Silvia Mazzucchelli: album di fotografe
Il suicidio, per chi l’ha vissuto da vicino, è come uno sparo al contrario: il buco nella carne si richiude, il proiettile è risucchiato via dalla canna della pistola, la detonazione implode nel silenzio. Non trovo altro modo di dirlo. Non credo che ci sia un buon modo per dire l’apnea che ti accompagnerà per sempre, lasciandoti spiaggiato nel non-senso. Il libro di Silvia Mazzucchelli, Sguardi penetranti e obliqui. Venti fotografe per un album di famiglia del Novecento (Mimesis, 2024) inizia con un suicidio, quello di Evelyn McHale che, il mattino del 1° maggio 1947, si butta dall’ottantaseiesimo piano dell’Empire State Building e finisce su una limousine parcheggiata. Mentre ancora si odono gli scricchiolii di assestamento di cristalli e lamiere, Robert Wiles scatta al corpo una fotografia che entrerà nella storia. Su questa immagine si è scritto troppo, nel senso che si è quasi sempre andati troppo in là. Non parlo da una posizione di pudore o dal livore di una ferita aperta, che sì, basterebbero per chiedere meno parole, è la pulsione di morte, invece, che promana da certe immagini e che, per insufficienza di strumenti e di maturità, spinge le persone a esorcizzare la seduzione del Nulla con un profluvio pornografico di chiacchiere. Per questo Mazzucchelli mi ha convinto da subito, per il passo indietro rispetto all’alveare di cliché, e per aver saputo cogliere il punto: «la fotografia di Evelyn ha una funzione apotropaica, allontana e raggruma su di sé tutte le paure; è un monito, un incoraggiamento». (p. 7)
Ci sono suicidi che pensati, immaginati, lavorati dall’inconscio spingono all’emulazione, sono icone contagiose. Poi ci sono suicidi che funzionano invece come muse: non avrai mai risposte ma l’eco del vuoto ti dà comunque una direzione. La direzione di Sguardi penetranti e obliqui è quella di un album di famiglia che da un lato, e a un livello soggiacente, stringe «in un solo nodo le biografie di ogni donna con quella di Evelyn» (p. 7), dall’altro crea «un intreccio di storie di molte donne, tutte fotografe, che hanno attraversato un buon pezzo del secolo passato» (p. 8). Il libro si compone così di venti fotografie-metonimia e di venti microbiografie che, per brevità ed esemplarità, ricordano le vidas idealizzate dei trovatori provenzali. E appunto Mazzucchelli fa qualcosa che ricorda i gesti di salvezza culturale di certi scriptoria medievali, perché assembla un iconotesto che trascende le mere finalità del saggio e si installa in una zona più intima e collettiva: «L’album che ne risulta è la sintesi di tante affinità elettive. Il dato comune è l’appartenenza: ciascuna di queste donne condivide con me una parte del proprio volere e sentire, e io sento di appartenere a tutte loro perché, assieme, rappresentano una storia ideale nella quale posso riflettermi e costruire la mia storia reale» (pp. 10-11). L’ordine è quello di una specie di genealogia: antenate (Grete Stern, Margaret Bourke-White, Lee Miller, Eve Arnold), nonne (Ruth Orkin, Lisetta Carmi, Sabine Weiss, Carla Cerati, Letizia Battaglia, Chiara Samugheo, Grace Robertson), madri (Sarah Moon, Libuše Jarcovjáková, Nan Goldin, Jitka Hanzlová), sorelle (Luisa Lambri, Jessica Backhaus, Viviane Sassen, Moira Ricci, Rinko Kawauchi). Ogni generazione ha una connotazione precisa: irrequietezza, ribellione, trasgressione, riflessività. Ma non è questione di parabola o di percorso evolutivo, si tratta di un corpo a corpo nel tempo per fare emergere «con la maggiore nettezza possibile ciò che le donne non sono e non vogliono essere». (p. 7)
In presenza di un vuoto spinto, di una lacuna, di un gran silenzio emotivo e cognitivo la domanda «perché?» è la più inappropriata, è la meno raccomandabile. Inutile chiedersi perché Evelyn McHale si sia suicidata, qualunque risposta sarebbe insufficiente. Al contrario, amplificare la vibrazione muta è l’unico modo per fare spazio a risposte “penetranti e oblique”, come appunto le venti fotografe di questo libro sono ciascuna a suo modo un album di risposte a interrogativi non ancora formulati. Gli interrogativi non formulati, a me pare, sono contenuti nelle fotografie. Prendiamo ad esempio il ritratto di Margaret Bourke-White che precede la sua “vita”. Il suo studio è all’ultimo piano del Chrysler Building e Margaret decide di compiere un gesto simmetrico e opposto a quello di Evely McHale sull’Empire State Building. Anche lei si sporge dal davanzale, e striscia con una macchina fotografica decisamente ingombrante su una delle otto aquile che, come gargolle, si protendono sul vuoto. Lì, invece di cadere sul marciapiede sottostante, Margaret si fa fotografare dal suo collaboratore e lancia simbolicamente verso l’alto un’immagine promozionale di sé che esprime audacia e determinazione. Nel suo esorcizzare la caduta e la paura del salto, formula implicitamente una serie di domande su chi “non vuole essere”, su quali marciapiedi non vuole sfracellarsi, e al tempo stesso sceglie i vuoti necessari nei quali sente di dover saltare, per rimettersi in discussione, per ridefinire il proprio ruolo artistico e conoscitivo. Così lascia New York per l’altra America, quella della siccità del 1934, quella della povertà nera e bianca nel Sud rurale, nel 1941 fotografa il cielo di Mosca bombardata dai Tedeschi, nel 1945 vede aprirsi i cancelli di Buchenwald, poi fotografa Gandhi, il Sudafrica dell’apartheid, e infine sposta tutto il lavoro sul proprio corpo malato di Parkinson. Dalla foto “eroica” del 1935 un salto nel vuoto, quello che ha scelto lei, lungo non una manciata di secondi, ma trentacinque anni.
Oppure Grace Robertson. Stazioni ferroviarie, cantieri, piscine, campi sportivi, scuole, salotti, parchi pubblici, fiere, mostre, bambine che fanno i compiti, gallerie, mercati di bestiame, sale da ballo. Una fotografa che sa mimetizzarsi e che per questo arriva a toccare la verità più semplice, più innocente, quell’infraordinario che è quasi perfettamente invisibile e che invece è un altro abisso sospeso sotto la pelle delle apparenze. Bourke-White e Robertson. Poi ce ne sono altre diciotto. Così Silvia Mazzucchelli firma un libro intenso, scritto davvero bene, che a fine lettura ti lascia la sensazione di aver fatto visita a una comunità di sguardi sul mondo che hanno reso quel mondo a volte più intelligibile, a volte più misterioso e muto. Un libro di domande e di non-risposte che proprio per questo rendono ancora più forte il significato della fotografia, perché dietro ogni fotografia c’è una storia, e dietro ogni storia c’è una vita. L’immagine fotografica è sempre un morceau choisi, un lampo ambiguo su cui l’interpretazione può inciampare, in cui il fuoricampo funziona come un emporio di metafore, o quantomeno di dubbi. È anche una metonimia, il pegno di qualcosa che non c’è, oppure che non si dà, o che nasconde una cosa proprio mostrandone un’altra. Accade qualcosa del genere in Sguardi penetranti e obliqui, ed è come se questo libro di fotografe e fotografie, in maniera mimetica, sapesse riprodurre con le parole l’ontologia e la fenomenologia della “camera chiara”. Perché le immagini sono solo ventuno, ma sembrano molte di più, come la tavola di un Bilderatlas a cui ciascuno aggiunge i propri scatti, quelli che ha immaginato leggendo ed entrando in queste vite, oppure quelli che venuti dalla sua vita conscia o inconscia continuano a dilatare il vuoto e il desiderio del salto.