Umberto Fiori: evidenza e mistero
Le case vogliono dire (Manni 2023) – secondo volume della promettente collana “La pantera profumata” diretta da Antonio Prete – è un commento equilibrato di Umberto Fiori alla propria opera poetica: una sorta di ricapitolazione che consente di vedere con maggiore chiarezza nella sua cospicua produzione dal 1986 a oggi.
Il poiein di Fiori muove dalla necessità di sottoporre il quotidiano a esplorazioni insistite per rinvenire nel continuum dell’esperienza – la consuetudine vissuta come gabbia – disconnessioni, fessure, varchi in cerca di illuminazioni. Di ciò che manca.
Si inizia spesso con una sorta di verbale, quando non con un referto. A redigerlo è il poeta che prende la parola da un luogo inconsueto, come se parlasse da una soglia dove il vivo e il morto sono faccia a faccia. Questo infonde al dettato una prerogativa insolita, insieme di lontananza e prossimità, di definitivo e provvisorio.
L’autore abitua il lettore a un eloquio “petroso”, a modi scontrosi, o comunque permeati di diffidenza. Così, mentre butta lì, davanti a chi legge, le sue propensioni o suoi aspetti caratteriali (non importa fino a che punto reali o se solo percepititi soggettivamente e volutamente accentuati), il poeta fa del tono un punto quanto mai caratterizzante il suo prendere la parola.
Si tratta, in tutta evidenza, di una inclinazione della voce (elemento assai rilevante in poesia) in cui, come vedremo, affiora una postura attorale. Riguardato con distacco, il tono, in questo caso, risulta anche funzionale a un congegno retorico che punta a diversi obiettivi: far convivere punti di vista differenti, creare profondità di campo, acquisire incisività, far irrompere sulla pagina qualcosa di imprevedibile.
Come il pescatore pastura le sue prede per farle abboccare all’amo, così Umberto Fiori porta il lettore in situazioni tratte dalla quotidianità per farlo cadere nella rete dell’inaspettato. Che il più delle volte consiste in un rovesciamento dell’ordinario nello «straordinario» (p. 52), così da fare di questo una sorta di rivelazione.
Ma l’artificio retorico è ancora più complesso: il personaggio ruvido in cui il poeta raffigura sé stesso, mentre si presenta chiuso in un guscio-corazza, si rivela vulnerabile all’inatteso. Il varco non è nella realtà, ma dentro il soggetto poetante. E questo apre la strada al possibile prendere corpo di una sintonia tra il poeta e il lettore: il reciproco riconoscersi di fronte allo svelarsi di elementi della condizione umana.
Ogni componimento è concepito come un campo di forze. Una sorta di telaio relazionale.
Il poeta assume il ruolo di dramatis persona. Lo potremmo chiamare, alla Kafka (autore molto caro a Fiori), il Locutore. In questa veste, il poeta prende la parola in un teatro popolato da altre figure, spesso maschere tipizzate, che hanno la funzione di attribuire a quanto va in scena una dimensione collettiva: un «essere in comune» (p. 39), che nella poesia del Nostro assume valenze per nulla pacificate. Nella «dialettica fra individuo e collettività» (p. 59) irrompono infatti, sapientemente inscenate, alterità spesso irriducibili.
È evidente l’intento di evitare che l’eloquio assuma l’andamento lineare di un monologo monocorde. Così come si tocca con mano la preoccupazione di togliere di mezzo ogni discorso a tesi e, ancor più, di evitare la retorica dei buoni sentimenti. Il tutto è sorretto da una regia accorta che punta a far entrare nel teatro anche il lettore/spettatore.
Le stesse conclusioni a cui il testo sembra talora approdare vengono per lo più presentate con relativo distacco: come prese di posizione personali del Locutore. In tal modo viene salvaguardato il carattere plurale e dialogico dell’azione teatrale, lasciando a chi legge la libertà di condividere o meno tali conclusioni.
Posto davanti a un impasto messo a lievitare, al lettore è riservata la possibilità di compiere l’ultimo atto (la cottura, per continuare la similitudine). Pervenire a un senso è un’opportunità che gli è lasciata in tutta libertà.
Tutto questo porta la poesia di Fiori oltre l’ambito della lirica. Nel succedersi delle raccolte (Case, 1986; Esempi, 1992; Chiarimenti, 1995; Parlare al muro, 1996; Tutti, 1998; La bella vista, 2002; Voi, 2009) – più complesso, ma non molto diverso, si fa il discorso se si guarda alle opere più recenti (Il conoscente, 2019 e Autoritratto automatico, 2023) –, il Locutore assume sempre più il ruolo di personaggio in scena, impegnato, fra l’altro, nella messa a fuoco impietosa di propri tratti identitari: uno scavo continuo su sé stesso che porta alla luce idiosincrasie, turbamenti, fobie, ossessioni; il tutto accompagnato da un senso di inadeguatezza e di «sprovvedutezza» (p. 62), fin sulla soglia della disperazione, in un tentativo, ben consapevole, di «lasciar sviluppare senza censure e senza inibizioni le tensioni più recondite, fino a portarle alle estreme conseguenze» (p. 67).
Non si tratta però di vaniloquio solipsistico: il poeta che si fa personaggio e si espone è comunque sempre collocato in un quadro di rapporti: gli si contrappongono l’altro, gli altri, gli animali, le cose (in specie le case) che irrompono sulla pagina – o se si vuole, sulla scena – con la forza dell’evidenza e, insieme, con l’impenetrabilità del mistero.
Un tema ricorrente, detto per inciso, è il contrasto fra la precarietà dell’esistenza umana e la durata delle case: una tenuta fisica ma soprattutto un resistere dei significati limpidi e oscuri di cui le case sono portatrici e in cui il poeta ama inoltrarsi e ‘naufragare’.
Il baricentro del poiein si sposta dunque dall’io dell’autore a una sfera teatrale dove la questione del rapporto con l’altro, con gli altri, diviene centrale. Fiori la affronta a suo modo: mescolando, per usare sue parole, «distanza e prossimità, ribrezzo e risentimento» (p. 40).
Il dissidio e le diversità irriducibili sono dei topos di questa poesia. Il poeta li mette in scena essenzialmente per mostrare come le pretese dei contendenti siano spesso prive di fondamento. Alla fine, precisa l’autore nel suo commento, «Il discorso di cui si parla (il lògos) emerge come qualcosa di inappropriabile; la ragione non si può avere» (p. 45, corsivo nel testo). La rappresentazione, poi, di sé stesso come una di «quelle bestie nere che dormono/ intorno ai capannoni industriali/ e se passi, si avventano di colpo/ sulla rete metallica» (Di guardia, in Chiarimenti 1995) è un modo, di rara efficacia, di porre la questione del nulla che spesso sta dietro ai conflitti che travagliano l’umanità, da quelli interpersonali alle guerre.
Variamente caratterizzato (ma in una gamma piuttosto contenuta), l’io del Locutore è presente come un basso continuo – un rimuginare tra il pessimismo, la diffidenza o la semplice constatazione – su cui si innestano temi musicali all’insegna dello scarto e della discontinuità. Si assiste così al formarsi di scostamenti nella traiettoria discorsiva in cui – come in certe fratture geologiche – si insinua un magma incandescente, ovvero il senso inatteso che il poeta va inseguendo. Un senso che può andare nella direzione dello stupore, ma anche della scoperta di verità nascoste in ciò che siamo portati a considerare ovvio o banale (Ludwig Wittgenstein è uno dei riferimenti del poeta).
Al tutto provvede un montaggio sapiente.
Quella di Umberto Fiori è una poesia a elevata densità di pensiero, sorretta da un “ragionare” in senso dantesco. Il poeta si spinge fin dove può in questa direzione, per rientrare a un certo punto, imprevedibilmente, nell’orizzonte concreto delle cose: nel loro dire/significare immediato e insieme misterioso. Evidenza e mistero si presentano così con tutta la forza possibile, ma in un impasto inestricabile. Riaffiora l’intenzione di evitare di approdare a esiti pacificanti.
C’è anche, implicito, una sorta di lavoro psicoanalitico. Ma, osserva l’autore, «Si trattava di andare oltre la mia personale psicologia, di attraversarla, di consumarla, per muoversi poi in direzione di un senso meno ristretto dell’immagine. Un senso che mi sembrava già – seppure oscuramente – di indovinare» (pp. 54-55).
Quell’attraversamento e quell’andare oltre il sé ridanno fiato alla fictio. L’autore pone davanti al lettore/spettatore una sorta di fortilizio (il suo comportamento chiuso e diffidente) che però viene conquistato non dalla forza ma dal suo contrario, in specie dalla gentilezza. In tal modo il varco che si crea nella corazza del poeta/personaggio rende più credibile e potente ciò che si intravede. Non un compimento (impossibile), ma una promessa: «Sento le piante crescere, sento la terra/ girare. Tutto mi sembra forte e chiaro, tutto/ deve ancora succedere» (Per Strada, in Chiarimenti 1995).
Nell’opera poetica di Umberto Fiori il quotidiano finisce per assumere una dimensione epica, come se il fatto stesso di affrontare la vita facesse di ogni persona un eroe.
Ma si tratta anche, in tutta evidenza, di un modo tutto speciale di immergersi nella realtà evitando al poiein di sfracellarsi in un impatto troppo diretto tra la parola e l’evento, tra la parola e la cosa.
Il personaggio del Locutore, raffigurato come prigioniero di una spirale autodistruttiva, viene salvato dalla sua stessa capacità di stupirsi entro un mondo che sente come ostile. Ma c’è dell’altro. Nel suo insieme questa poesia sembra muoversi in cerchio, in un movimento che non ha fine. A suo modo, non smette di pregare.