Tracey Emin. “Quello che so e non so di lei”
“Quando sono nata, pensarono che fossi morta. Paul arrivò per primo, dieci minuti prima di me. Quando fu il mio turno, fui buttata fuori, piccola e gialla con gli occhi chiusi. Non piansi. Ma al momento della mia nascita in questo mondo, in qualche modo ho sentito che era stato commesso un errore”. Così si presenta Tracey (Karima) Emin in Strangeland, biografia scritta nel 2006. Attraverso tre grandi capitoli (Motherland, Fatherland e Traceyland) racconta “Le memorie di una delle artiste più acclamate della sua generazione”, ovvero tutto il suo universo, le cadute, le debolezze, le vittorie, i traumi. Passaggi alcuni dei quali già narrati in Tracey Emin CV (1995), un’opera di nove pagine A4, scritte a mano, con inchiostro turchese, nelle quali riporta, sotto forma di cv, gli eventi significativi della sua vita, dal suo concepimento nel 1962, al primo stupro a tredici anni, al trasferimento a Londra e all’iscrizione alla scuola d’arte.
EMIN - You Should Have Saved Me, 2023 - Galleria Lorcan O'Neill
Anche senza cimentarsi nella lettura di questi ritratti, sono scarsi gli episodi che non si conoscono. Perché è impossibile parlare delle opere di Tracey Emin, senza riferire del suo vissuto, e viceversa: nei suoi lavori abbatte il confine tra pubblico e privato, raccontando esperienze intime, rivelando sensazioni che, altrimenti, difficilmente sono espresse, mettendo in mostra la propria vita privata e la propria interiorità, perché “ho ucciso la mia vergogna, l’ho appesa alle pareti”. E opere celeberrime, molte ormai iconiche, come My bed (1998) e il video How It Feels (1996) col successivo dipinto You Came (2018) ne sono la piena espressione. La prima, candidata al Turner Prize del 1999 e fino al 2014 nella collezione Charles Saatchi (quando venne battuta dalla casa d’aste Christie’s per 2,5 milioni di sterline dal collezionista tedesco Christian Duerckheim) che la teneva esposta nella sua sala da pranzo, è tra le opere più discusse degli anni Novanta. Compiuta dopo essere uscita da una cocente delusione d’amore, che l’ha vista letteralmente chiusa in casa per diversi giorni, durante i quali ha vissuto soltanto sdraiata sul letto, fumando, mangiando pollo fritto, bevendo vodka, o facendo sesso, schiettamente raccontato dagli oggetti sparsi tra le lenzuola, e perché “su quel letto – dichiara la stessa Tracey Emin – ci sono i miei fantasmi”. I secondi, invece, furono realizzati a seguito delle gravidanze interrotte.
Parafrasando titoli letterari, la vita di Tracey Emin è come un’opera d’arte, dove la quotidianità ha ispirato ogni suo lavoro, e ciascuno, pregno del suo vissuto, ripercorre le tappe della sua esistenza, delle sue più intime riflessioni o personali desideri. Perché l’arte è stata anche la sua ancora di salvezza, come lei stessa racconta in una delle sue ultime interviste. Di origine turco-cipriota, nata a Croydon, da una relazione extraconiugale di entrambi i genitori, presto ha lasciato gli studi, e altrettanto presto ha abbandonato Margate, la città dov’è cresciuta (nel video Why I Never Became a Dancer, 1995, non esita a narrare gli abusi sessuali di cui fu vittima appena tredicenne e la molla che ha fatto definitivamente scattare in lei il desiderio di andare altrove). Ma a ventiquattro anni frequenta il Royal College of Art e nel 2011 è nominata Professoressa di Disegno presso nientemeno che la Royal Academy (assieme a Fiona Rae è una delle prime due donne a tenere una cattedra da quando l'accademia fu fondata nel 1768). Inoltre nel 2007 ha rappresentato la Gran Bretagna alla 52a Biennale di Venezia e, nel 2012, la da poco scomparsa Regina Elisabetta II la nominò Comandante dell'Eccellentissimo Ordine dell'Impero Britannico per i suoi contributi alle arti visive.
EMIN - Installation View - You Should Have Saved Me - May 2023 - Galleria Lorcan O'Neill
Tracey Emin è a tutti gli effetti la più brillante e controversa protagonista della Young British Artists, “movimento” artistico consacrato dalle epocali mostre Freeze (1988) e Sensation (1997) allestita nella Royal Accademy. Filone nel quale le diverse personalità (tra cui il vero deus ex machina Damien Hirst, Sarah Lucas, Angela Bulloch, Mat Collishaw, Ian Davenport, Marc Quinn, Rachel Whiteread) erano tenute insieme essenzialmente da criteri generazionali, logistici (Londra) e legami interpersonali, piuttosto che da elementi stilistici o tematici e caratterizzato da un’esplicita rielaborazione dell’eredità della Pop art, dell’arte concettuale e del minimalismo, mediante l’impiego di materiali non tradizionali (come scarti), con l’inclusione di elementi personali e autobiografici. Non a caso, proprio in Sensation, Tracey Emin espose un’opera divenuta anch’essa iconica: Everyone I Have Ever Slept With 1963-1995. Andata distrutta in un incendio nel 2004 (l’artista si è sempre rifiutata di farne una replica), sin da subito volutamente è stata interpretata in chiave sessuale per solleticare la pruriginosità del pubblico (e corrispondere all’idea della bad girl).
All’interno dell’archetipa forma della capanna, tradotta in una tenda da campeggio dalla tipica struttura a igloo, l’artista aveva ricamato tutti i nomi (per un totale di centodue nomi) delle persone con le quali aveva dormito fino a quel momento (e non “andata a letto”). C’erano, quindi, la nonna (caposaldo per l’artista), il fidanzato, il fratello, gli amanti, le amiche, i bambini che non ebbe mai. Mentre è con Sarah Lucas che, nel 1993, diede vita a The Shop, un ex studio medico al 103 Bethnal Green Road, riconvertito a negozio aperto per sei mesi (e la foto From Army to Armani ne è una testimonianza) e chiuse con la festa per il trentesimo compleanno proprio di Tracey Emin, dove erano venduti gli oggetti realizzati a mano dalle due artiste (magliette e posacenere erano i più gettonati) e divenuto ben presto punto di ritrovo.
EMIN - Installation View - You Should Have Saved Me - May 2023 - Galleria Lorcan O'Neill
Dunque, non è facile asserire in modo netto quello che si sa e quello che non si sa di lei. Perché attraverso video, acquarelli, disegni, fotografie, selfie, quilts, neon, ricami, acrilici, bronzi, libri, installazioni, si conoscono episodi ma anche pensieri nascosti (vedi I Want My Time With You, 2018 – una scritta al neon di 20 metri, la più lunga da lei realizzata, installata nella stazione St. Pancras International di Londra).
È la stessa temperatura che aleggia, pervade, riempie, colma gli spazi della Galleria Lorcan O’Neill dove Tracey Emin ha allestito la sua quinta personale a Roma. Come per tutte le sue mostre, il titolo è l’enunciato dell’intera architettura espositiva. You Should Have Saved Me sono quindici grandi tele, dal 2021, nelle quali, con la sua pittura espressiva, viscerale, rabbiosa e schietta, rappresenta il suo percorso, difficile e doloroso, dovuto a un cancro scoperto nel 2020. Pittura che deve molto al fulminante incontro dell’artista con Edvard Munch ed Egon Schiele. Un legame, quello di Tracey Emin con Edvard Munch, che è stato suggellato nella mostra Tracey Emin/Edvard Munch – The Loneliness of the Soul che la Royal Academy of Arts ha allestito nel 2021, mettendo a confronto le sue opere con quelle di Munch (anticipatamente chiusa a causa della pandemia). Nonché dalla colossale scultura The Mother, innalzata nel 2022, nell’Inger Munch’s Pier di Oslo. All’età di cinque anni Munch perse la madre Laura, e Tracey Emin ha presentato il suo bozzetto di argilla al concorso internazionale per un’opera pubblica per l’Isola dei Musei. E la sua immagine di una donna nuda, inginocchiata e china su un bambino invisibile, alta nove metri e del peso di diciotto tonnellate, è stata scelta e realizzata, perché “ha vinto l’intimità”.
Le opere esposte a Roma sono opere che l’artista avverte come “l’inizio e la fine di un tempo”, e che vedono il momento salvifico nella piccola scultura in bronzo di una croce, che sta a simboleggiare i suoi sacrifici e la sua gratitudine perché l’arte l’ha salvata. Nuovamente unica protagonista delle grandi tele è lei, nel corso delle diverse fasi della malattia e della convalescenza. Nuovamente un corpo di cui non si vede il volto, “perché il mio volto lo conosco, so come sono fatta”, e per questo trova superflua la sua rappresentazione, nel quale in molti possono identificarsi per l’universalità dei grandi temi esistenziali affrontati dall’artista. Una patologia che l’ha sottoposta a difficili interventi chirurgici i cui esisti non erano prevedibili, tanto che il suo medico l’ha ribattezzata Miracle Lady/Miracle Woman.
Operazioni attraverso le quali alcune parti del suo corpo sono state asportate e in seguito alle quali, attualmente, è obbligata a indossare delle sacche per urostomia, seguite da una lunga, difficile, dolorosa convalescenza, durante la quale non riusciva a tenere in mano neanche una tazza di tè o a spostare una sedia, e quindi costretta a un lungo periodo di inattività perché, nonostante la sua mente volesse attivarsi, il suo corpo non riusciva a spostare una tela, a mescolare i colori. E quando finalmente ha riacquistato forza, Like a Cloud of Blood (2022) è stato uno dei primi dipinti realizzati dopo il cancro, nel quale ha fatto esplodere tutto quello che stava provando. Un quadro che voleva tenere sempre per sé ma che, man mano che il suo sogno della TKE Studios /Tracey Karima Studios e della TEAR /Tracey Emin Artist Residencies prende maggiore consistenza, ha deciso di vendere per investire il ricavato nel polo culturale che l’artista sta costruendo proprio a Margate, attraverso l’acquisto di diversi edifici (un ex stabilimento balneare del 1909, un vecchio obitorio, una ex tipografia), che saranno trasformati in dodici grandi studi di artista (selezionati da Tracey Emin stessa, per circa cento residenze) e scuola d’arte della durata di due anni per un gruppo di circa 15/20 studenti: tutto completamente gratuito e a spese di Tracey Emin stessa. L’unico impegno da parte degli artisti selezionati sarà quello di vivere nella cittadina, alla quale si è ravvicinata dal 2016, all’indomani dell’improvvisa morte della madre e che ha sentito essere adatta a lei. “È la prima volta, nella mia vita, che realmente sento cosa sto facendo e cosa sono e perché sono qui.
Da allora mi preoccupo se la mia arte può far accadere qualcosa per il futuro e ho la conferma che sto facendo la cosa giusta. Voglio dare alle persone un’opportunità, e voglio creare qualcosa che possa esistere dopo di me. E se alcune persone potrebbero pensare che non sia andata molto lontana, in realtà ho fatto il giro del mondo in tutte le direzioni e tornata e questo è quello che ho scelto”. Perché I never stopped loving you recita il neon posto sulla facciata dell’edificio principale. E perché “voglio creare un futuro”.