Anarchici, da Lugano alle Filippine

31 Marzo 2025

Addio Lugano bella o dolce terra pia/ cacciati senza colpa gli anarchici van via/ e partono cantando con la speranza in cuor. […] Ed è per voi sfruttati per voi lavoratori/ che siamo incatenati al par dei malfattori/ eppur la nostra idea è solo idea d’amor.

Addio Lugano bella è una famosa canzone scritta in carcere, nel gennaio del 1895, da Pietro Gori, importante esponente dell’anarchia italiana (fondò il periodico socialista-anarchico L'Amico del popolo e contribuì alla nascita di diverse Camere del lavoro), accusato di essere l’ispiratore dell’uccisione del presidente della Repubblica francese Carnot. La sua colpa? Essere amico e avvocato difensore dell’omicida, Sante Caserio. Trovò rifugio a Lugano e riuscì a sfuggire anche a un attentato. Ma il governo svizzero acconsentì al suo arresto e di altri diciassette rifugiati politici. Che furono infine espulsi dalla Svizzera. Canzone che prendiamo come spunto per arrivare alle Filippine di quegli stessi anni e alle lotte anticoloniali e per la libertà di allora grazie a un saggio recente, utile per guardare però anche all’oggi e alle nuove e vecchie forme di colonialismo e di nazionalismo/sovranismo.

Già, gli anarchici – una storia difficile e complicata, la loro. Non priva di tragici errori, ma anche ricca di grandi ideali. Sempre contro il potere, contro lo stato soprattutto e contro coloro che lo incarnavano. Sempre in rapporti difficili e conflittuali dentro l’Internazionale e poi con i partiti comunisti (basta pensare alla guerra civile spagnola). Anarchia dimenticata oggi e dimenticata è la sua essenza libertaria, con gli anarchici quasi sempre equiparati ai terroristi o ai delinquenti/malfattori, eppure oggi applicata a se stesso, ma in senso altamente virtuoso e positivo (positivista), dal capitalismo diventato anarco-capitalismo (quello di Musk e di Milei, per citare solo due nomi – senza dimenticare Murray Rothbard – che però non vengono equiparati a terroristi né a malfattori dello stato sociale e dei diritti umani, anche se dovrebbero esserlo).

Etimologicamente, anarchia significa an-archia, cioè contro o rifiutando ogni potere archico – per gli anarchici rappresentato soprattutto dallo stato, senza vedere gli altri poteri archici, oggi ben più archici dello stato, esistenti nel mondo. Potere archico contro cui combattere, dunque, che per gli anarco-capitalisti diventano la democrazia e lo stato di diritto e sociale/ambientale – così come ogni idea di giustizia e di uguaglianza e di libertà, di emancipazione e di liberazione dei lavoratori dallo sfruttamento – da abbattere appunto in nome del mercato (erroneamente creduto anarchico), in realtà in nome e per il profitto dell’oligarchia degli stessi anarco-capitalisti, tutto grazie alla tecnologia. Quindi, riprendendo Gori, il capitalismo non può essere in alcun modo definito anarchico, deterministicamente negando invece, nel suo farsi, ogni idea d’amor.

E oggi di anarchici classici si parla quasi esclusivamente a proposito di Alfredo Cospito, considerato appunto anch’egli un terrorista. Ma di anarchici si era in realtà parlato e scritto molto nel 1969 e negli anni a seguire, quando vennero accusati (Pietro Valpreda: ai giovani questo nome dice qualcosa?) di avere messo la bomba alla Banca nazionale dell’agricoltura di Milano; salvo poi scoprire che la Strage era di Stato e la bomba era stata messa dai neofascisti e dai servizi segreti deviati (davvero deviati?) dello stato, che invocavano una soluzione politica reazionaria contro le sinistre, l’Autunno caldo sindacale e il Sessantotto.

Ma l’anarchia è molto altro ed ha appunto una storia di più di due secoli. Michail A. Bakunin – il principale teorizzatore e attivista anarchico dell’Ottocento – la descriveva “come una “libera e indipendente organizzazione […] dal basso in alto, non agli ordini di una qualsivoglia autorità, anche se eletta, e nemmeno sotto le direttive di questa o quella teoria scientifica, ma in conseguenza dello sviluppo naturale di tutti quei bisogni che la vita stessa farà insorgere”. E conseguentemente: distruzione di tutti gli stati, annientamento della civiltà borghese come nemico di classe, creazione di un mondo nuovo di tutti gli uomini.

Per parlare di anarchia e di anarchismo, ma soprattutto di nazionalismo e di anticolonialismo (e dei relativi intrecci e delle relative contaminazioni, apparentemente impossibili – anarchismo e nazionalismo sembrano infatti confliggere filosoficamente e politicamente tra loro), è decisamente utile questo saggio, a cui facevamo riferimento più sopra, di Benedict Anderson, Anarchismo e immaginario anticoloniale, pubblicato da Elèuthera (pag. 446, € 24.00). Ma non solo di Filippine narra questo libro – anche se Anderson si concentra su quelle isole per averci vissuto per vent’anni (lui di origini anglo-irlandesi, nato in Cina nel 1936 e morto in Indonesia nel 2015, studioso del nazionalismo e conosciuto soprattutto per Comunità immaginate del 1983, immaginate ma utili alla costruzione di quella identità collettiva che serve appunto al nazionalismo) e per averle studiate a lungo, disponendo di molto materiale di archivio. Libro che ci dimostra soprattutto come scrittori, filosofi, attivisti politici, giornali e riviste culturali e soprattutto le idee di cambiamento avessero allora (seconda metà dell’Ottocento, lo ricordiamo) una diffusione molto maggiore rispetto al nostro oggi dominato piuttosto da un pensiero unico che nega ogni possibilità di mutamento e di miglioramento – e non ci sono alternative a questo sistema! è la sua propaganda incessante per la colonizzazione dell’immaginario collettivo e per farci adattare/rassegnare sempre a questo sistema di potere, anche quando chiama alla guerra e ad acquisire una mentalità bellica con il ReArmUE. Senza ovviamente dimenticare – le due cose sono strettamente intrecciate – la colonizzazione per la conquista di risorse naturali e infine di terre rare e simili, necessarie alle esigenze di profitto dell’industria/capitale.

j
Pietro Valpreda, photo di Tano DAmico.

Un libro, come ammette lo stesso Anderson, che è “un esperimento che prende le mosse da quell’ambito che Melville avrebbe definito astronomia politica, poiché prova a tracciare una mappa della forza gravitazionale esercitata dall’anarchismo sui movimenti nazionalisti militanti sviluppatisi ai poli opposti del globo”, quasi contemporaneamente, come Cuba e l’insurrezione del 1895 e le Filippine (allora spagnole) con quella del 1896. Quella astronomia politica richiamata da Anderson all’inizio dell’Introduzione: “Se in una notte tropicale senza luna, si alza lo sguardo al cielo, si può osservare un manto di stelle immobili, tenute insieme solo dall’oscurità e dall’immaginazione. C’è una tale serena bellezza in tutto questo che è necessario compiere uno sforzo mentale per rammentare come quelle stelle siano in realtà in perenne e irrequieto movimento, sospinte da un luogo all’altro dalla forza invisibile dei campi gravitazionali di cui sono, ineluttabilmente, attive componenti”. Analogamente, appunto, le idee, le speranze, la cultura, i movimenti politici e sociali, in perenne e irrequieto movimento. Vero ieri e per gran parte del ‘900, nel bene come nel male; forse non più vero oggi, quando tutto sembra fondarsi sull’autoreferenzialità dei movimenti, delle idee (quando ci sono) e degli intellettuali, ciascuno rinchiuso – come stella immobile – nella propria bolla, senza capacità di costruzione di un’alternativa collettiva e condivisa (la rete non basta; anzi la impedisce).

Allora, invece, come ricorda Anderson gli intellettuali “di quelli che furono gli ultimi baluardi del leggendario impero globale spagnolo, cubani (ma anche portoricani) e filippini, non si limitarono a studiare e informarsi reciprocamente sulle storie e le vicende dei rispettivi paesi, ma coltivarono cruciali rapporti personali e, per un certo periodo, organizzarono le loro azioni in maniera coordinata. E sebbene entrambe le popolazioni siano state infine schiacciate dalla stessa brutale autorità che aspirava ad assumere il ruolo di potenza egemone a livello mondiale [cioè gli Stati Uniti, come oggi], dal punto di vista storico una tale coordinazione globale non aveva precedenti”. Ottenuta appunto “attraverso la mediazione dei loro rappresentanti e referenti che vissero a Parigi e, in misura minore a Hong Kong, Londra e New York. […] E anche se in misura diversa, filippini e cubani trovarono i propri alleati più affidabili negli anarchici francesi, spagnoli, italiani, belgi e inglesi, pur se diversi tra loro e spesso mossi da motivazioni non nazionaliste”.

E come scrive Stefano Boni nella sua Prefazione, “l’attrazione tra nazionalismo e anarchismo, orientamenti accomunati da una tensione per la libertà sebbene per molti versi antitetici, in particolare per ciò che concerne la riduzione della comunità politica allo Stato, raggiunse il suo apice nel periodo delle lotte anticoloniali. Nonostante Anderson abbia simpatie marxiste, riconosce appieno l’apporto del movimento anarchico che ‘alla fine del diciannovesimo secolo divenne il principale veicolo per diffondere su scala globale la lotta al capitalismo industriale, all’autocrazia, al latifondismo e all’imperialismo’ […] Anderson caratterizzando l’anarchismo appunto per la sua enfasi sulla libertà personale e l’autonomia, per il sospetto che nutre verso le organizzazioni gerarchiche e burocratiche” (rendendolo, scrive Anderson “particolarmente attraente in un quadro politico caratterizzato dalla forte repressione messa in atto dai regimi conservatori”), “individuando una traccia libertaria [ma non più di una traccia, secondo noi] non solo nelle lotte per l’indipendenza cubana e filippina, ma in una pluralità di altri contesti coevi”.

Un saggio storico e insieme biografico, dunque, questo di Anderson – ovvero leggere la storia attraverso le biografie di chi l’ha vissuta e in parte fatta – “ancorato, se così si può dire, alle giovani esistenze di prominenti patrioti filippini, nati all’inizio degli anni Sessanta dell’Ottocento: il geniale scrittore José Rizal e il pionieristico antropologo e polemista Isabelo de los Reyes”. Partendo dall’analisi di due loro testi: El filibusterismo del primo, preceduto da Noli me tangere “che lo fece assurgere a simbolo della resistenza filippina contro il dominio coloniale”, però forse impropriamente; e anche la sua Liga Filipina “rimase all’interno del perimetro legale in vigore nelle Filippine di allora” – e Rizal, che non era un rivoluzionario, sconsigliò sempre di attivare rivolte, anche se “era avido lettore di quotidiani e seguiva le tendenze politiche mondiali con vivo interesse”). E poi El Folk-lore filipino del secondo, intendendo per folklore il sapere popolare o locale (che quindi non è il folklore a cui pensiamo oggi), de los Reyes sognando una rinascita culturale delle Filippine, il rovesciamento del dominio della chiesa reazionaria, innescando allo stesso tempo un’autocritica politica dei filippini. E se “Isabelo era un uomo entusiasta, pratico, incredibilmente energico e non molto portato all’introspezione”, Rizal “era meditabondo, sensibile, marcatamente introspettivo, poco pratico e ben consapevole della propria genialità”.

E il saggio di Anderson attraversa appunto la loro vita, e di molti altri, intrecciata con la storia di quegli anni, storia complessa e che, per motivi di spazio qui tralasciamo. Non senza però richiamare in conclusione, di nuovo, la questione fondamentale che emerge dal libro: quale relazione è davvero possibile tra anarchia/anarchismo e nazionalismo? Non sono strutturalmente e ontologicamente in contraddizione tra loro – e l’anarchia in contraddizione anche con il capitalismo? E non è forse vero che il nazionalismo (come il capitalismo) mai ha prodotto qualcosa di anarchico e/o di libertario – come lo dimostrano quelle forme attuali di nazionalismo che si chiamano sovranismi e che reprimono se non deportano ogni idea libertaria/dissidente? Ovvero, è sempre la società repressiva analizzata criticamente mezzo secolo fa da Herbert Marcuse – da rileggere.

Certo, scrive ancora Stefano Boni, Anderson “sfida l’idea di una genealogia eminentemente europea nella costruzione delle idee e delle pratiche anarchiche” – e questo ci aiuta a uscire dal nostro suprematismo culturale – insegnandoci appunto “che a fine Ottocento le idee ‘moderne’, come il nazionalismo, non erano partorite solo nel vecchio continente, ma si nutrivano di un respiro internazionale […], alimentando idee, progetti, sogni”. Un merito del libro, certo non da poco. Anche se il nazionalismo (diverso il discorso per l’anticolonialismo, da riattivare oggi contro il colonialismo materiale ma soprattutto mentale del pensiero unico) – per noi – non è un’idea di cui vantarsi; lo sono piuttosto (pur con le loro contraddizioni), l’illuminismo, il marxismo, l’an-archia, i diritti dell’uomo e quelli sociali, l’ecologismo. Oggi sempre più dimenticati, se non rimossi del tutto.

Leggi anche:
Francesco Mangiapane | Ritorno al futuro / Benedict Anderson, Comunità immaginate

Se continuiamo a tenere vivo questo spazio è grazie a te. Anche un solo euro per noi significa molto. Torna presto a leggerci e SOSTIENI DOPPIOZERO