Il Truman Show della preistoria
La preistoria è una trappola, non si sa mai cosa potrebbe finirci dentro. Quando va bene è un archetipo così ardente e profondo da obbligarci a rileggere il nostro stesso presente. Quando va male, e va male spesso, ci si ritrova a lottare con la più volgare manipolazione dei fatti. Nel 2000, Shinichi Fujimura, direttore del Tohoku Paleolithic Institute, ha sparpagliato in un sito archeologico vecchio di 600.000 anni dei manufatti di 40.000 anni fa. Una frode archeologica bella e buona per fare mitopoiesi identitaria: il Giappone ha il mirabolante primato del più antico uomo moderno. Peccato che è saltato fuori un video amatoriale in cui lo stimato professore viene filmato durante l’atto fraudolento. Il punto è che la preistoria si presta benissimo a mistificazioni del genere, proprio perché è una groviera piena di buchi che ciascuno può riempire con quello che vuole, dalla propaganda nazista alla più innocua new age shit. Una rete di dati lacunosa è l’humus perfetto per l’azzardo speculativo, per i bias cognitivi, per il complotto criptoscientifico e soprattutto per il mercatino etnico dei gusti e delle idee che tanto piace al nostro Occidente anemico. Il mistero della sciamana di Harald Meller e Kai Michel (Feltrinelli 2024, traduzione di Nicoletta Giacon) è la storia di una truffa e di un’invenzione identitaria.
Maggio 1934, Bad Dürrenberg, Germania nazista. Durante alcuni lavori di scavo nel parco delle terme un operaio rinviene delle ossa umane in una grossa concentrazione di terra rossastra. Il conservatore dell’Istituto di preistoria di Halle visita il sito e ispeziona i reperti. Corna di capriolo, zanne di cinghiale, conchiglie, utensili di selce, denti di animali perforati, tutti cosparsi d’ocra. Il corpo era stato inumato seduto con il volto rivolto a sud, sotto il braccio destro una testa d’ascia di pietra levigata. Tutto lascia pensare a un ritrovamento eccezionale, ma lo scavo è rapido e sommario perché il parco deve inaugurare qualche giorno dopo. Poco tempo prima, Friedrich-Karl Bicker dell’Istituto di preistoria di Halle e nazionalsocialista della prima ora, aveva letto proprio a Dürrenberg una conferenza di archeologia fantastica in cui sosteneva che gli ariani tedeschi erano un ramo autoctono e indipendente dagli Indoeuropei venuti dall’Asia. Mancavano le pezze d’appoggio, ovviamente, ed ecco che il ritrovamento archeologico di una decina di giorni dopo casca a fagiolo: la teoria ha la sua prova, le culture ariane dell’era glaciale e post-glaciale sono una realtà, un tassello essenziale per sostenere, sul versante della preistoria, la purezza del sangue tedesco sul suolo tedesco.
Nel 1935 la narrazione è già confezionata: sempre secondo Bicker, i resti appartengono a un maschio del tardo Neolitico. Poco importa se lo scheletro appartiene a una femmina, se le ossa del bambino sepolto con lei vengono ignorate e se l’età corretta di riferimento è il Mesolitico. L’antenato ariano ancestrale non può essere una donna e il Neolitico è il periodo necessario per far collimare i reperti con la cultura della ceramica cordata, chiaro indizio della prima espansione indoeuropea. La presenza di reperti litici correttamente interpretati come mesolitici servono invece a confermare lo snodo narrativo più importante, la continuità geografica e genetica tra l’epoca presunta dei reperti e la cultura preistorica anteriore. Anche qui la ragione è chiara: i Germani non possono essere dei volgari immigrati, non sono nemmeno venuti dal Mar Baltico, come si pensava, perché lassù fino al Neolitico c’erano solo ghiacciai. No, l’archeologia parla chiaro: i Tedeschi sono in Germania da sempre. Assieme a Bicker lavorava Gerhard Heberer, antropologo fisico nominato sottufficiale delle SS da Heinrich Himmler in persona e poi professore all’Università di Jena, nota come centro dell’igiene razziale. Heberer sostenne che il cranio dello scheletro di Dürrenberg, pur presentando dissimiglianze, aveva tratti coerenti con la “razza nordica”. Questo non piacque a Bicker, che non voleva evocare fantasmi “stranieri”, per cui gli chiese di rettificare l’analisi. Allora Heberer, in linea con le teorie continuiste del collega, definì il cranio “primitivo-europoide”.
Per una serie di vicissitudini raccontate con dovizia di particolari nel libro di Meller e Michel, i resti di Dürrenberg non entrarono fortunatamente a far parte dei cimeli sacri di Himmler, che non venne mai a sapere che lo scheletro era appartenuto a una sciamana, forse la più antica delle “streghe pagane” di cui il comandante in capo delle SS si credeva un discendete. Mimetizzata dietro la sua presunta identità maschile, interpretata come un capo anziano di una società agricola e guerriera, semplicemente entrò nell’ombra fino agli anni Novanta del secolo scorso. La riscoperta è avvenuta a tappe, prima in maniera accidentale, poi per approssimazioni sempre più focalizzate. Jörg Orschiedt ha identificato il sesso corretto del reperto, in seguito Judith M. Grünberg ha interpretato il corredo funerario, in particolare frammenti di guscio di testuggine palustre che potevano servire come sonagli, un osso cavo di gru come possibile flauto, un palco di corna di capriolo come ornamento di un qualche copricapo. Questo ha aperto la strada al riconoscimento della donna come “sciamana”. Martin Porr e Kurt W. Alt hanno arricchito il quadro notando una malformazione congenita della prima vertebra cervicale, cosa che in alcuni soggetti può generare disturbi percettivi e allucinazioni. Infine, l’artista Karol Schauer ha dato un volto e un abbigliamento alla donna di Dürrenberg.
Il discorso è articolato e forse varrebbe la pena operare una lettura iconografica e iconologica delle ricostruzioni artistiche dell’età preistorica: il Neanderthal degli anni Cinquanta del Novecento è un bruto lombrosiano dai tratti scimmieschi, quello degli anni Duemila è un vicino di casa che in giacca e cravatta passerebbe inosservato nella City. L’evoluzione delle conoscenze genetiche dei tipi preistorici e l’utilizzo della tecnica di ricostruzione facciale forense hanno rivoluzionato lo “show della preistoria”, creando un ponte molto ambiguo tra archeologia e mercato culturale: australopitechi dagli occhi intelligentissimi e tenerissimi, ominidi fieri in pose cinematografiche, uomini e donne paleolitici, mesolitici, neolitici così belli da sembrare modelli di Vogue o di Zara. Anche la sciamana di Dürrenberg nell’interpretazione di Schauer ha una bocca alla Angelina Jolie. Il libro di Meller e Michel cammina così in equilibrio tra due storie, l’investigazione scientifico-archeologica e l’invenzione culturale pop di un very cold case. Sarebbe esagerato scomodare le Pathosformel di Warburg, ma il ritratto di Schauer ha anche generato un canone iconografico, dalla sciamana in Alpha (2018) di Albert Hughes, al “Guardiano del fuoco” di Playmobil, alla serie Netflix Barbarians (2020).
Siamo molto lontani dall’uso nazionalistico dell’Età della pietra o dalla new age shit sciamanizzante, ma la trappola della preistoria è entrata in una fase 2.0 che distoglie l’immaginario da percorsi realmente fertili. Il “modello reality” della divulgazione scientifica ha uno stile di comunicazione che rende quasi indistinguibile l’informazione reale dalla pseudo-realtà del mokumentary e, cosa forse più interessante, sembra aver attaccato in maniera virale anche la scrittura, con risultati saggistici che rasentano il cringe: non più capitoli ma “puntate” che si chiudono nella suspense, personaggi reali tratteggiati come comparse cinematografiche, un’alternanza estenuante di dati informativi di seconda mano e biopic indiziario, riprese verbali in soggettiva e mise en abîme autoriali. Il mistero della sciamana non è completamente immune dall’ansia di intercettare un pubblico generalista, che sembra venir tirato per i capelli pur di costringerlo a guardare negli abissi del Mesolitico, ma per fortuna è un libro così ricco e intelligente nello schierare i fatti, nell’intercettare inquietudini politiche contemporanee, nel tratteggiare una linea comunicativa del gusto e delle idee che anche il collega archeologo, antropologo o semiologo più severo può godersi il viaggio.
Il libro si chiude con una prova narrativa vera e propria, un racconto breve, evidenziato in tutto corsivo per staccarlo dalla voce scientifica. Comincia così:
Non ricordava quando tutto era iniziato. Aveva sempre avuto la sensazione di essere diversa. Non che lo desiderasse. Aveva solo notato che gli altri la trattavano in modo particolare. Si sentiva estranea a tutto. Ogni volta che cercava di colmare la distanza, vedeva gli altri rabbrividire, impercettibilmente. Gli occhi spalancati, si irrigidivano e indietreggiavano. Gli altri dicevano che se lo stava solo immaginando. Ma non era vero. Tutti nell’accampamento sapevano che era meglio che non andasse con loro, né a caccia, né a pesca. Il pericolo era troppo grande. Doveva restare a casa. Tutti ricordavano la storia di quando una volta l’avevano portata con sé, era così entusiasta che non riusciva a credere che fosse vero. Si guardava intorno ovunque, seguendo il volo del falco pescatore nel cielo, finché a un tratto gli spiriti si avventarono su di lei. Non riuscì più a riconoscere il rapace, tutto si offuscò, il mondo si trasformò in un insieme di ombre e sagome indistinte. Urlò e cadde. Mentre piegava la testa in avanti, sentì le urla soffocate degli altri, chiuse gli occhi nella speranza che gli spiriti svanissero con la stessa velocità con cui si erano presentati. Alla caccia ormai non pensava più nessuno, tutti volevano rientrare al più presto. Il pericolo di uccidere un essere vivente sembrava troppo grande in un mondo agitato dagli spiriti. Chissà cosa avrebbe potuto scatenare. I suoi genitori si erano accorti subito che in lei c’era qualcosa di strano.
Una true story prospettivista che il lettore può decidere se apprezzare o meno. Resta una riflessione in sospeso. Di chi è questa sciamana? Dei nazisti? Degli scienziati? Dei divulgatori? Dei promotori culturali? Del pubblico? Auscultata con meticolosità autoptica, riscostruita con un volto che non è certamente il suo, politicizzata prima e dopo, psicanalizzata, genderizzata, esposta in vetrina e infine mediatizzata sembra di tutti fuorché di sé stessa. E ancora: dov’è il mistero germinale quando tutto viene svelato? Almeno su questo i 9000 anni d’abisso ci regalano vertigine e silenzio.