Una sorella tutta per sé
Entrare in un epistolario produce sempre una strana sensazione, almeno in me, la sensazione di entrare in un labirinto in cui, per quanto cerchi di procedere senza perdere il filo e mantenendo le dovute distanze, in realtà mi lascio distrarre da innumerevoli dettagli e mi sento costantemente coinvolta, quantomeno come testimone silenziosa. Perché si scrivono lettere è noto; perché si conservano è meno chiaro, e del resto una stessa persona in momenti diversi della vita decide ora di conservare ora di distruggere quelle in suo possesso, proprie e altrui; chiarissimo invece perché si leggono, non solo le lettere, ma anche i biglietti e le cartoline, a distanza di anni o secoli: sono vita, pensiero, storia, letteratura. Cose che ci appartengono e a cui apparteniamo.
In questo Se vedi una luce danzare sull’acqua, le corrispondenti – che per quarant’anni vollero e seppero davvero cum-respondere – sono le sorelle Stephens, Vanessa Bell e Virginia Woolf (Vanessa Bell, Virginia Woolf, Se vedi una luce danzare sull’acqua. Lettere tra sorelle 1904-1941, a cura di Liliana Rampello; traduzioni di Andrea Cane, Silvia Gariglio, Silvia Gianetti, Camillo Pennati, Sara Sullam; il Saggiatore, Mi 2024, pp. 410, € 35).
Del corpus di quasi novecento lettere (tante sono quelle a noi pervenute) che le sorelle Stephens si scambiarono nel corso della loro vita adulta, Liliana Rampello, curatrice del volume, ne seleziona settantadue di Vanessa e novantotto di Virginia, e le assembla con cura, direi con amichevolezza per loro e per noi, individuando tre periodi della loro vita: 1904-1912, anni di formazione dopo la morte del padre e il trasferimento al n. 46 di Gordon Square a Bloomsbury. 1913-1936, anni di amori, matrimoni e viaggi, di incontri e perdite, anni di guerra e di una pace fragile. 1937-1941, altri anni, altre case, altri amori, altre guerre...
In tutto questo tempo, dovunque si trovino, Vanessa dipinge e Virginia scrive, e tutte due leggono, studiano e guardano, scrivendosi e argomentando sul proprio guardare. Lettere a volte frettolose, semplici appunti di vita quotidiana, a volte riflessioni sul dipingere e lo scrivere, a volte abbozzi di storie, ora malinconiche ora divertentissime, da cui trapelano tele e romanzi che verranno. Ciò che mi sorprende, rileggendo dopo molto tempo queste scritture quotidiane dialoganti, è che le leggo come un romanzo di cui sono le protagoniste e in cui a ogni pagina diventa più evidente quanto per entrambe contasse il pensiero dell’altra. E quanto forte fosse il bisogno di trovare la nota giusta, a cominciare dal nomignolo scelto all’inizio di ogni lettera.
«Amata scimmia» scrive Vanessa a Virginia il 14 dicembre 1906. L’amato fratello Thoby è morto un mese prima, e Vanessa è ospite della famiglia di Clive Bell, con cui è fidanzata, e si chiede se sarà buona cosa sposarlo: «Nelle ultime tre settimane ci siamo parlati senza peli sulla lingua per sette-otto ore al giorno, eppure ci sembra non sia mai abbastanza. A volte divento patologica e credo di annoiarlo [...] che cosa pensa la tua mente filosofica, Billy? Abbi cura di te e del Vombato».
La risposta di Billy, la capra, si fa attendere fino al 6 febbraio 1907, ma è una risposta entusiasta: «Cara Signora, noi sottoscritte e un Vombato desideriamo renderle nota la nostra grande afflizione e gioia alla notizia che lei intende sposarsi. Veniamo a sapere che lei ha trovato una nuova Scimmia Rossa di una specie prima sconosciuta, che è migliore di qualsiasi altra scimmia in quanto può sia parlarle che sposarla: cosa da cui noi siamo esclusi. [...] Noi siamo stati i suoi umili animali sin da quando lasciammo per la prima volta le nostre isole, il che avvenne prima di quanto possiamo ricordare, e durante questo tempo l’abbiamo corteggiata e abbiamo cantato molte canzoni [...] nella speranza che, in tal modo incantata, lei volesse accondiscendere un giorno a sposarci. Ma poiché non ci aspettiamo più quest’onore, imploriamo che lei continui a tenerci come suoi amanti, nel caso ne avesse bisogno, e in questa qualità noi promettiamo di dimorare del tutto soddisfatti, adorandola ora come un tempo». E firma Billy, Bartholomew, Mungo, più VOMBATO ovviamente, nomignolo del fratello Adrian. E chi legge ancora oggi si emoziona, perché sembra di vederle, Virginia che firma coi suoi vari soprannomi caprini, e Vanessa che l’immagina mentre si aggira col suo «nasino nero» annusante. Ma l’emozione non è solo questa, è che già in queste prime lettere affiorano un modo di vedere e di narrare, con la penna o il pennello, che si dilateranno sulle tele di Vanessa e nelle narrazioni di Virginia. Impossibile non scorgere, nelle isole che gli «umili animali» di questa lettera dovettero lasciare in un tempo immemorabile, «la minuscola isola» che il signor Ramsay guarderà con un sospiro malinconico, l’isoletta «adagiata sul mare... molto piccola, molto lontana» che Cam adolescente vede finalmente non dalla terraferma bensì dal mare, andando verso il Faro.
«In questa stagione dovremmo fare passeggiate insieme» scrive Virginia a Vanessa il 10 agosto 1908, è un lunedì e le foglie cominciano a cadere, ma non fa troppo freddo, «ti costringerei a restar fuori fino all’ora di cena: ho trovato la passeggiata serale ideale, con una vista straordinaria sulla strada del ritorno, che era sempre il momento migliore [...] e alle volte tu mi dicevi cose deliziose e io camminavo come un pavone, tutta raggiante. [...] Nelle tue lettere riesci a mettere qualcosa che è al di là della mia portata. Qualcosa d’inatteso, come quando si gira l’angolo in un roseto e si scopre che è ancora giorno».
«Mia Billy» le risponde l’indomani Vanessa, «ho ricevuto una tua lunga e deliziosa lettera con accenni lusinghieri alla luce del giorno che si trova quando si gira l’angolo del roseto. Faccio le fusa quando mi vengono gettate ai piedi simili gemme dell’immaginazione».
Il fatto è che queste perle cadono anche ai nostri piedi, inducendoci a sostare, perché il roseto con quella sua luce così particolare lo vediamo anche noi, e come accade nei romanzi vogliamo coglierne ogni sfumatura, di qua e di là dall’angolo.
Gli anni passano, nel 1912 Virginia sposa Leonard Woolf e nel 1917, in piena guerra, lei e il marito si trasferiscono a Richmond e fondano la Hogarth Press, che pubblicherà i libri di Virginia quasi sempre con le copertine disegnate da Vanessa (alcune sono riprodotte nel prezioso inserto di immagini contenuto nel volume).
«Mia Billy» scrive Vanessa il 31agosto 1915, «mi chiedi degli schizzi, che ti manderei, se ne avessi pronti. Ma al momento ne ho molti iniziati e nessuno finito». È presa da mille cose, Nessa, sembra avere mille vite. La pittura, gli amori, i figli. Così Virginia, qualche mese dopo, le scrive «Se vengo da te, avrò delle attenzioni speciali? Coccole e diritti illimitati di baciare e accarezzare l’interno del braccio. Eh?». Lascia trascorrere un altro mese, e aggiunge, «Ti invidio molto i tuoi marmocchi. Sono estremamente interessanti. Che strano sarà quando Julian diventerà un bravissimo e serissimo studente universitario, come penso che accadrà. [...] Mi interessa molto la tua vita, su cui penso di scrivere un altro romanzo. È fatale stando con te – fai venire tante nuove idee».
«È affascinante e sarà un gran successo» le scriverà Vanessa il 3 luglio del 1918, dopo aver letto una prima stesura di Night and Day (Notte e giorno), che verrà pubblicato dalla Hogarth Press nel 1919, a guerra finita. «Mi chiedo se potrei disegnare qualcosa. Sarebbe divertente provare, ma devi darmi la misura. Forse non avrà molto a che vedere con il testo, ma non importerebbe. [...] Ora dimmi le tue teorie sull’estetica e i sentimenti che ti suscitano le mie opere». E Virginia va a comprare «un meraviglioso foglio di carta, costato circa 1 scellino e 6 pence la dozzina» unicamente per rispondere a sua sorella. «Questo è amore» le dice, «ma vorrei non aver parlato di estetica. Ero solo estremamente interessata alle mie sensazioni riguardo al tuo quadro. [...] C’è un qualcosa nel tuo quadro che, per quanto percepibile, per il momento supera la mia comprensione. Ma pensi che questo processo semiconsapevole per cui si arriva a odiare ferocemente un colore e ad apprezzare sempre di più un quadro sia il segnale di un qualche istinto vitale che cerca di emergere? Lo spero umilmente».
È affascinante constatare l’intensità affettiva e il lavorio della mente cui queste lettere danno voce, un lavorio instancabile che contagia chi legge. Ci sono innumerevoli altre persone intorno a loro, spesso eccezionali, e tutto un mondo che si muove, viaggia, vive e muore. Ma fra loro resta teso quel filo sottile di cui mi sono appropriata all’inizio e che mi tengo stretto, rigirandomelo tra le dita.
«Mia Billy» scrive Vanessa da Venezia l’8 giugno 1926, «non ti dirò (perché ti irriterebbe, o ti lusingherebbe?) che preferisco le tue lettere a te. No. Ma mi commuoveresti davvero se vedessi come il tuo cane fedele e il tuo gatto le divorano, ne leccano ogni pezzo, e ne desiderano ancora. Certo, dato che passi le tue giornate con la penna in mano, non capisco perché non mi scrivi ancora più spesso».
«Ieri notte abbiamo esplorato Siracusa al chiaro di luna» scrive Virginia il 14 aprile 1927, «ma come faccio a raccontare senza annoiarti, soprattutto senza che tu abbia bevuto una bottiglia di vino e sia mezzo sbronza come ero io... la baia, le golette, il cielo azzurro, con le colonne bianche che si stagliano come carta e le nuvole [...]. La mente è un tale miscuglio di cose differenti, sempre in ebollizione. Forse i pittori sono più concentrati, ma nella loro purezza marmorea meno gradevoli e amabili di noi. Tu hai scacciato tanti di quei demoni che tormentano le povere creature come me. Da quando ho lasciato Cassis ho continuato a pensare a te come a una coppa d’acqua dorata colma fino all’orlo ma che non trabocca mai».
«Mia Billy, scriverti è un’impresa eroica» risponde Vanessa da Cassis. «Le falene muoiono intorno a me. Non le sopporto più. Quando esce Il faro? Per favore, non dimenticare il mio ordine di due copie. Potrei essere anche io in un faro a giudicare dalle falene».
«Carissima» le risponde Virginia, «la tua storia della falena mi ha così affascinata che scriverò un racconto. Per ore, dopo aver letto la tua lettera, non sono riuscita a pensare a nient’altro che a te e alle falene. Forse tu stimoli il mio senso letterario quanto io, come tu dici, stimolo il tuo senso pittorico».
È un filo di comprensione e curiosità reciproca profonda, non esente da contraddizioni e gelosie, che vengono peraltro esplicitate e talora si traducono in un incredibile sovrapporsi di penna e pennello: «Mosche verdi e trasparenti si attaccano al paralume, il tavolo è coperto di creature alate e con sei zampe. Ho trovato lo scheletro della cicala che era entrata nella mia stanza a bordo di una vecchia tela l’altro giorno». Difficile supporre che sia la pittrice che scrive, verrebbe piuttosto da pensare che sia un vecchio taccuino della scrittrice ad aver preso a bordo lo scheletro della cicala. Invece è Nessa che racconta, e continuerà a farlo fino a quella domenica di marzo del 1941 in cui la sua interlocutrice si sottrarrà a lei, a Leonard e alle parole:
«Carissima, non sai quanto mi è piaciuta la tua lettera. Ma sento che questa volta mi sono spinta troppo lontano [...]. Non riesco più a pensare con chiarezza. Se riuscissi, ti direi quanto avete contato per me tu e i ragazzi. Credo tu lo sappia».
Liliana Rampello dedica questo suo bel lavoro «a Lea Vergine, indimenticabile amica», che certo comprendeva gli intenti di Vanessa e di Virginia, il senso preciso e ragionato che per loro aveva lasciare un segno, sul muro, sulla pagina o sulla tela, o sull’acqua.
Leggi anche:
Silvia Ferri | Virginia Woolf e Bloomsbury a Palazzo Altemps
Isabella Pasqualetto | Virginia Woolf, I Diari. 770.000 parole
Francesca Serra | Virginia Woolf: il mondo visto da un acino d’uva
Isabella Pasqualetto | Virginia Woolf e Lytton Strachey. Ti basta l’Atlantico?
In copertina, Photograph of Virginia Woolf by Man Ray, 27 November 1934, via AnOther Magazine.