Vagabondi, solitudini e gufi

9 Gennaio 2025

Ho letto da qualche parte che i nativi groenlandesi riescono a osservare cambiamenti ambientali che geologi, geografi e climatologi fanno fatica anche solo a immaginare. Dagli incontri senza precedenti tra renne e buoi muschiati, dalla persistenza in autunno della poltiglia gelata che precede la formazione del ghiaccio marino, dall’inaffidabilità della banchisa in mesi tradizionalmente sicuri, dai comportamenti erratici degli orsi polari, non solo capiscono che qualcosa decisamente non va ma, in netto vantaggio su chi continua a discutere sulla scientificità del termine “Antropocene”, reagiscono e si adattano con spirito pragmatico al mutare dei tempi. La ragione di questa plasticità e sensibilità resiliente non va cercata nei “molti nomi che danno alla neve” o in qualche recondita abilità magica del Buon Selvaggio. La ragione è terra terra, alla lettera, nel senso che i nativi vivono il terreno costantemente e in prima persona, osservano fenomeni periferici ad “altezza uomo”, intercettano su scala corporea catene di microeventi che non entrano quasi mai nei modelli degli scienziati e che sfuggono per forza di cose all’occhio dei satelliti. Questo blind spot percettivo è essenzialmente culturale, perché nel mondo industrializzato e neoliberista si sono persi l’abitudine e il gusto del sopralluogo, è venuta meno la pratica antieconomica e dissipativa dell’“andare a vedere”.

In regime di cronofagia, chi ha passato molti anni a studiare i gufi pescatori di Blakiston nel Primorskij krai, il Territorio del Litorale, è guardato come lo strano della festa che nessuno invita a ballare. Oggi è possibile scrivere praticamente tutto standosene seduti davanti a un computer usando Google e un software AI. Ormai fare davvero ricerca sul campo per mesi o anni prima di pubblicare qualcosa è un lusso di altri tempi. In questo senso, I gufi dei ghiacci orientali di Jonathan Slaght (Iperborea 2024, traduzione di Luca Fusari) è un libro che si prende tutto il tempo e che non va alle feste della saggistica acchiappa-lettori, perché gioca su un altro tavolo:

Il mio primo gufo pescatore di Blakiston lo vidi nel Territorio del Litorale, un artiglio di terra che affonda nel cuore dell’Asia nordorientale e si affaccia sul Mar del Giappone. È un angolo remoto di mondo, non lontano da dove Russia, Cina e Corea del Nord confinano in un garbuglio di montagne e filo spinato. Là, nel 2000, durante un’escursione nei boschi, un mio compagno e io stanammo un uccello enorme. In preda al panico, decollò con affannosi battiti di ali, stridette infastidito e si posò un momento tra le chiome spoglie degli alberi, una decina di metri sopra la nostra testa. La massa arruffata, del colore dei trucioli di legno, ci guardava diffidente con occhi giallo elettrico. Non capimmo subito di che specie si trattasse. Era senz’altro un gufo, ma di dimensioni inaudite, grosso quanto un’aquila ma più pennuto e corpulento, con ciuffi sproporzionati sopra le orecchie. Si stagliava nel grigio fosco del cielo invernale e sembrava fin troppo ingombrante e buffo per essere un vero uccello, come se qualcuno avesse appiccicato in fretta e furia manciate di penne addosso a un cucciolo d’orso e poi avesse appeso il disorientato animale a un albero. Quando stabilì che eravamo una minaccia, la creatura si voltò e fuggì nel fracasso dei rami che spezzava con la sua apertura alare di due metri. Mentre scompariva, dal cielo cadevano piano schegge di corteccia. (p. 15)

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Questo è il prologo. In poche righe apparentemente fluide, lineari, costruisce un ecosistema verbale in cui geografia, geopolitica, biologia, etologia, antropologia, autobiografia passano dallo scrittore al lettore attraverso una soggettiva discreta, attenta, meravigliata. Slaght, al suo primo libro, è già un classico della nature writing, un autore che non leggi una volta sola ma che torni a leggere perché solo con lui puoi ritrovare luoghi, personaggi, atmosfere che, chiuso il libro, ti mancheranno. Per come vanno le cose oggi, è quasi un miracolo, un esempio etico di ricerca e scrittura, e un antidoto alla fretta.

Come i suoi protagonisti umani e non umani, viventi e non viventi, I gufi dei ghiacci orientali andrebbe salvato dal rumore mediatico, lasciandolo in quella zona privata della parola che deve funzionare come un incontro tra due alterità, quella del libro e quella di chi lo legge. Quando qualcosa di molto serio lo richiede, le note critiche, le segnalazioni e le recensioni dovrebbero avere il buon senso di farsi da parte, come il terzo incomodo in un comizio d’amore. L’unica cosa che vorrei dire su questo libro è che costruisce un tempo, un modello di tempo, che oggi è irrinunciabile. Passare anni e anni in reale contatto con la Terra significa cambiare ritmo nella narrazione del sé, dei propri bisogni primari, di quelli di una civiltà globale senza freni. E significa testimoniare l’esistenza di sacche del mondo che funzionano come esempi di un’alternativa, di una possibilità o, quantomeno, come inciampo nel racconto unico e luttuoso della fine. In questo senso studiare e proteggere gufi non è una scelta nerd o pittoresca, ma significa farsi carico e progettare strategie di cura per l’intero ecosistema che li ospita, umani inclusi, un cambio di prospettiva che, decentrando l’umano e partendo dalla biologia periferica, realizza condizioni di vita vantaggiose per tutti:

Tra i territori della fascia temperata, il Litorale russo è uno dei pochi dove, per sopravvivere, umani e fauna selvatica attingono alle stesse risorse. Ci sono pescatori e salmoni, taglialegna e gufi, cacciatori e tigri. In molte parti del mondo l’urbanizzazione o la sovrappopolazione hanno cancellato i sistemi naturali come questo; nel Litorale la natura è ancora un flusso di elementi interconnessi. Così facendo, arricchisce il mondo: gli alberi dell’Estremo Oriente russo diventano pavimenti nel Nordamerica, il pesce delle sue acque è venduto in tutta l’Asia. Il gufo pescatore è il simbolo di un ecosistema che funziona, la dimostrazione che esistono ancora aree in cui la natura è incontaminata. Nonostante la crescita della rete di strade forestali che si spingono nel cuore del suo habitat con conseguenze pericolose, continuiamo a raccogliere informazioni sul gufo pescatore per conoscerlo sempre meglio, condividere le scoperte e proteggere lui e il suo ambiente. Se sapremo gestire bene il territorio continueremo a vedere pesci nei fiumi e a seguire le impronte delle tigri che si insinuano tra i pini e si mimetizzano in cerca di una preda. E soffermandoci nelle foreste al momento e nelle condizioni giuste sentiremo anche i cacciatori di salmone – i gufi pescatori – annunciare come banditori pubblici che va tutto bene: il Litorale è ancora selvaggio. (pp. 324-325)

Proprio come un nativo, Slaght va laggiù, dove tutto rallenta, e si ferma a guardare. Guarda. Aspetta. Parte. Ritorna. Aspetta. Chiude gli occhi. Aspetta. Li riapre. E quando li riapre vede un mondo di neve, di tracce, di passaggi invisibili, di generazioni e piume, di scioglimenti, di personaggi bislacchi, di villaggi che non si capisce se sono preistorici o post-apocalittici, e poi, soprattutto, vede i vuoti di tempo, un tempo bianco che parla così lentamente da far male agli occhi. Come un nativo, questo scrittore di indizi e fantasmi pennuti vive un apprendistato, e alla fine inventa un libro in cui descrivere una motoslitta malandata o la faccia di un vagabondo ubriaco è importante tanto quanto riportare i dati della ricerca. È per questo che leggendolo non veniamo solo informati di una bella avventura ornitologica, ma respiriamo la complessità del paesaggio in cui corpo terrestre, corpo animale e corpo sociale formano un solo organismo. Territà, insomma, che trasuda dalle pagine come un racconto di caccia nel crepuscolo artico. Così, adesso, dopo Dersu Uzala di Vladimir Arsen’ev, abbiamo il nuovo grande libro dell’Oriente misterioso e innevato.

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