Le tende di Clemente nel cuore di Roma
È nelle grandi sale del piano nobile del Palazzo delle Esposizioni che Francesco Clemente ha eretto un inedito insediamento, col quale «letteralmente mi accampo nel cuore di Roma». Maestose tende, dalle imponenti dimensioni, occupano completamente lo spazio espositivo, creando una inconsueta atmosfera e un singolare panorama. Tende e atmosfera che sospingono alla contemplazione, alla pausa, all’immaginazione. Realizzate tra il 2010 e il 2014, in collaborazione con una comunità di artigiani nel Rajasthan e prodotte in una fabbrica che in precedenza produceva tende per l’esercito indiano, ciascuna di ben m 6 x 4 x 3. Ognuna di loro si lascia attraversare, vivere, ammirare, girare intorno, per coglierne dettagli, frammenti, simboli, narrazioni. Perché «la tenda rappresenta la fuga. La fuga dalla meccanicità della vita, dai condizionamenti e dai falsi doveri che ci vengono imposti». Una grande installazione, in cui le tende sembrano piuttosto pagine di un personale diario, sulle quali si condensano suggestioni, esperienze, appropriazioni, elaborazioni, sapere e conoscenze. E le parole si trasformano in immagini e rappresentazioni.

Come un poeta (i giovanili contatti con alcuni rappresentanti di gruppi letterari denotano il suo profondo interesse e predisposizione per tale espressione artistica), Francesco Clemente scrive i suoi componimenti, già dalla titolazione di ognuna. Tenda della Verità, del Pepe, del diavolo, Tenda rifugio, Tenda museo e Tenda degli angeli annunciano un viaggio, sia nel mondo interiore dell’artista, che un attraversamento di esperienze e culture a lui care. Curata da Bartolomeo Pietromarchi, è proprio da una conversazione tra il curatore e l’artista che è nata, oltre all’idea della mostra, anche il titolo stesso dell’esposizione: Anima nomade. Che, immediatamente, richiama anche lo spirito dell’artista. Incline, sin dalla giovane età, a girovagare per il mondo.

Nonostante dagli anni Ottanta risieda a New York, non ha mai avvertito il distacco dalla sua città d’origine, Napoli (dov’è nato nel 1952), perché è «una periferia» della grande mela. Radici ben salde nella città partenopea, attestate altresì da Ave, Ovo!, il monumentale affresco site specific realizzato, nel 2003, all’interno del museo MADRE, che si sviluppa nelle pareti di due differenti piani, accompagnato da un pavimento in ceramica, nel quale ripercorre i luoghi della sua infanzia e i simboli della città. Come anche in Engadina (2013), il grande mosaico, lungo oltre 16m e quasi 3m di altezza, in pietra e ceramica di Vietri, nell’atrio della fermata della metropolitana, uscita largo Montecalvario, così titolato perché è la valle nel Canton Grigioni in Svizzera, che è l’ultimo luogo dove la luce mediterranea si arresta. Un vagabondare, quello di Francesco Clemente, iniziato nei primissimi anni Settanta, che da Napoli, lo porta dapprima a Roma, per studiare architettura, poi in Afghanistan (dove addirittura ebbe, come compagno di viaggio, Alighiero Boetti già dal 1974), in India (a Madras aprì uno studio dove ha compiuto il primo grande gruppo di lavori con i pittori locali delle insegne), negli Stati Uniti, ed «è da allora che sono in viaggio».

Prassi, quella di realizzare i propri lavori a più mani, che da sempre lo caratterizzano. Basti ricordare il libro creato insieme al poeta Allen Ginsberg, o le collaborazioni con Jean-Michel Basquiat e Andy Warhol, con i quali ha avviato la composizione di lavori di grande formato. È sempre negli stessi anni Ottanta, che si fissano alcuni dei momenti salienti della sua carriera artistica. A partire dalla sua presenza alla 39.Biennale di Venezia, nella sezione Aperto 80, curata da Achille Bonito Oliva e Harald Szeemann. Per proseguire col suo trasferimento a New York, che coincide anche con la sua prima mostra da Enzo Sperone, cui segue quella da Annina Nosei. Nonché con la sua affermazione nel gruppo della Transavanguardia, movimento suggellato e tematizzato da Achille Bonito Oliva che vedeva, oltre a Francesco Clemente, il coinvolgimento di Sandro Chia (1946), Enzo Cucchi (1949), Nicola De Maria (1954) e Mimmo Paladino (1948), come esponenti di una nuova tendenza “nomade che non rispetta nessun impegno definitivo” in opposizione alla “linea di lavoro oppressiva e masochista” dell’Arte Povera (così nel “manifesto” del movimento pubblicato su Flash Art 92/93,1979), con un ritorno al figurativo come espressione soggettiva dell’artista.

Unendo i suoi studi, le sue ricerche, le suggestioni vissute durante i suoi viaggi, da autodidatta ha elaborato un particolare linguaggio visivo profondamente simbolico, che trae linfa dalla cultura occidentale e da quella orientale, espresso mediante una varietà di tecniche e materiali. Dalla pittura ad olio alla tempera; dall'acquerello ai pastelli, all’encausto, all’affresco, fino alla scultura e alla ceramica. Un variegato linguaggio col quale esprime il suo intimo universo, il personale e spirituale immaginario, e col quale, costantemente, indaga l’esistenza e la condizione umana, nella sua vasta complessità. Colori vivaci, senza sfumature, con linee che danno vita a figure deformate, cariche di contenuti e valori che dal personale scivolano nell’universale. Su cui aleggia sempre la filosofia upanishadica (“sedersi accanto o ai piedi”) e buddista. Facendo propria una struttura semplice ed elementare come quella della tenda, che, sin dalle origini, ha accompagnato il cammino dell’uomo, pregna di significato (per il cristianesimo simboleggia la venuta di Gesù sulla terra e per l’ebraismo è il luogo della presenza di Dio), è infatti simbolo di riparo e sicurezza.

Al tempo stesso, riconducibile non solo alle primordiali abitazioni dell’uomo, ma strettamente legata alle tribù nomadi, e che ben traduce i concetti di spazio fisico e spazio spirituale (come non pensare agli Igloo di Mario Merz o alle Tende di Carla Accardi?), nonché quel forte senso di precarietà, che dovrebbe spingere a riflettere solo sulle cose essenziali della vita. Nel desiderio di una visione e dimensione globali, ciascuna tenda evoca universi immaginari, restituendo quei luoghi sacri e di meditazione che hanno inciso l’immaginario dell’artista. Perché, dichiara l’artista, «dipingo mio malgrado e la pittura è il linguaggio di una mia preghiera», e, come nella fiaba cinese Il pennello incantato, in cui il protagonista crea «un paesaggio che era vivo e reale, ci è entrato dentro e non è più tornato indietro. Diciamo che le tende sono il mio tentativo di entrare in un mondo della pittura dal quale non voglio più ritornare». Completano la grande installazione dodici Bandiere, sulle quali, da un lato compaiono figure simboliche e dall’altro degli aforismi ricamati in oro, tratti da La società dello spettacolo di Guy Debord; e i tre grandi wall painting site specific Oceano di storie, apparsi la prima volta a Pechino nel 2020, che, idealmente, aprono e chiudono il percorso in una ininterrotta uroborica circolarità e consegnano quel senso di incessante movimento e di perpetuo vagare nelle differenti geografie del mondo.
Francesco Clemente - Anima nomade
Roma, Palazzo delle Esposizioni
fino al 30.03.2025
In copertina, Tenda del diavolo, 2013-2014 (particolare, interno), Tempera su cotone, ricamo, cuciture a mano, pali di bambù, finali in legno, corde, pesi in ferro, cm 600 x 400 x 300, Collezione dell’artista. Foto John Berens. Courtesy Francesco Clemente Studio.
