Fabrizio Gifuni: Volonté, la purezza del mestiere
Fabrizio Gifuni è nato a Roma nel 1966. Con Gian Maria Volonté (1933-1994) ha in comune la frequentazione dell’Accademia Nazionale d'Arte Drammatica Silvio D'Amico e il ruolo di Aldo Moro. Ha curato regia e drammaturgia dello spettacolo teatrale Con il vostro irridente silenzio, costruito sulle lettere e sul memoriale di Moro, e ha interpretato il grande statista nel film Romanzo di una strage (Marco Tullio Giordana, 2011) e nella serie tv Esterno notte (Marco Bellocchio, 2022). Per lui come per i suoi compagni di Accademia (Pierfrancesco Favino, Luigi Lo Cascio, Alessio Boni) Volonté è un mito e un punto di riferimento.
Non hai conosciuto Volonté, vero?
Purtroppo no. Sono uscito dall'Accademia nel ’92 e nel ‘94 lui è morto. Stavo facendo il mio primo spettacolo teatrale, Elettra di Euripide con la regia di Massimo Castri a Spoleto, e quando è arrivata la notizia della morte di Volonté, pur non avendolo mai conosciuto, ho sentito l'impulso di partire di notte e di andare a Velletri, per i funerali. Lo sentivo come un maestro che non avevo mai conosciuto. Mi sarebbe piaciuto chiedergli un sacco di cose che forse non mi avrebbe mai detto. Ai tempi dell’Accademia ero “addicted” di Volonté. Vedevo i suoi film in continuazione e cercavo di vedere tutto quello che non avevo visto. È una miniera, un manuale vivente su cosa significhi fare questo lavoro. Anche dal punto di vista sociale. Per lui fare questo lavoro significava avere anche una coscienza profonda del momento storico in cui ci si muoveva. Cosa vuol dire fare questo lavoro negli anni ’60, o poi negli anni ‘70? Che cosa posso fare io? Il mio lavoro è soltanto un atto creativo o può incidere sul sociale?
Volonté ha combattuto per ottenere dei riconoscimenti a un lavoro su cui c'è sempre stato un grande equivoco in questo paese: che non fosse una vera professione. Diceva: «Non c'è cinema politico, tutto il cinema e tutto il teatro sono politici perché instaurano un rapporto con la polis». Che tu ne sia cosciente o no, stai facendo comunque un gesto politico. Lui, poi, era immerso in un’epoca – dalla metà degli anni ‘60 alla fine degli anni ‘70 – nella quale tutto era politico, tutto andava letto in una chiave politica italiana e internazionale. Mi sono domandato spesso quanto questo gli piacesse davvero fino in fondo, o quanto lo sentisse come una costrizione. Per un attore che tentava di sfuggire in tutti i modi alle etichette, essere “impegnato” era una cosa che in fondo gli andava stretta. In alcuni momenti probabilmente ha giocato questo ruolo credendoci fino in fondo. Altre volte ha cercato di liberarsene. Ma l'epoca è molto importante, perché l'atteggiamento di Volonté dagli anni ‘80 fino alla morte è completamente diverso. Come tutti, ha vissuto lo spaesamento del dopo Moro, quando si entra nel decennio del riflusso e del disimpegno. I vecchi partiti e le vecchie ideologie iniziano ad agonizzare, e lui fa in tempo a vedere la fine della Prima Repubblica. Muore nel ’94, vede Tangentopoli e la discesa in campo di Berlusconi. Non sappiamo che tipo di impegno avrebbe avuto dal 2000 a oggi, ma il suo tempo, e la stagione cinematografica che ha vissuto, sono irripetibili.
Quando hai visto un suo film per la prima volta? E quale film era?
Ho visto Indagine in televisione, avrò avuto 15-16 anni. Era la prima volta che vedevo un attore italiano fare delle cose che mi spingevano a chiedermi: ma come fa? Un'emozione primaria. La stessa del primo spettacolo teatrale che ho visto in vita mia: Eduardo in Natale in casa Cupiello. Non ero più in teatro, ero nella camera da letto di Luca Cupiello, non so perché mi avevano fatto entrare e lo spiavo. Vedendo Volonté capivo anche che c'era del divertimento. Un gioco attoriale che riusciva a trasmettere senza distogliere l'attenzione dal personaggio e dal racconto. L'espressione più alta di una “teatralità cinematografica”. Mi sentivo come un bambino che vuole rompere il giocattolo per vedere come è fatto dentro: le molle, le viti, perché si muove così. Io avrei voluto rompere il televisore…
Poi ho visto La classe operaia e Todo modo. Todo modo mi ha sconvolto. È veramente un film perturbante. L'ho visto molti anni dopo la morte di Moro alle tre o alle quattro di notte perché era un film tabù. I due Moro, quello di Todo modo e quello di Il caso Moro di Giuseppe Ferrara, andrebbero studiati in tutte le scuole di cinema, fotogramma per fotogramma. Sono il racconto pubblico e privato di un attore, di un uomo, di un'epoca storica. Volonté ha incarnato la morte di Moro prima della morte di Moro nel film di Petri, e l'interpretazione struggente, minimale, tutta in sottrazione che fa nel film di Ferrara è una specie di risarcimento inconscio. Gli ha restituito l'umanità, la sofferenza. Moro si era fatto proiettare Todo modo e dopo, parlando con un suo collaboratore, gli disse: «È disgustoso, ma inevitabile». Moro aveva una profonda coscienza di quello che rappresentava, sia lui sia il suo partito, e tentava disperatamente di governare con la ragione pulsioni e forze del tutto irrazionali. Il suo disegno politico era un tentativo di ricomporre il paese e di evitare che esplodesse una violenza inaudita che poi fatalmente colpì lui come unica vittima. È un capitolo di storia italiana che diventa storia cinematografica attraverso queste due interpretazioni.
Quelle due interpretazioni sono state importanti per te, quando hai interpretato Moro prima a teatro, poi al cinema?
Sapevo quei due film veramente a memoria. Ma prima di girare Esterno notte con Bellocchio non li ho rivisti. Volutamente. Rischiavo di rimanerne schiacciato. Ho cercato di non pensarci mai. E credo, tutto sommato, di aver fatto un lavoro molto diverso.
Sua figlia Giovanna racconta che in casa, mentre girava Il caso Moro, era “diventato” Moro e lo chiamavano “Presidente”.
È successo anche a me. A casa mi imploravano di uscire da quel corpo di cui non mi rendevo assolutamente conto. Le mie figlie mi dicevano: papà, smetti di parlare in questo modo, e a me sembrava di parlare normalmente. Oppure: basta tenere la testa così, vuoi raddrizzare la testa? E io: ragazze, non capisco di che parlate. Uno si perde, si smarrisce. Va a finire chissà dove. E capisco bene perché Volonté non ne parlasse volentieri. La promozione, il dover spiegare le cose, è un aspetto molto faticoso di questo lavoro. Invidio gli americani che la fanno così bene. Se si guardano le interviste di Volonté durante la promozione dei suoi film, diceva tre sillabe ogni tre minuti, stava in silenzio e alla fine rispondeva «non lo so». A volte mi chiedo perché non sia stato più generoso nel raccontarsi. Ma credo che abbia fatto bene.
Cosa gli avresti chiesto, se lo avessi incontrato?
Avrei tentato di farmi spiegare il suo metodo di lavoro. È molto difficile parlarne, perché Volonté è stato estremamente parco nel rilasciare interviste e dichiarazioni che fossero legate alla sostanza del suo lavoro. Credo tenesse molto a preservare un mistero. È un lavoro fatto di molte tecniche e di molte discipline messe insieme, che ha a che fare con l'anima, con l'emozione, con la restituzione di qualcosa di difficilmente descrivibile. L'idea che ci si può fare guardando i suoi film è che lui fosse estremamente attento a quale fosse la natura del film, partendo dalla sceneggiatura. Volonté è un attore novecentesco che si forma in maniera novecentesca, non soltanto all'Accademia d'Arte Drammatica Silvio D'Amico, ma prima con l'esperienza dei carri di Tespi e successivamente con il teatro di strada. Quindi ha una formazione molto attenta al testo, alla parola e alla sceneggiatura. Il suo essere solidamente novecentesco gli permetteva di usare pratiche di lavoro molto antiche. Pensiamo a quella di ricopiare a mano i copioni, una pratica antica e molto più teatrale che cinematografica. Credo che la sceneggiatura fosse per lui un punto di partenza imprescindibile. Poi iniziava a pensare alla regia, cioè quello che lui definiva “il sistema di segni”: chi sarà dietro la macchina da presa, quale sarà il suo sguardo. Qui c’è un paradosso: Volonté, uno degli attori più autonomi e con l’approccio più creativo alla recitazione, era molto rispettoso della regia. Aveva un assoluto bisogno di creare un rapporto di complicità. Spesso questo rapporto era fatto di conflitti, ma alla base c'era un’esigenza di condivisione. Pur avendo sviluppato una tecnica di lavoro forse ineguagliabile, aveva una grande umiltà nel perseguire un lavoro creativo condiviso. Credo che non abbia mai pensato di avere le chiavi di un metodo di lavoro, ma che abbia usate queste tecniche come una forma di artigianato. Non c'è una chiave che apre tutte le porte. Volonté lavorava con Elio Petri in un modo, con Francesco Rosi in un altro, con Sergio Leone in un altro ancora. Ogni interpretazione, pur essendo riconoscibile, è un capo d'opera, una cosa assolutamente a sé stante. In tutte le situazioni tirava fuori dalla sua valigia misteriosa degli strumenti molto diversi, ma che erano quelli giusti per costruire il personaggio. Lasciava un marchio inconfondibile non soltanto grazie alla sua fenomenale capacità mimetica, ma anche per il suo modo sempre diverso di entrare nella pelle di un personaggio. È riuscito ad esprimere una modernità di lavoro incredibile e a raggiungere vette altissime anche rispetto alle altre scuole, come la scuola americana improntata al metodo di Lee Strasberg. C'è il famoso racconto di Dustin Hoffman che, ritirando un Telegatto, rivela che i grandi attori americani studiavano i film di Volonté perché non riuscivano a capire come lui, non avendo frequentato l'Actors’ Studio, potesse fare quelle cose meglio di loro, pur venendo da una tradizione completamente diversa.
Quale pensi sia l'elemento di fondamentale differenza tra questi due approcci, quello personalissimo di Volonté e quello più codificato del metodo?
Arrivava a un livello di interiorizzazione che era il risultato di un processo molto lungo. Non è un caso che a un certo momento della sua vita Volonté fosse diventato troppo ingombrante per il cinema italiano, e quindi lavorasse meno, anche perché le offerte non erano più quelle degli anni ’60 o ‘70. Ma credo fosse anche una scelta necessaria, quella di distanziare un film dall'altro: ogni interpretazione richiedeva un tempo molto lungo di preparazione. Quel processo di interiorizzazione che porta a una verità emotiva è molto vicino al lavoro dei grandi attori di scuola strasberghiana. La differenza è che Volonté porta in dote una tradizione italiana legata al teatro, e quindi alla parola. Un aspetto fondamentale è il lavoro di Volonté sulla lingua italiana. Con Petri, usa i dialetti in un modo che fino a quel momento era tipico della commedia, perché il cinema italiano aveva capito che i dialetti avevano un potenziale comico eversivo. La commedia all'italiana è fortemente innervata di dialetti. Petri e Volonté scommettono su un uso del dialetto in chiave drammatica. O meglio, in quella chiave unica che era il cinema di Petri, un'iperrealtà più vera del vero che aveva connotati di grande teatralità e mascheratura. Questo ha portato in dote alle generazioni successive un grande insegnamento: un attore italiano non può non porsi il problema linguistico. Il lavoro sulle lingue e sui dialetti non significa solo “avere orecchio” (anche se lui l’aveva, un orecchio straordinario) e riprodurre mimeticamente un dialetto, ma anche inventarne di nuovi. Se pensiamo alla lingua borbonica delle questure in Indagine, non è un siciliano reale, è un siciliano inventato da Petri e da Volonté.
Spesso, magari partendo dal loro straordinario incontro in Todo modo, si mettono in contrasto i “metodi” di Volonté e di Mastroianni…
Si dice sempre, in modo riduttivo, che ci sono due scuole: gli attori che scompaiono dietro ai personaggi, e gli attori che riportano il personaggio a sé stessi. E si citano sempre Volonté e Mastroianni come i due giganti di queste due scuole. Mastroianni era sempre Mastroianni, pur regalando ogni volta un'interpretazione diversa. Ma non è davvero così. In realtà erano due modalità diverse di raccontare il proprio lavoro. Volonté si raccontava pochissimo. Mastroianni ha rilasciato tantissime interviste e ogni volta parlava della recitazione con grande nonchalance, come se fosse tutto un po’ casuale. Andava da Fellini e gli chiedeva: Federico, che devo fare? E Fellini: Marcellino, fai così e così, e lui faceva quelle cose che magicamente diventavano memorabili. Invece Volonté era quello che si era fatto costruire una cella uguale a quella di Aldo Moro e ci si era rinchiuso per mesi. Ma sarà tutto vero? Questi aneddoti saranno veri? Io dico che noi attori di oggi abbiamo avuto la fortuna di avere questi due prototipi. Si sono incontrati una volta sola in Todo modo e Volonté ha detto una cosa fondamentale: guardate che non è vero che Mastroianni non studia, studia tantissimo. Sono modelli complementari, averli entrambi nella memoria del nostro cinema è bellissimo.
Sempre Giovanna, la figlia, sostiene che il dolore è stato uno dei suoi motori di creatività. Le vicende del padre e del fratello hanno provocato delle grandi sofferenze nella sua vita. Secondo lei sono elementi a cui ha attinto di volta in volta nelle sue interpretazioni.
Gli artisti che hanno lasciato un segno, in qualsiasi tipo di arte, hanno sempre attinto alle proprie ferite. Forse il privilegio più grande di questo lavoro è proprio la possibilità di trasformare le proprie ferite in bellezza. Genet, quando va a visitare Alberto Giacometti a Parigi, esce e scrive L'atelier di Giacometti con due righe che dicono: «Non c'è per la bellezza altra origine che la ferita». Volonté lavorava sempre sul dolore e sulla sofferenza come materia creativa. È la parte veramente misteriosa di chi fa questo lavoro, e lavora con una materia che è la propria vita fatta di sofferenze, di ferite, di gioie, di dolori, di traumi profondi. Il lavoro dell'attore è l'invenzione di un “altro”, di un personaggio. Volonté è stato uno dei pochi attori italiani a regalare una galleria di personaggi che camminano in maniera diversa, che respirano in maniera diversa, che parlano in maniera diversa... ma sono sempre Volonté.
Sei quindi d'accordo con quello che disse [Giuliano] Montaldo, che si può osservare la carriera di Volonté come il percorso di un grande regista?
Credo che non sia un caso che non abbia mai sentito la necessità di passare dietro la macchina da presa, se non per dei lavori documentaristici di militanza politica. A differenza di tanti suoi colleghi è rimasto un attore puro. Il suo era un percorso assolutamente autoriale, volto a costruire quello che chiamava “il contributo linguistico”, che partiva dalla sceneggiatura ma che diventava materia viva. Dava ai film un contributo intellettuale a volte anche ingombrante, quando non richiesto. L'aneddotica sul Volonté degli esordi è piena di racconti su questo attore che spesso veniva considerato un grande rompiscatole. Chiedeva conto e ragione delle virgole, del periodare della frase, del perché si facesse una certa inquadratura… sicuramente c’era anche una componente di forte provocazione. Probabilmente chiedeva a tutti la stessa serietà, la stessa dedizione e lo stesso impegno che ci metteva lui, e poi cercava una condivisione che non sempre veniva accettata.
Sul set il regista è il capitano che deve condurre la nave in porto e che, un po' come Acab in Moby Dick, lotta contro tutti. Non sempre i registi apprezzano gli attori che pretendono di sapere tutto… Volonté diceva che i registi si dividono in due categorie: quelli che mettono la macchina sul set e poi chiamano gli attori, e quelli che chiamano gli attori, provano con loro e poi decidono dove mettere la macchina. Forse è una semplificazione, ma credo intendesse che quando c'era una partecipazione al momento creativo lui si sentiva più coinvolto. Quindi, sì, era un autore. Se esiste la figura dell'attore-autore, è lui. Lo era soprattutto nello scegliersi i ruoli. Ad esempio, non è un caso che abbia incontrato Sciascia diverse volte: A ciascuno il suo, Todo modo, Una storia semplice e naturalmente Porte aperte. Sciascia aveva la stessa asciuttezza, il suo essere tagliente e di poche parole; la capacità di ridurre la questione all'osso e non sbrodolare troppo.
Perché Volonté, e proprio Volonté, è un punto di riferimento per tutti gli attori della tua generazione?
Perché ha forzato alcune serrature e ha cercato di dimostrare sul campo che questo è un lavoro in cui si può scegliere. Volonté smaschera qualsiasi alibi. Si dice spesso: gli attori all'inizio devono fare tutto. Perché? Va bene: devono fare esperienza, si devono mantenere… ma Volonté ai tempi dell’Accademia dormiva in macchina perché non aveva una lira. Eppure ha scelto subito che cosa voleva fare e che cosa non voleva fare. Pensiamo al mancato incontro di Volonté con la commedia, a parte L’armata Brancaleone. In ogni personaggio lui metteva la propria esistenza, che è fatta di comico e di drammatico. Non ci sono personaggi drammatici e personaggi comici: ci sono le persone, e spesso Volonté portava tratti di umorismo raffinatissimo anche in storie drammatiche. Indagine è un compendio: per come lui inventa il “dottore”, si ride continuamente all’interno di una storia drammatica. Volonté era uno di quegli attori per i quali, a ogni film, ti chiedevi: vediamo cosa si inventa stavolta, vediamo come respira, vediamo com’è il timbro della voce. Mi è capitato con pochi attori, ad esempio con Philip Seymour Hoffman, che mi piaceva immensamente. Non aveva paura di cambiare il timbro della voce, che è sempre un rischio. Quando un attore cerca di cambiare il timbro, può diventare finto. La voce è un elemento inconfondibile. Ma poiché Volonté creava ogni volta dei prototipi, la voce era una variabile: doveva trovare un modo diverso di parlare, di respirare, di camminare. Del resto non si può condannare un attore a essere prigioniero del proprio corpo.
In questo è stato fondamentale l'insegnamento all’Accademia di Orazio Costa, un grande pedagogo, forse l'unico uomo che ha dedicato tutta la vita a cercare di capire quale sia la natura di questo lavoro. La prova tangibile della grandezza di Costa è che ha formato attori e attrici che hanno preso strade completamente diverse: Carmelo Bene, Gian Maria Volonté, Paolo Panelli, Tino Buazzelli, Monica Vitti, Anna Marchesini… Costa diceva: «A me non importa niente di che tipo di attori volete diventare. Quello è un problema vostro. Io mi preoccupo del riavviamento all'espressione, cioè riportare nel vostro corpo e nella vostra voce, che sono una cosa sola, le potenzialità che sfruttano i bambini fino ai quattro-cinque anni di vita, quando tutto ancora è possibile e quando l'indistinto polimorfo può fare qualsiasi cosa, può diventare il vento, l'albero, un temporale, un cane, senza il condizionamento da parte della società, della scuola e della famiglia che interviene verso i cinque-sei anni e progressivamente stringe le tenaglie sul corpo del poverino, che deve essere civilizzato per stare al suo posto nella società». Chi decide di recitare in età adulta ha già perso l’istinto che a ciascun essere umano è dato, e lo deve recuperare. Io ho avuto la fortuna, con i miei compagni di corso, di ritrovare Costa dopo tanti anni: era stato mandato via dall’Accademia negli anni ‘70 perché era un vecchio dinosauro da abbattere; è tornato nei primi anni ‘90 e noi l’abbiamo avuto come maestro. Il suo era un insegnamento di assoluta libertà. E Gian Maria Volonté, in una delle pochissime interviste sul proprio lavoro, ha detto: «Ho avuto un grande maestro, Orazio Costa, a cui devo il modo in cui ho imparato a leggere i testi e le sceneggiature». Vedendo la capacità mimetica di Volonté, vedo proprio l'insegnamento di Costa: l'istinto mimetico, il poter diventare qualsiasi cosa.
Alcune parti di questa intervista, realizzata da Francesco Zippel e Alberto Crespi, sono state incluse nel documentario Volonté – L’uomo dai mille volti, diretto dallo stesso Zippel nel 2024. La versione integrale del testo, trascritto da Alberto Crespi, verrà pubblicata sul numero 610 di “Bianco e Nero”, quadrimestrale del Centro Sperimentale di Cinematografia edito da Edizioni Sabinae, interamente dedicato a Gian Maria Volonté in occasione del trentennale della scomparsa (6 dicembre 1994). Ringraziamo la direzione della rivista e gli autori dell’intervista per averne consentito la pubblicazione in anteprima su “doppiozero”.