Sciamani senza domani

20 Febbraio 2024

La prima volta che ho visto la collezione di oggetti sciamanici di Sergio Poggianella è stato nel 2017, a Rovereto, dopo la presentazione di un libro. Poggianella mi invitò a casa sua, cenammo in terrazza, era maggio, poi, dopo cena, scendemmo in quello che a me parve un bunker temporale, una di quelle arche di cemento armato in cui si conservano sementi terrestri per il futuro. Ricordo l’odore di pelli e fumo di legna, una variante moltiplicata e quasi stordente del paesaggio olfattivo che avvolge quasi sempre un manufatto etnico. Quello che mi colpì, e che avrebbe colpito chiunque, furono i costumi sciamanici insonagliati, sovraccarichi di frange e di pendenti metallici, armature spirituali svuotate che in quel seminterrato, del tutto fuori contesto, protette da buste di plastica opaca, appese come abiti in una boutique di Blade Runner, mi spremettero nelle ossa una strana sensazione di pericolo. Decisi di interrompere la visita.

Poco dopo ero fuori, davanti a una birra, provavo a digerire il colpo senza capire che cosa mi avesse turbato. Nel locale dove mi ero riparato c’era una grande scatola trasparente e nella scatola trasparente c’era un grosso pitone albino. Era quasi immobile. Quasi. Allora mi venne in mente Cave of Forgotten Dreams di Werner Herzog quando, con geniale arroganza, il regista stabilisce un’associazione vertiginosa tra l’arte paleolitica di Chauvet e due coccodrilli albini cresciuti in una serra lì vicino. La serra era riscaldata dalle acque di raffreddamento di una centrale nucleare e, anche se i coccodrilli erano albini per conto loro, guardando il colore luttuoso e le pupille tagliate, era quasi impossibile non pensarli come il prodotto di una mutazione genetica da radiazioni. In altre parole, Herzog voleva dire che la distanza tra noi e l’arte paleolitica è abissale quanto quella che ci separa dai coccodrilli albini, esseri alieni che ci osservano da un futuro lontanissimo. Forse fu proprio questo a turbarmi davanti ai costumi sciamanici incellofanati, la loro distanza siderale, la loro radioattività ostile, lo sguardo alieno su un mondo, il nostro, che alla fine si è venduto l’anima.

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Ero molto curioso, quindi, a sette anni di distanza, di visitare la mostra Sciamani. Comunicare con l’invisibile organizzata dal MUSE, dal MART e dalla Fondazione Sergio Poggianella, inaugurata il 16 dicembre 2023 e visitabile fino al 30 giugno 2024. Volevo rivedere alcuni oggetti, vederne di nuovi, soprattutto volevo ritrovare i costumi sciamanici in un allestimento pubblico. La sveglia era alle sei. Mio figlio uscì dal letto silenzioso come un animale selvatico, già pronto dopo una rapida lavata d’occhi e un’allacciata di scarpe. Uscimmo in una Modena nebbiosa, ancora disabitata, e in pochi minuti raggiungemmo a piedi la stazione dei treni. La nebbia ci accompagnò fin dopo Verona, poi si diradò e le prime montagne cominciarono a crescere simulando l’orogenesi. La giornata aveva sole e neve, neve recente che infarinava le cime, le foreste sommitali, le toppe di prati. Ancora digiuni e assonnati arrivammo a Trento e, per vie laterali, giungemmo al silenzio del cimitero monumentale e, di lì, al Palazzo delle Albere. Eravamo un po’ in anticipo. Ci chiesero di aspettare con esattezza militare l’orario segnato sulla prenotazione, solo cinque minuti, in cui tornammo fuori e guardammo le montagne nell’aria fredda. Chi erano gli sciamani? Mio figlio ha quattordici anni, una testa veloce e un talento tutto suo per fare domande a cui è impossibile rispondere. Preferisci Madrid o Dublino? Se dovessi scegliere tra Melville e Seamus Heany, chi porteresti in un viaggio su Marte? Chi erano gli sciamani? Adesso vediamo, ok? Entrammo. Una signora austera scansionò i biglietti come se fossimo in Minority Report e noi salimmo le scale. Ecco la prima sala.

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Un corridoio del tempo. Dalle prime fonti del XIII secolo all’età contemporanea. Leggiamo in caratteri crema su pannelli testa di moro la cronologia sommaria delle testimonianze occidentali, dai primi “avvistamenti” di culture sciamaniche in Mongolia, Asia Centrale, Cina e Siberia, al revival etnico e al turismo spirituale. Ad accoglierci, in una gabbia d’aria, un costume coperto di dreadlock di tessuto e pelle, detti serpenti, e appesantito da vari dispositivi sonori di metallo. Il manichino che sostiene il costume ha le braccia leggermente allargate, come in un gesto di benvenuto, ma ciò che colpisce è l’immobilità marmorea di un apparecchio rituale che funzionava solo ed esclusivamente nel dinamismo cinetico e uditivo. Tutto, nel costume indossato e scosso dai movimenti corporei dello sciamano, doveva produrre una sorta di annebbiamento, di sfocatura percettiva, come il sovrapporsi di frame diversi, o come in un glitch prolungato, segno del passaggio dal visibile all’invisibile, dal qui all’Altrove. Invece, l’impressione è quella di un macchinario fossile, un pezzo di mondo fotografato in 3D e derubato dell’anima.

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L’impatto visivo della mostra è comunque fortissimo e l’estetica dell’allestimento, morbida e addomesticante, avvolge il visitatore in un warm hug che continua fino alla fine. Le dida sono chiare, dicono l’essenziale, intercettano snodi complessi senza utilizzare il lessico tecnico degli antropologi, si parla di animismo senza dire animismo, si parla di estasi senza dire estasi. Trance, caccia all’anima, animale-guida, cosmo stratificato, efficacia simbolica, sono elementi evocati in maniera indiretta e senza enfasi particolare, immersi in un flusso informativo uniforme che, se avesse una voce, sarebbe quella calda e monocorde di David Attenborough doppiato da Dario Penne. Anche ostinandosi a pensare, quindi, l’immersione resta visuale, un caleidoscopio coloratissimo di ferro, pelle, stoffa e legno che riporta l’universo sciamanico di terra, acqua, aria e fuoco alla sua declinazione più innocua e depotenziata. Chi erano gli sciamani? Lo chiedo a mio figlio, lui alza le spalle. Mi ripete alcune cose lette in fretta sulle pareti poi s’incanta davanti a una “frusta” fatta con lembi di tessuto leggero e una zampa di ghiottone come impugnatura. Cosa ti piace? La zampa di ghiottone. Non ti interessa sapere a cosa servisse? Mi piace la zampa. Il mio coté professionale e professorale potrebbe innervosirsi. Invece mi accorgo che ciò che lo attira sono le cose elementari, le stesse che guidavano le scelte materiali e spirituali dello sciamano: ossa, pelle, penne, pelliccia. Una connessione con l’alterità animale oltre il tempo e lo spazio.

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Continuiamo. Le stanze si ripetono un po’ uguali. Costumi. Tamburi. Mazzuoli. Scossali. Maschere e bastoni rituali. Statuette curative. Collane. Gli elementi più irrequieti e seminali di questa mostra imperdibile e problematica, non solo per l’addetto ai lavori, sono però le istallazioni video, a cominciare dall’autonarrazione di Sergio Poggianella, da cui finalmente apprendiamo dov’è volata l’anima della mostra. Poggianella aveva a Milano una galleria che trattava i Futuristi e, dal suo primo viaggio in Mongolia, non ha potuto rinunciare a un’intuizione tanto pericolosa quanto fertile, cioè accostare sciamanesimo e arte contemporanea, ricerca antropologica e ricerca artistica, oggetti etnici e oggetti estetici. Così, al secondo piano della mostra, l’idea è quella della contaminazione o, meglio, della sperimentazione artistica che sembra avvicinarsi all’esperienza sciamanica nel suo tentativo di varcare soglie, fondare cosmologie, abitare visioni, in una prospettiva spirituale e perfino terapeutica. Troviamo Richard Long, Marina Abramović, Joseph Beuys, Mali Weil, Anna Perach, David Aaron Angeli, e molti altri, che non usano lo sciamanesimo ma lo incontrano su un piano ontologico e antropologico abbastanza evanescente ma sufficientemente allusivo per legittimare l’operazione culturale.

Mio figlio è spazientito. Andiamo al MUSE a vedere il Neanderthal dei gemelli Kennis? Aspetta, vediamo che cosa c’è lì. Ci sediamo in una saletta laterale con un grande schermo avvolgente e piccoli sgabelli di legno chiaro. Il video sta per partire e promette tanta roba: “let yourself be guided in a sensory journey that will change your consciousness”. Ok, let’s go. Il video parte. Un bosco d’alta montagna, un sentiero, comincia l’inoltramento nel bosco, poi quasi subito le forme del paesaggio, tronchi, pezzi di prato, macigni, mettono occhi, prendono forme apofeniche di musi animali, uccelli, mammiferi, rettili, in un crescendo psichedelico ritmato dal battere ipnotizzante di un tamburo. Lampi, slittamenti nello spettro cromatico, caleidoscopi, anche un luminoso e numinoso cervo bianco pieno di occhi. Il video dura cinque minuti. Se durasse dieci volte di più, forse, potrebbe avvicinarsi alle promesse, ma anche così mi è piaciuto abbastanza, non era troppo cheesy, e poi il nesso tra sciamanesimo e videogiochi non è così peregrino come ci spiega benissimo Charles Stépanoff in Voyager dans l’invisible. Techniques chamaniques de l’imagination (La Découverte 2019).

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Siamo arrivati al punto: Sciamanesimo e Antropocene. Un pannello della mostra si intitola proprio così, e accenna al fatto che esiste una “comprensione indigena”, uno sguardo dalle periferie tribali sul cambiamento climatico, sulla catastrofe ambientale e sull’apocalisse come orizzonte immaginato, una rappresentazione etnica del post-Olocene che aiuta a spostare lo sguardo dal collasso materiale al collasso culturale e spirituale. Nello zaino avevo portato Gli sciamani non ci salveranno (Elèuthera 2023) di Stefano De Matteis. Durante il viaggio di ritorno a Modena ero troppo assonnato. La birreria Pedavena aveva chiuso la nostra spedizione in terre sciamaniche e non c’era da fare altro che abbandonarsi all’atmosfera soporifera e un po’ psicotropa del treno di pendolari del venerdì pomeriggio. Il libro di De Matteis l’ho letto alcuni giorni dopo e mi è piaciuto per come imposta la questione fin dalla prima bandella: “più l’Occidente tramonta, più il materialismo dei consumi e della tecnologia diventa irrinunciabile e più si cerca riparo in spiritualità alternative con cocktail autoprodotti di alchimia e tarocchi, metempsicosi, ufo ed esperienze extracorporee”. Ecco. Non si poteva dire meglio.

Il mondo è sempre più occupato da sedicenti sciamani senza domani, che rendono ancora più difficile fare la cosa giusta, cioè rivolgersi alla lucidità del pensiero nativo per capire come reimmaginare il nostro futuro e gli strumenti necessari per non abbandonarci a un’ineluttabile distopia Netflix. Il libro di De Matteis vola alto, e da saggio antropologico scivola presto nel pamphlet militante: mutuo appoggio, prendersi cura, gratuità come parole chiave anti-collasso, come pratiche per una via d’uscita dall’autostrada del Tardo Occidente. No. Gli sciamani non ci salveranno, e nemmeno lo faranno le cosmologie indigene o gli artisti contemporanei.

Certamente non lo faranno gli antropologi o i collezionisti d’arte etnica, i musei o le palestre in cui si va a meditare e fare yoga. Quello che ci salverà, quello che ha salvato la specie nei momenti di collasso e catastrofe, quello che dava potenza pragmatica agli sciamani e che darà forza alle generazioni antropoceniche, è la Terra, il contatto fisico e mentale con il grande corpo terrestre, la geoantropologia intuitiva che ogni popolo del pianeta ha praticato a modo suo. La Terra. E la Territà, cioè reimmaginare, rinarrare, ripensare la Terra per ritrovare il senso del mito e del sacro. Possibilmente senza chiederlo in prestito, o saccheggiarlo, in qualche paese lontano. 

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