Arles: fotografare l'assenza

4 Settembre 2024

“Molto di ciò che era si è perduto, perché ora non vive nessuno che lo ricorda” narra la voce fuori campo ne Il Signore degli Anelli di Peter Jackson, dall’omonimo romanzo di J. R. R. Tolkien. Ma le foto esposte nelle mostre di Belongings, Réstaurant Wagon, Fashion Army e Libres Expressions, allestite in quattro delle venticinque sedi del solido e (finora) mai deludente festival Les Rencontres de la Photographie di Arles (che chiuderà i battenti il 29 settembre 2024), fanno parte di quelle fotografie che riescono ad abbattere il muro dell’oblio. A far nascere un delicato senso di condivisa tristezza. A strappare un sorriso. A far riflettere, di nuovo e ancora, sull’uso delle immagini, e su come si sia tenuti all’oscuro di quello che molti governi decidono nelle loro stanze, soprattutto per quanto riguarda le guerre. A documentare i cambiamenti economici e, di conseguenza, anche quelli architettonici, che attraversano i grandi agglomerati urbani nonché le aree rurali.

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Ishiuchi Miyako. Frida by Ishiuchi #7, Frida by Ishiuchi series. Courtesy of the artist / The Third Gallery Aya.

Attraverso una memoria personale e collettiva, con la mostra Belongings (sezione Tracce – la stessa in cui è stata inserita la splendida installazione nel criptoportico di Sophie Calle, Finir en beauté,), allestita nella Salle Henri Comte, Ishiuchi Miyako genera un senso di comune dispiacere e angoscia. Tesse, come sua prassi, un racconto individuale e allo stesso tempo corale. Perché nella serie Mother’s, ritraendo gli oggetti appartenuti alla madre, ormai morta, parla di un’assenza che ognuno di noi in qualche maniera conosce e ha vissuto (è con questo lavoro che, nel 2005, ha rappresentato il proprio paese alla Biennale di Venezia). Serie nata dall’impossibilità, da parte di Ishiuchi Miyako, di accettare la scomparsa della madre (di cui ha adottato il cognome da nubile e morta da ventiquattro anni), pur nella consapevolezza che “un corpo senza vita non può più continuare ad esiste in questo mondo. Il suo corpo non era più lì -dichiara-. I beni che ha lasciato erano diventati inutili senza la loro proprietaria. Prima di sbarazzarmene, ho deciso di ritrarli nelle fotografie”. Allo stesso modo, fotografando gli effetti personali che erano di Frida (Khalo), ci racconta delle sofferenze (il noto busto che per anni ha sostenuto la sua schiena infilato su una morbida gonna turchese), ma anche dei colori della grande artista messicana. Ugualmente, riprendendo i capi di abbigliamento a suo tempo indossati dagli hibakusha, parla di una storia che riguarda tutti noi. Le hibakusha sono le persone tragicamente colpite da Little Boy, la bomba atomica Mk.1, lanciata il 6 agosto 1945 alle ore 8.16 sulla città di Hiroshima, dal bombardiere Enola Gay (Boeing B-29-45-MO Superfortress) pilotato dal colonnello Paul Tibbets. È nel 2007 che si è dedicata a questo progetto titolato ひろしま/hiroshima. Così, un guanto contratto o una camicia marinaresca sgualcita e adombrata, richiamano alla nostra memoria una quotidianità brutalmente e improvvisamente squartata e interrotta quel 6 agosto. Mentre un rossetto consumato o una camicetta con fiorellini, nonostante parlino di una persona a noi ignota, raccontano un’altra quotidianità, quella dell’artista, capace di evocare una situazione comunque nota a tutti. Perché per Ishiuchi Miyako la potenza della fotografia sta proprio nel rendere visibili cose invisibili e di riportare nel presente come vive cose del passato.

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Ishiuchi Miyako. Mother’s #35, Mother’s series. Courtesy of the artist / The Third Gallery Aya.
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Ishiuchi Miyako. ひろしま/hiroshima #37F donor: Harada A., Courtesy of the artist / The Third Gallery Aya.

Con uno spirito simile, quello di riportare nel presente atmosfere del passato, per una “rilettura” nonché analisi e riflessione, sono Réstaurant Wagon (allestita nella Croisière e curata da Arthur Mettetal) e Fashion Army (approntata nella sala Ground Control della Stazione Ferroviaria di Arles, curata da Matthieu Nicol). Entrambe nella sezione Riletture, Réstaurant Wagon è un’attenta ricostruzione della storia del Vagone Ristorante e del ruolo che ha ricoperto, non solo nell’immaginario collettivo, ma anche sociale ed economico nel corso degli anni, tenendo presente che negli Stati Uniti già dal 1860 i pasti venivano serviti a bordo mentre, in Europa, la pioniera nel settore è la Compagnia Internazionale di Vagoni Letto (CIWL); settore che conosce l’età d’oro tra le due guerre. Gli scatti esposti mostrano tutto il comparto che ruotava intorno a questo servizio, compresa l’idea di lusso.

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Interior of a “Gril-Express” self-service dining car, 1967.

Dall’approvvigionamento e stoccaggio delle materie prime ai cuochi che preparavano ogni giorno i pasti; dalle stoviglie, via via appositamente studiate per gli spazi che gradualmente venivano sempre più ridotti; dagli arredamenti ricercati alle successive sedute più commerciali. Il tutto accompagnato dalle immagini pubblicitarie (le cui strategie sono brillantemente illustrate dalla serie tv Mad Men) in cui la famigliola serena è ben felice di ritrovarsi, anche sul treno, rilassata e riunita intorno a una tavola bandita, ben rappresentata con tutti gli stereotipi dell’epoca. È interessante, dunque, ripercorrere anche la storia sociale e dei costumi degli ultimi decenni, attraverso le foto provenienti dai fondi della ex CIWL e dal Servizio Documentazione Archivistica del gruppo SNCF (SARDO). Mentre la seconda, Fashion Army, è una mostra che spinge a riflettere sull’uso delle immagini e su quello che i governi tengono nascosto. Infatti, le foto esposte provengono da un archivio molto particolare. Un archivio che parte dalla fine degli anni ’60 fino agli inizi degli anni ’90, composto da 14.134 scansioni di negativi del Natick Soldiers System Center, un centro di ricerca a sviluppo dell’esercito americano, solo recentemente desecretato, di cui tuttora non se ne conoscono né la motivazione né la finalità, ancor più singolare dal momento che non è attestata neanche la loro circolazione. Realizzate all’aperto o in studio, con sfondi colorati e un’accurata composizione, probabilmente erano fotografie di propaganda destinate ad un uso strettamente interno e rispondevano, altrettanto probabilmente (l’esercito americano si è rifiutato di fornire dettagli e spiegazioni), all’esigenza di testare i prototipi di uniformi e attrezzature militari, e i loro possibili usi e combinazioni, raccontando altresì di come la ricerca militare abbia avuto delle ricadute anche nella società civile (è sufficiente ricordare i Ray-Ban o le fantasie mimetiche o il web) e, allo stesso tempo, denunciando come si sia sempre pronti alla guerra.

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Clothing, camouflage, desert (3 styles) in the field, 1972.
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Boot, 1989.

Rispondendo, dunque, a uno dei ruoli di cui è stata investita la fotografia, Libres Expressions nel Musée Réattu, raccoglie le bellissime foto di Jean-Claude Gautrand con le quali, nel corso della sua lunga attività, ha documentato i manufatti di diverse località attestando, così, anche i successivi cambiamenti soprattutto paesaggistici ma, anche, economici e urbanistici. Evocando il nome del gruppo d’avanguardia che il fotografo fondò nel 1963 (Libre Expression), l’esposizione ha un duplice intento: omaggiare uno dei più grandi fotografi francesi (tra l’altro promotore e forte sostenitore, sin dagli anni Settanta, degli stessi Les Rencontres) nonché l’attento osservatore della città di Arles. Con le oltre duecento fotografie in B/N, selezionate tra quelle delle collezioni del Musée Réattu, di Les Rencontres e quella personale di Josette Gautrand, oltre agli scatti realizzati nella Capitale francese (ad esempio: Paris - Carrefour Pajol-Riquet, 1957 o Fontaines du Trocadéro, 1994), o in giro per la Francia (Saint-Malo, Plage du Sillon, 2006), pregevoli sono quelli che testimoniano i pesanti cambiamenti urbanistici, su tutti L’Assassinat de Baltard (1971) e Paris, La ville, Avant démolition à Belleville (1975). Altrettanto suggestivi sono pure quelli realizzati nelle vecchie miniere, come La Mine – Ville de Wazier (1981). Uno straordinario corpus di immagini che attestano, dunque, l’inesorabile trascorrere del tempo, consegnando, allo stesso tempo, la memoria dei luoghi che Le jardin de mon père (1998-2010), attraverso un racconto intimista, mirabilmente incarna.

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Jean-Claude Gautrand. The Mine – City of Wazier, 1981. Courtesy of the artist.

Ishiuchi Miyako | Belongings - Salle Henri Comte
Réstaurant Wagon – Croisière
Fashion Army - Ground Control
Jean-Claude Gautrand | Libres Expressions - Musée Réattu

In copertina, Jean-Claude Gautrand. Paris – Pajol-Riquet crossroad, 1957. Courtesy of the artist.

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