Paolo Nori, Raffaello Baldini: dire/svelare
In questi giorni, mentre leggevo Chiudo la porta e urlo (Mondadori, 2024), alzando gli occhi verso la finestra, mi capitava di rimanere incantato a osservare le evoluzioni degli uccelli di passo. Finché, d’improvviso, mi sono trovato di fronte la chiave che cercavo. Tra il modo di scrivere di Paolo Nori e i movimenti elastici e imprevedibili degli storni c’era una perfetta corrispondenza. In una pausa prima di sera, quegli uccelli, che avevano davanti a sé alcune migliaia di chilometri da compiere per raggiungere le coste dell’Africa, si perdevano nelle movenze di una danza: uno spericolato lasciarsi e riprendersi che sembrava non avere fine.
Non sono un esperto. Non so perché quegli uccelli si sfianchino in quel girare a vuoto: se è un modo per saggiare le proprie forze durante una sosta o per tastare la propria capacità di coesione. Sta di fatto che, con le figure in continua evoluzione che disegnano nel cielo, quegli esseri alati declinano insieme libertà e disciplina, trasmettendo a chi li guarda un godimento che sa di felicità (termine, questo, che a Nori fa venire l’orticaria, per via delle sue origini; che poi non sono così lontane dalle mie, anch’esse estranee all’uso di quella parola; ma tant’è). Insomma quegli svoli repentini nel cielo non sono molto diversi da quelli in cui si è immersi leggendo il libro dedicato a Raffaello Baldini di cui sto parlando.
Anche Nori, nello scrivere, sa bene dove deve arrivare: dire/svelare cose appropriate su questo grande poeta di Santarcangelo di Romagna. Questo non gli impedisce di compiere le evoluzioni più mirabolanti che in apparenza non hanno a che vedere con l’oggetto al centro della trattazione ma che in realtà sono perfettamente calibrate sull’obiettivo finale: prendere fiato in soste-surplace fatte di attimi per far emergere, d’un tratto, elementi essenziali della persona e della poesia di Baldini.
Questo modo di procedere a cui Nori ci ha abituato – e che annovera tra le sue perle i libri su Anna Achmatova e Dostoevskij – risponde a un’istanza morale. Così come, nelle figure plastiche in continua metamorfosi, gli stormi sembrano presentarsi e dire: «Ecco: noi siamo gli uccelli di passo», Nori, prima di entrare nel vivo della materia, si sente in obbligo di dire «Ecco: l’autore di questo libro è fatto così, con questa pasta, con questa storia, con questi limiti». Senza questi svoli, il volo principale (il suo, anzi i suoi, viaggi in Africa, cioè verso Baldini), secondo Paolo Nori, sarebbe un atto insieme di omissione e di arroganza.
Siamo a una implicita dichiarazione di poetica: il narratore, se vuole raccontare cose dotate di senso e se vuole essere credibile, nel prendere la parola, deve mostrarsi per quello che è. Senza infingimenti. È una impostazione che implica una rilevante questione filosofica: ha a che vedere con i rapporti fra soggetto (che conosce e racconta) e realtà (conosciuta e raccontata). E su questo Nori ha le idee chiare: senza che sia fatta chiarezza sui termini di questo rapporto – e in particolare su chi prende la parola come voce narrante –, ogni narrazione rischia di perdere credibilità.
I risultati danno ragione all’autore. Denudandosi, Paolo Nori può prendere la parola sul grande santarcangiolese e dire la sua con pagine illuminanti.
Nel libro, peraltro, si incontrano due modalità narrative – quella di Nori e quella di Baldini – che hanno elementi in comune. Spesso nei monologhi – si tratti di poesia o dei testi teatrali – i personaggi messi in scena dall’autore di La naiva (La neve) sembrano perdersi nella chiacchera, quasi un parlare a vanvera che avvolge il locutore, come il baco da seta avvolge il proprio corpo nel filo che gli esce dalla bocca. Baldini, con quel filo fatto di parole, cerca – riuscendoci mirabilmente – di avvolgere l’impenetrabile, il mistero, per poter liberare d’un tratto, in chi legge o assiste alla recita, la farfalla del senso. O, meglio ancora, di una ulteriore interrogazione. Che, in Raffaello, ha, credo, il significato ultimo di una preghiera (che non ha mai fine).
Basta del resto ascoltare le registrazioni fatte da Simone Casetta. Baldini, che pure ha ben coscienza di prendere voce su un palcoscenico, sussurra come se parlasse alla grata di un confessionale. Il boccascena di questo teatro ideale è quella grata e noi siamo collocati, senza volerlo e saperlo, nella posizione del confessore. Con un trucco: che ‘i peccati’ di cui si parla sono non solo del soggetto che ha la parola, ma riguardano tutti coloro che, protetti dalla grata, pensano di non averci a che fare: di stare a sentire cose che riguardano altri, per lo più astutamente presentati dall’autore come “coglioni”. Qui sta l’artificio più sottile di Lello: quella capacità di lasciare in chi ascolta un retrogusto destinato a scavargli dentro, ben oltre il tempo della ‘confessione’ in cui lui direttamente o, più spesso, i suoi personaggi prendono la parola.
Nel suo procedere avvolgente, Nori mette in luce tre temi cruciali della poesia di Baldini: la coglionaggine (con cui il santarcangiolese può ragionare in modi spesso esilaranti sulla condizione umana e sulle nostre presunzioni), la morte e l’amore. Su questi nodi Chiudo la porta e urlo ha pagine molto belle, facendo incontrare un romanzo (che ha ben poco del romanzo, per come lo abbiamo fin qui conosciuto) con un poeta la cui poesia (spesso sublime) ha ben poco di quello che i più pensano sia la poesia.
Personalmente, aggiungerei un quarto tema che comprende tutti gli altri: la musica. Baldini sceglie di scrivere nella lingua locale di Santarcangelo non solo perché mette in scena quel mondo (non senza trasfigurarlo quel tanto per cui il locale diventa universale, avendo Kafka, Beckett e Bernhard come maestri), ma perché quella lingua, che ha coltivato dentro di sé nella giusta distanza spazio-temporale e di cui conosce a fondo caratteristiche e potenzialità – ma soprattutto la musica interiore – gli fa da guida. Il dialetto è il suo “duca” (nel senso dantesco).
Ma c’è anche un quinto tema: il carattere scaltro tipico delle lingue borghigiane, una prerogativa che proprio nella parlata di Santarcangelo tocca una delle sue vette. Questo dialetto plasmato nei secoli sembra il condensato di un manuale pugilistico. I dittonghi – prèima per dire prima, alòura per dire allora, ecc. ecc.) hanno il carattere delle mosse per schivare sul ring i colpi dell’avversario, ovvero della realtà, non senza che si rinunci al gusto di assestare colpi a tradimento. Non per cattiveria, ma così: tanto per non passare da coglione. Colpi, che se non possono prendere a pugni il destino che ti è riservato, trovano modo di sfogarsi su chi, come te, vive la vita del borgo. Da cui la pretesa di distinguersi, che diviene uno dei bersagli del Nostro. In prove tanto spassose quanto magistrali.
Si spiega così perché Baldini esordisce a 52 anni. Dopo aver tentato in gioventù la strada del teatro, della filosofia e dello scavo teologico, solo in età avanzata egli trova la postura e il tono per prendere la parola in pubblico. A parte un gruppo di poesie liriche (rare, di grande tenuta, con un registro a sé), il grosso della sua produzione in versi e nel monologo teatrale ruota attorno alla sprovvedutezza che contraddistingue la gran parte delle persone, il poeta in primis. Ecco allora perché il borgo-teatro di Santarcangelo è eletto da Baldini a luogo ideale delle sue messe in scena. In una metropoli i coglioni e i pataca si confonderebbero nella massa informe, in un teatro difficile, quando non impossibile, da mettere in scena. Configurato il luogo reale e ideale in cui è possibile l’accadere della poesia, Lello può fare faville. Da inimitabile surfista della parola.
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