittore lirico, se per lirico si intende ciò che si contrappone all’epico in quanto raffigurante solo l’istante, il poeta dell’epicità produce una disposizione emotiva che può prolungarsi per tutta l’esistenza attraverso una serie vastissima di eventi unificati in una sola grande azione” e, ancora, l’epica è la “rappresentazione poetica di un’azione mediante narrazione, che colloca il nostro animo nello stato della contemplazione sensibile più viva e più generale” (Scienza e letteratura, 1978, pp. 141, 142). Da un lato una grande azione unificante, dall’altro uno stato d’animo, un’emotività che è esattamente ciò che ci viene da chiamare “epico” senza saperlo definire meglio. Ma Raimondi lo spiega bene, è uno sguardo contemplativo, come osservare da fuori e dall’alto un vastissimo paesaggio in cui innumerevoli vicende e sequenze temporali dilatate accadono in qualche modo per noi ma anche senza di noi. È proprio questo dispositivo prospettico che ce le fa sentire “nostre”, le vicende, ma in un modo molto diverso da quello del romanzo centrato sul protagonista.

Se vogliamo usare un’immagine più concreta del miriagono, la complessità è un capodoglio a un metro da noi. Possiamo allungare una mano e toccandolo sappiamo che è reale, eppure ci sfugge, non possiamo abbracciarlo con lo sguardo, dunque per vederlo possiamo solo immaginarlo, arretrando mentalmente fino a coglierlo nella sua interezza. Se seguo il protagonista del romanzo mi identifico con lui, sento con lui, agisco con lui, scivolo in un accadere lirico, puntuale, se invece contemplo a distanza moltissimi personaggi, moltissime azioni, moltissime temporalità ho quella sensazione di ampiezza, potente e vertiginosa, che chiamiamo epica, un punto di vista che si trova tanto nei poemi arcaci quanto in alcuni rari romanzi moderni che gestiscono un impulso enciclopedico, sapienziale, polifonico, torrenziale con abilità e consapevolezza demiurgica. Diluvio di Stephen Markley è uno di questi romanzi, da qui la sua importanza, che non è data da una qualità profetica che profetica non è, ma da una soluzione narratologica che ripete in maniera mimetica la complessità dei tempi in cui viviamo, e facendolo ci aiuta a capirla.

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Le opere-mondo fanno esattamente questo, perché mentre rappresentano una sola grande azione composta da una serie vastissima di eventi riescono a essere didascaliche, sono portatrici di una pedagogia del saper vedere che è quanto di più necessario in un diluvio di capodogli impazziti, in un mondo di iperoggetti rizomatici e caotici che il nostro cervello non può capire se non facendo ricorso a quell’apparecchio interno che è l’immaginazione, in questo caso la sua declinazione sinergica scrittore-lettore. Di fronte al trauma e al lutto, giocare con parole e sentimenti funziona poco. Diluvio è infatti un libro pieno di ansie notturne e di attacchi di panico, è sinistro, apocalittico, duro come sbattere i denti contro uno spigolo, ma questo è lo status quo, negarlo sarebbe stupido, addirittura colpevole. Siamo con l’acqua alla gola, proprio adesso, e ormai non è più tempo di metafore ma di sintomi. Tuttavia, se il libro fosse solo questo, imprigionato nell’estetica del warning, del “ve l’avevo detto”, andrebbe a finire nello scaffale sovraffollato e inutile dei romanzi dell’Antropocene. Quello che invece lo rende un romanzo per l’Antropocene è il suo umanesimo disincantato, illuminato, stoico. Che cosa ci offre insomma Stephen Markley? L’idea che la complessità è una questione narratologica, che come tale va affrontata se vogliamo rinarrare il futuro che ci aspetta, che la speranza emerge dalla polifonia e non dalla visione di un eroe-protagonista, di un uomo forte, che il mondo si salva con una serie illimitata di singoli atti di volontà.

Ma dov’è la Terra nel suo libro? La questione della territà è sempre più centrale. Perché va bene il mutuo appoggio nel collasso, va bene l’ottimismo della volontà, la nobiltà dell’averci provato, la minoranza dei giusti, ma non viviamo più nel vecchio mondo autoreferenziale dove l’uomo distrugge e l’uomo rifà, dove solo la nostra specie è la domanda e la risposta, la cenere e il sale della terra, la dannazione e la speranza. Le relazioni tra gli umani non possono essere rifondate se non si rifonda la relazione tra gli umani e la Terra. Markley ha messo proprio tutto nel suo libro, ha sostituito la patria del poema epico con il mondo intero, ma la Terra? La Terra c’è, in Diluvio, eccome, ma non è quella consolatoria che vorremmo adesso, le colline verdi oltre le barriere delle megalopoli caliginose, la faglia temporale per tornare indietro o per catapultarsi in una preistoria futura. È la Terra chimica, geologica, atmosferica, il mare dell’oggettività, la marmellata della materia che inconscia, preverbale, inumana ci disintegra con incendi, uragani, diluvi. Markley sa descriverli con durezza spietata, con turbamento epico, con voluttà stilistica, e adesso, oggi, è proprio questo che ci serve: non la speranza racchiusa in una pillola verde nel deserto dei futuri possibili ma la consapevolezza contemplativa, spaventata eppure orgogliosa di essere migranti nudi, coraggiosi, nella grande epica dei paesaggi terrestri.

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TAGGED: Stephen Markley