Nuovi mondi feroci

28 Agosto 2024

Stephen J. Pyne la chiama Pyrocene, the Age of Fire, l’Età del Fuoco. John Vaillant parla invece di Fire Weather, maltempo di fuoco. Il primo illustra eventi su scala geologica, esplora il Tempo Grande, comincia dalla scoperta del fuoco nel Paleolitico inferiore e mostra come un elemento strettamente legato all’inizio della nostra evoluzione biologica e culturale ci sia sfuggito di mano e stia preparando la nostra de-evoluzione attraverso catastrofi di portata apocalittica. Il secondo, con l’idea di tempo atmosferico estremo e di catastrofe meteorologica calda, porta il fuoco verso un nuovo spazio immaginifico, dove surriscaldamento globale e collasso ecosistemico generano eventi climatici mai visti, anch’essi di portata apocalittica. È lo stesso “megafuoco”, si direbbe, e probabilmente lo è, quello che invece cambia è il modo di raccontarlo. Pyne, con grande competenza scientifica ma a partire da una prospettiva canonica, si concentra sull’attore umano, che prima cuoce la selvaggina, poi i paesaggi di idrocarburi, infine l’intero pianeta. Vaillant invece promuove il fuoco a primo personaggio e, per farlo in maniera convincente, e avvincente, non solo gli conferisce una personalità autonoma, un’agency, addirittura una personhood antropologica ma, attraverso uno sguardo geografico rovesciato, annulla la scala spaziale umana e declassa la nostra specie ad attore minore. La differenza tra i due autori è che il primo fa saggistica del warning apocalittico, un déjà vu appassionante ma ormai scaduto a genere d’intrattenimento, il secondo invece getta le basi per qualcosa di completamente diverso, un testo su Antropocene e Territà che somiglia a un romanzo di formazione, a una fiction sapienziale. Vediamo come ci riesce.

«In un caldo pomeriggio di primavera del 2016, a meno di una decina di chilometri dal recente insediamento petrolifero canadese di Fort McMurray, nell’Alberta, un piccolo incendio boschivo avvampò e si diffuse con rapidità in un’area di foresta mista dove il fuoco non si vedeva da decenni. Nelle sue prime ore di vita questo incendio, originatosi più lontano degli altri, si era comportato come la maggior parte degli incendi boschivi provocati dall’uomo: dal lontano punto di accensione aveva cercato timidamente di propagarsi a terra tra l’erba, le foglie morte e il materiale putrefatto, che per gli incendi sono l’equivalente della pappa per un bebè. In genere è la combinazione tra i primi materiali divorati e le condizioni meteorologiche a determinare l’evoluzione dell'incendio, che dopo aver covato nel sottobosco è destinato a spegnersi sotto la rugiada di una fresca notte primaverile senza vento oppure a diventare più grosso, resistente e dinamico, capace di trasformare la notte in giorno e il giorno in notte; di piegare il mondo alla sua volontà scatenata e vorace». (L’Età del fuoco. Una storia vera da un mondo sempre più caldo, Iperborea 2024, traduzione di Luca Fusari, p. 15)

L’impressione è quella di leggere la storia dell’infanzia, dell’adolescenza e della giovinezza selvaggia di un eroe, il mito di creazione dell’Antagonista, scatenato e vorace, capace di rovesciare l’ordine cosmico, cresciuto nell’ombra e poi rivelatosi in tutta la sua volontà di potenza. L’essere faustiano, o miltoniano, o mccarthiano, è un «mostro» (p. 16), martella il mondo con «pugni di calore» (p. 16), attorno a lui «l’aria prendeva vita fiammeggiando e tuonando» (p. 17). Potrebbe trattarsi di facile antropomorfismo, la solita similitudine spalmata nel testo come troppo poco burro su una fetta di pane troppo grande, e probabilmente sarebbe così se Vaillant non avesse costruito attorno a questo teriomorfo un ecosistema coerente. Detto altrimenti, la personhood del megaincendio si affloscerebbe miseramente se l’autore, per darle credibilità, non si fosse fatto carico di una dispendiosa azione di worldbuilding. Un mostro, per vivere, ha bisogno di un contesto adeguato, deve muoversi in paesaggi che siano altrettanto mostruosi, in modo tale che, quando il mostro è invisibile perché si nasconde o resta nell’ombra, sia lo spazio delle sue azioni a ricordarci la sua imminenza, il suo esserci misterioso e predatorio. Non solo. Bisognerebbe spingersi al punto estremo in cui corpo mostruoso e corpo terrestre si confondono, diventano l’uno allusivo dell’altro, un protagonista paesaggificato in un paesaggio dotato di agency. Ed è appunto questo che riesce a fare Vaillant:

j

«Quassù, nel subartico senza sbocchi sul mare, è come se tutto fosse extralarge: ci sono laghi vasti come mari abitati da trote che pesano fino a 45 chili, e i grandi animali selvatici – tra i quali il bisonte più grosso del continente – sono più degli esseri umani. Al Wood Buffalo National Park, il secondo parco nazionale al mondo per dimensioni, c’è la più imponente diga costruita da castori mai vista. Fu individuata nel 2007 con l’aiuto di un satellite, misura in lunghezza più del doppio della diga di Hoover e sembra che non abbia smesso di crescere. […] Un’eccezione al gigantismo diffuso sono gli alberi, che raramente superano i cinque metri d’altezza o il secolo d’età. Formano un insieme eterogeneo e in costante cambiamento di pini, abeti, pioppi e betulle che si definisce “foresta boreale”; non saranno enormi, ma in compenso sono tanti, tantissimi. La foresta boreale, che cinge l’emisfero omonimo lungo una fascia circumpolare, è il più grande ecosistema terrestre e include quasi un terzo delle aree forestali del pianeta (oltre 15 milioni di chilometri quadrati: più di tutti e cinquanta gli Stati Uniti d’America). […] Benché dalla strada appaia fitta di vegetazione, al suo interno la foresta boreale è molto più anfibia e contiene più sorgenti d’acqua di qualsiasi altro bioma. Sotto questo aspetto somiglia a una specie di spugna emisferica coperta di alberi che con miliardi di chilometri di radici formano un tessuto connettivo sotterraneo che mette insieme tutti i continenti» (pp. 20-21)

Dopo la genesi dell’eroe, ecco la cosmografia del suo mondo, una geografia titanica che non solo esaspera la scala spaziale, «colossale bioma» (p. 22), ma conferisce a questa entità gigantesca una potenza mitica, a tratti caotica. La foresta boreale è infatti un «ecosistema-fenice: rinasce dal fuoco e per rigenerarsi si deve incenerire, il che avviene in maniera casuale e territorialmente disordinata nell’arco di cinquanta-cento anni» (p. 22) Una specie di Ragnarök ciclico nella Jotunheimr subartica. Impostate queste coordinate iniziali di mostruosità del fuoco e gigantismo dello spazio, il lavoro di Vaillant può contare su una macchina narrativa in cui gli umani di Fort McMurray sono dispersi come una «popolazione-ombra» in un «terreno impervio, solcato da torrenti e burroni e attraversato da due grandi fiumi e due affluenti, che si intrecciano attorno alla città come i tentacoli irrequieti di una piovra» (p. 24). Una miniaturizzazione della specie in cui l’umano diventa una presenza biologica irrisoria in un mondo che, sotto molti aspetti, rende irragionevole la sua sola presenza lassù. Lo stesso tipo di petrolio che viene estratto nell’Alberta richiede tecniche irragionevolmente dispendiose: la sabbia bituminosa è per il 10% bitume e per il 90% un mix di acqua e materiali solidi, per fare un barile di bitume, ancora molto lontano dal greggio sintetico e dal gasolio, ci vogliono due tonnellate di sabbie bituminose e un quantitativo spropositato di energia. Tra estrazione, lavorazione e trasposto in un ambiente tra i più ostili del pianeta c’è da meravigliarsi che un’operazione così dispendiosa e quasi dissipativa abbia potuto attirare degli investitori. Ma anche questo eccesso in termini economici umani è ridicolo rispetto al terraforming che geologia prima e impatto antropico poi hanno potuto generare a livello geografico.

L’architettura di questa “megageografia” antiumana sembra uscita infatti dalle pagine di Cyclonopedia (2008) di Reza Negarestani, quando parla del pianeta Terra in termini di geognostica petrolifera, e dal colonialismo spaziale di Avatar (2009) di James Cameron, col pianeta Pandora scavato e violato da macchinari immensi. Nel libro di Vaillant i grandi giacimenti dell’Alberta sono narrati come ciclopici pascoli sotterranei infestati da batteri predatori che hanno digerito l’antico petrolio lasciandone solo gli scarti, una biosfera profonda che, in condizioni anaerobiche e temperature prossime all’ebollizione costituisce il bioma più grande del pianeta. In superficie, invece, il procedimento estrattivo e di trasporto, praticato con automezzi iperpesanti e catene di esplosioni, ha generato una superficie striata, in senso anche deleuziano, che «somiglia a un wafer [… e] che incrocia i fiumi artificiali degli oleodotti e dei gasdotti: altre linee terrestri che si perdono all’orizzonte e attraversano l’intero continente» (p. 30). Capitalocene, Petrocene, Wasteocene… e a tratti gli scenari da Danza Macabra di Terminator (1984), sempre di Cameron. Così, tra bagliori da fine del mondo, distopie grimdark e fantascienza oscura, l’habitat dei nuovi fuochi distruttori si innesta in una tradizione narrativa e iconografica consolidata, dove lo spazio dell’uomo è ridotto al minimo vitale, esautorato dal puro minerale, dal vuoto chimico, dalle macchine:

j

«L’ambiente che questi colossi stanno smantellando è un inferno ghiacciato visto attraverso gli occhi di un Sebastião Salgado, di un Edward Burtynsky o di un William Turner: chilometri e chilometri di terra nera e smossa, costellata di pozzi capaci di inghiottire uno stadio e di laghi morti, scoloriti, presidiati da spaventapasseri in abiti antipioggia sbrindellati, ciminiere fiammeggianti e raffinerie fumanti; il tutto collegato da labirinti di sentieri e condotte fitti come circuiti stampati, battuti da macchine grandi come palazzi che, per quanto enormi, scompaiono nella vastità della desolazione che hanno creato. I tailing ponds, bacini artificiali dove finisce il materiale di scarto, coprono da soli una superficie di oltre 260 chilometri quadrati e contengono un miliardo di metri cubi d’acqua contaminata e di cascami della raffinazione. Questa fanghiglia tossica non può che filtrare nel suolo, nell’aria o, se una delle massicce dighe che la trattengono dovesse cedere, nel fiume Athabasca. Da decenni il tasso di tumori nella comunità di Fort Chipewyan, più a valle, è ben oltre la norma. Persino i lavoratori che nelle miniere guadagnano bene dicono che sembra Mordor. Vicino all’impianto di raffinazione della Syncrude, schierati come un antico complesso di templi, si innalzano ziggurat di zolfo solido color giallo vivo più alte delle piramidi di Giza. Ancora più titanica è la torcia della Syncrude, che supera i 180 metri d’altezza; e ne ha una anche la Suncor, pochi chilometri più in là. Nel 2016 questi gnomoni-grattacielo sputafuoco erano le più alte strutture artificiali nel raggio di quasi duemila chilometri». (pp. 34-35)

In questa Waste Land dell’Ultimo Occidente l’umano insettificato viene contemporaneamente schiacciato ed esaltato. È su questa piana lunare che le storie di vita dei “sopravvissuti” al pirocumulonembo di Fort McMurray occupano l’immaginario del lettore come i calchi delle vittime di Pompei, polaroid del confronto impossibile tra una potenza vulcanica esiziale e la fragilità della carne e dei sogni umani. Il tutto col potere metaforico-metonimico dell’evento parossistico che racconta l’ingresso della nostra specie in una nuova idea dello spazio terrestre e del tempo biologico. L’espressione “Età del Fuoco”, in bilico tra passato e futuro, ricorda infatti La guerre du feu (1909) di J.-H. Rosny aîné e Fire Time (1974) di Poul Anderson. Il primo è il più noto tra i romanzi di ambientazione preistorica dello scrittore belga, detti des Âges farouches, le Età feroci, dove la scoperta e la conservazione del fuoco sono una piccola anima di calore e violenza nel deserto dei paesaggi ancestrali. Nel secondo romanzo, vagamente profetico, i paesaggi desertificati del pianeta Ishtar sono l’effetto di un innalzamento globale delle temperature a causa dell’avvicinamento di quel mondo a una delle sue tre stelle, Anu, la “stella demone”, evento che ogni mille anni porta a un collasso della civiltà. Che connoti un’epoca intera o rimanga circoscritto a un singolo evento straordinario, il fuoco, tra preistoria precaria e domani incerto, sembra ormai un’eminenza transtemporale venuta a incenerire le vecchie visioni del Tempo. Ma ecco che per Vaillant viene forse a salvarci un paradigma resistente, incarnato nientemeno che da Ildegarda di Binden, musa di Territà, con cui il libro si conclude evocando toni da Medioevo prossimo venturo. Per Ildegarda esisteva infatti un principio vitale di rinascita capace di rianimare ogni cosa, come dopo un incendio:

«La viriditas come la intendeva Ildegarda è la procedura operativa standard della Terra, nonché il suo modo di reagire alle catastrofi. La viriditas è l’amaryllis che buca la cenere dopo l’incendio e il disastro; sono i tulipani che sbocciano ad Abasand quando ogni speranza sembrava perduta. Gli esseri umani che li piantarono non immaginavano che quei fiori sarebbero morti e rinati. Ed è così – consacrando energie e creatività alla rigenerazione e al rinnovamento, piuttosto che alla combustione e al consumo – che la natura ci invita ad agire. Seguendo il suo esempio l’Homo sapiens ci ha portati nel Petrocene e trasformati in Homo flagrans. Chissà se a mostrarci come andare avanti – e perché no, tornare indietro – sarà l’Homo viridens» (p. 471).

È difficile dire se questa capacità rigenerativa della Terra avrà un occhio di riguardo anche per la nostra specie, tanto fragile quanto colpevole. Quello che però possiamo dire è che questi tempi di incertezza ci stanno regalando scritture e libri sempre più interessati a un cambio di paradigma: vedere, pensare, immaginare la Terra come via d’uscita alla catastrofe. E il libro di Vaillant, lasciandoci incerti sulla salvezza che ci interessa come specie, porta una nuova viriditas nel panorama stereotipato della climate non-fiction

Leggi anche
Marco Belpoliti | Salvare il fuoco
Antonio Lucci | Peter Sloterdijk: spegnere un pianeta in fiamme
Mario Barenghi | Homo coquens

Se continuiamo a tenere vivo questo spazio è grazie a te. Anche un solo euro per noi significa molto. Torna presto a leggerci e SOSTIENI DOPPIOZERO
j