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Un nuovo Ibsen

20 Marzo 2025

In un particolare volumetto intitolato Vita di Enrico Ibsen (l’opera originaria constava di sei puntate pubblicate sul periodico «Film» del 1943), Alberto Savinio avvia il suo discorso sullo scrittore norvegese descrivendo il monumento funerario che la moglie Suzanne Thoresen fece realizzare alla morte del poeta: “un fusto di granito, nudo di nome e d’iscrizione, sul quale è inciso soltanto un piccone di minatore”. Per Savinio quel piccone richiamerebbe il simbolo di chi scava sempre più a fondo, e si rifarebbe ad alcuni versi giovanili in cui lo scrittore – un “Ibsen non ancora Ibsen”, dice Savinio – s’illudeva di dover scavare negli abissi, picconare il reale fino a toccare il cuore del mistero umano, per capire la vita. Una “illusione”, appunto, forse mai del tutto persa dal norvegese, ma tradita dai fatti, cioè dalle opere ultime del drammaturgo (tra cui L’Anitra Selvatica e La donna del mare) che dimostrerebbero la sua capacità di vedere il grande nel sempre più piccolo, di leggere il misterioso attraverso ciò che è in piena luce. Studiando la superficie, appunto, che per Savinio è in realtà più profonda della profondità. E d’altronde è lo stesso Ibsen ad aver parlato, in una citatissima lettera del 1867 inviata all’amico poeta Bjørnstjerne Bjørnson, del suo progetto di farsi ‘fotografo’. “Farò posare davanti al mio obiettivo i miei contemporanei uno ad uno, e non risparmierò né il bambino nel ventre della madre né un pensiero né un’atmosfera nascosta nelle parole di nessuna anima ogni volta che mi troverò in presenza di uno spirito che meriti la riproduzione”. In un’altra occasione aveva invece chiarito che lo scrittore “deve vedere non riflettere”. Al di là del commento che Savinio si spinge a fare sull’incapacità degli amanti di lungo corso di stare al passo l’uno coi mutamenti dell’altro (secondo lo scrittore Suzanne aveva vissuto accanto al marito senza mai capire dove fosse andata la sua scrittura, restando pertanto legata tutta la vita all’immagine del minatore, vecchia di decenni) è interessante quell’accusa di fraintendimento e monumentalizzazione poiché intende in fondo rilevare i sintomi di un approccio ottuso alla cultura. Ibsen, infatti, come è accaduto ad altri grandi autori canonici, è stato effettivamente imbrigliato a lungo in letture unidirezionali e indiscutibili. Tramandato dalla critica con un apparato esegetico intoccabile, granitico come il monumento funerario disegnato da Suzanne.

È questo uno dei motivi fondamentali per i quali la pubblicazione recente del Meridiano Ibsen curato per Mondadori da Franco Perrelli, tra i massimi studiosi di teatro scandinavo, rappresenta una preziosa occasione per tornare a leggere l’Ibsen dei drammi borghesi. A leggere le dodici opere, innanzitutto, nelle traduzioni curate dallo stesso Perrelli, che cercano di adeguarsi ad alcuni criteri suggeriti da Ibsen. La sua lunghissima introduzione si apre proprio con una sintesi del dibattito critico internazionale e un affondo sulla svolta revisionistica, cioè sui più recenti tentativi di scalfire “la proverbiale e affidabile immagine di uno scrittore sostanzialmente razionale, anzi positivista, e ovviamente femminista”. Il curatore ripercorre poi le vicende biografiche sostanziali del drammaturgo, l’infanzia da “patrizio decaduto”, cioè da figlio di una famiglia abbiente e rispettabile caduta in rovina, gli avvicendamenti personali e professionali che lo porteranno a lasciare la Norvegia e a viaggiare in Europa per circa trent’anni (con lunghe tappe in Italia e Germania), i suoi successi editoriali passati spesso attraverso testi rimaneggiati e mal tradotti, e alcune riflessioni particolarmente interessanti sulla sua essenza di scrittore tanto norvegese quanto continentale. Al centro del lavoro curatoriale e critico di Perrelli c’è sicuramente la dimensione storica. Le sue appendici storiche danno infatti uno spazio fondamentale, come lui stesso dichiara più volte, non solo all’Ibsen positivista (già abbondantemente tramandato) ma anche al mistico idealista e al contemporaneo di Dostoevskij e Nietzsche. “Metodologicamente – ha spiegato lo studioso – ho cercato di porre al centro del mio lavoro proprio la Storia, che mi sembra indispensabile rilanciare segnatamente nell’ambito degli studi teatrologici”. Ci sono finalmente molti Ibsen in questo “nuovo Ibsen” ritratto nel Meridiano.

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Le opere pubblicate nel volume sono i dodici drammi identificati come drammi borghesi (da Le colonne della società del 1877 a Quando noi morti ci destiamo del 1899): paesaggi nordici, tanti salotti, uomini stimati con un ruolo di primo piano nella buona società votati fino al midollo a un’idea quasi religiosa di progresso (ovviamente su basi capitalistiche), ipocrisia della morale borghese, famiglie i cui membri devono affrontare i conflitti legati a norme sociali, aspettative familiari e identità personali, personaggi che lottano per mantenere un’apparenza rispettabile a fronte di tensioni e fallimenti interiori. In questa struttura più o meno fissa si muovono figure straordinariamente vive, compresi alcuni personaggi femminili di enorme fascino. E non mi riferisco tanto alla Nora di Una casa di Bambola, su cui pure varrebbe la pena spendere qualche parola per mettere quantomeno in discussione, col puntello di autorevoli analisi (come quella di un altro grande scandinavista qual è Roberto Alonge) l’immagine di eroina protofemminista proposta da buona parte della critica – quanto a una Rebekka West, per esempio. Rebekka, protagonista femminile di Rosmersholm, dimostra infatti tutta la capacità di Ibsen di dare vita a una figura ricca di tensioni, stratificata, in cui la capacità manipolatoria che porta la donna a divorare l’anima della moglie di Rosmer spingendola al suicidio, e poi quella di Rosmer stesso (che a sua volta non è solo una vittima), non è frutto di predeterminazione. Rebekka non è una “cattiva” a una dimensione, come quelle di una scadente soap opera: Ibsen mostra invece l’esatto opposto, ovvero l’imperfezione della volontà; ci fa seguire infatti i percorsi tortuosi della psiche che la portano al baratro, un passo dopo l’altro, in una spirale di decisioni sbagliate. Non è un caso che tra le grandi interpreti di questo personaggio dalla psicologia tanto complessa, diciamo pure “realistica”, si possano annoverare Ol’ga Knipper ed Eleonora Duse.

In questi drammi si ritrova naturalmente l’Ibsen padre della drammaturgia moderna tanto amato dalla regia novecentesca (tra gli italiani citiamo almeno Giorgio Strehler, Massimo Castri e Luca Ronconi) con la sua tipica tecnica analitica, che costringe i personaggi a fare i conti con i propri “cavalli bianchi”, cioè con un passato che non passa, attraverso drammi in cui l’azione (come ci ha segnalato Péter Szondi nel suo Teoria del dramma moderno) è ricostruzione di quel che “un tempo” è accaduto e oggi mostra le sue conseguenze. Un percorso a ritroso che si svolge attraverso dialoghi serrati, veri e propri interrogatori reciproci sui come e i perché del punto a cui si è arrivati. All’abbondanza di sedie, poltrone, divani e canapè è stato giustamente dato un grande rilievo in tutte le analisi dell’opera ibseniana, poiché tutte queste sedute, o meglio i dialoghi che ospitano, tesi come sono a far emergere non detti e rimossi, indubbiamente fanno pensare a una seduta di psicanalisi. Com’è noto L’interpretazione dei Sogni di Freud viene pubblicata nel 1899, vent’anni dopo l’avvio del ciclo dei drammi borghesi di Ibsen, ma la contiguità di pensiero e ricerche è evidente. Freud citerà più volte Ibsen (Massimo Castri li ha perfino definiti fratelli gemelli) in quanto autore capace di rappresentare le tensioni psichiche con straordinaria profondità. Nella sua introduzione all’edizione BUR (2009) dei drammi borghesi (qui definiti ‘moderni’) Alonge metteva in luce anche la predilezione da parte dell’autore norvegese per spazi chiusi e contigui, porte vetrate, porte scorrevoli, porte a due battenti, controporte, porte tappezzate e porte comuni ricoperte da tende che rispondono spesso al bisogno di “origliare”, un verbo assai ricorrente nell’opera ibseniana (sebbene storicamente mal tradotto in italiano, ci ricordava lo studioso), attribuendo solo alla fine della lunga stagione di teatro borghese un tentativo, da parte del drammaturgo, di sfuggire alla scatola scenica del salotto. Ed è vero che gli spazi propriamente aperti arrivano abbastanza tardi (pensiamo all’ultima scena del Borkman, con le tre figure dei protagonisti immerse nella neve in una radura nel bosco, sullo sfondo di un ampio paesaggio di fiordo: Munch ebbe a dire che Borkman rappresenta il più straordinario paesaggio nordico innevato che sia mai stato ritratto), ma mi pare altrettanto vero che i salotti e gli interni, pur restando protagonisti indiscussi, presentano puntualmente un altrove, un punto di fuga. Fin dai primi drammi del ciclo. In qualche caso, come in Una casa di bambola o in Un nemico del popolo, prevale certamente il senso di claustrofobia degli interni, con stanze che danno su altre stanze, salotti che danno su studi privati, porte che lasciano intravedere tavole apparecchiate in sala da pranzo. Ma più spesso in questi salotti oltre a sedute, poltrone, e oggetti tipici della vita borghese, vi sono numerose finestre che danno su esterni più o meno sconfinati, su “grandi, secolari alberi di un viale che conduce alla tenuta” (Rosmersholm), o che lasciano intravedere “una veranda esterna coperta e alberi fronzuti dal fogliame autunnale” (Hedda Gabler). Ne Le colonne della società c’è un fondo ampio di vetro specchiante da cui si vede il giardino della casa, un’ampia scalinata, una staccionata e ancora oltre casette di legno dipinte e perfino gente che fa spese alle botteghe, mentre in Spettri “attraverso le vetrate si scorge il tetro panorama d’un fiordo, offuscato da una pioggia battente”; e un fiordo “con in lontananza catene di elevate montagne e vette” s’intravede fra gli alberi anche dalla grande veranda in cui è ambientata la prima scena della Donna del mare.

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C’è una relazione tra il dentro e il fuori che sembra fare eco a quel rapporto tra sé e il mondo, tra la propria interiorità, con tutto il suo carico di fantasmi, scoperte e mutamenti, e il tentativo (spesso fallimentare) di accordarla ai dati di realtà, alla vita pubblica e alle dinamiche della Storia, che mi sembra essere il leit motiv di fondo di tutta l’opera ibseniana, anche di quella precedente ai drammi borghesi. È l’autore stesso a spiegare, in una lettera del 1887 a uno studente, riportata nell’appendice del volume curato da Perrelli, che Rosmersholm, come molti hanno ben interpretato, è un’opera sul destino e sull’eredità morale (racconta infatti la vicenda del Pastore Rosmer e del suo fallimentare tentativo di prendere le distanze dalla sua eredità sociale, famigliare e religiosa) ma oltre a questo “tratta della lotta che ogni rigoroso essere umano deve sostenere con sé stesso per accordare la propria condotta di vita con ciò che viene a conoscere”. “Le differenti funzioni intellettuali – chiarisce poi Ibsen – non si sviluppano uniformemente e proporzionatamente in ciascun individuo. La pulsione appropriativa spinge avanti di guadagno in guadagno. Il senso morale, la coscienza, è al contrario molto conservatore. Ha le sue radici profonde nelle tradizioni e in generale nel passato. Da ciò scaturisce il conflitto individuale”. In una lettera di alcuni anni prima a sua sorella Hedvig aveva detto “Io scruto in me stesso; lì è il mio campo di battaglia, dove qualche volta vinco, qualche volta sono battuto”. E prima ancora, in Catilina (il suo primo dramma, del 1848-49) aveva affermato che “la vera lotta è tra le forze antagoniste dello spirito”, chiarendo poi in una prefazione per la riedizione nel 1875 che il punto dell’opera era proprio “il conflitto fra capacità e aspirazioni, fra volontà e possibilità” dei suoi personaggi. E qui torniamo alla preziosità di questo nuovo Meridiano, arricchito da un’appendice di documenti spesso inediti in Italia (tra cui molte lettere e una versione preliminare di Una casa di bambola) che ci aiutano a capire non tanto come leggere Ibsen, perché quello non avrebbe potuto dircelo neppure l’autore in persona, ma che vale la pena continuare ad accerchiarlo e a leggerlo più e più volte, lasciando solo come note a margine lo schema e il mito che ci sono stati tramandati.

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TAGGED: Henrik Ibsen