Il potere e le convenzioni
Avete presente Wile E. Coyote – o Willy il Coyote – quando continua a camminare sul vuoto del canyon anche se ha ormai lasciato la terra? Importante, per non precipitare – e non solo nei cartoni animati – è continuare a credere di essere ancora sulla terra e così poter camminare ancora per un poco anche sul vuoto.
Se volessimo aggiornare a oggi quelle incessanti e divertenti sfide esistenziali tra un coyote e uno struzzo corridore, potremmo dire che noi siamo il coyote che si ostina a credersi più intelligente di quel Road Runner che oggi sono l’innovazione tecnologica e il capitalismo, l’intelligenza artificiale o un investimento finanziario o il populista di turno: che incessantemente e con tutti i mezzi di propaganda a disposizione ci fa credere (producendo convenzioni e dispositivi sociali, cioè norme comportamentali che normano e quindi normalizzano le nostre esistenze), che la tecnica è neutra o che nella finanza non vi sono rischi ma un futuro di ricchezza per tutti.
E in fondo, cos’è il vecchio ma sempre attuale mantra neoliberale per cui che tu sia leone o gazzella, importante è correre (produrre, consumare, competere sempre di più e generare sempre più dati per i capitalisti della sorveglianza) – mantra integrato a quello tecnologico per cui l’innovazione non si può e non si deve mai fermare (altrimenti addio profitti) – cosa sono se non una convenzione che però governa il mondo e governa e ingegnerizza i nostri comportamenti fino a farci superare – sfruttandola al massimo del profitto ottenibile – i limiti della terra, producendo insieme la nostra convinzione che la convenzione che governa il mondo sia vera? E anche nella realtà virtuale-metaverso non siamo come tanti coyote che – dopo avere corso a perdifiato per stare al passo con la tecnica – ora camminano su qualcosa che non esiste (il virtuale), anche se dobbiamo credere fideisticamente che sia invece tutto vero, se non più vero del vero reale?
Ma cosa sono le convenzioni? E chi le produce e in che modo governano il mondo? In una società di massa – e anche oggi, via tecnologia, siamo una società di massa anche se individualizzata – “a voler governare le preferenze collettive non è solo il governo politico in senso stretto, ma una miriade di forze organizzate […] e ovviamente le forze di mercato, interessate a intercettare, sollecitare e perfino creare dal nulla orientamenti e scelte dei potenziali consumatori”. Per capirlo, ecco un saggio recente di filosofia sociale. L’autore – che ci scuserà (speriamo), per questa lunga e personalissima introduzione – è Massimo De Carolis, che insegna Filosofia politica e Filosofia sociale all’Università di Salerno; e il titolo del suo saggio è Convenzioni e governo del mondo – ed è edito da Quodlibet.
De Carolis parte da una constatazione, cioè che “negli ultimi decenni l’ordine sociale abbia assunto la forma di una catena ininterrotta di emergenze, che ha visto crescere regolarmente l’intensità delle crisi mentre si andava riducendo l’intervallo tra una crisi e l’altra. Il risultato è che l’insicurezza, l’instabilità e il senso di impotenza […] fanno ormai parte dello spirito del tempo e della normalità quotidiana di milioni di persone”. E questa condizione umana non annuncia il crollo del sistema, ma è piuttosto “e al contrario, proprio il modo in cui l’ordine istituzionale riproduce, sia pure a caro prezzo, il suo equilibrio – cioè, detto altrimenti da noi, creando un ordine disordinante e insieme un disordine ordinante.
Continua De Carolis: l’idea è quindi che “le istituzioni moderne non si reggano più, come in passato, sulla promessa di tenere a freno la paura, ma puntino sulla loro capacità di cronicizzarla, sfruttando a proprio vantaggio una domanda di sicurezza resa sempre più profonda proprio dal dilagare dell’instabilità”. Con il paradosso – che paradosso non è – per cui “crescendo il bisogno di protezione, cresce anche la dipendenza dai poteri istituzionalizzati, che finiscono così per essere legittimati proprio dai loro relativi fallimenti”. Ma “la protezione”, scriveva il filosofo sociale Max Horkheimer, “è l’archetipo del domino” – e qualcosa di simile scriveva già Platone.
E questo non è tema appunto solo di oggi. Aggiunge però De Carolis: “La tesi [sviluppata nel saggio] è che questa cronicizzazione sia in realtà il precipitato di una lunga mutazione istituzionale, che si è annunciata già da almeno un secolo e che da allora, sia pure tra alti e bassi, non ha mai smesso di scavare dall’interno le istituzioni moderne, per annidarvi un ordine sostitutivo che si è andato via via espandendo e rafforzando, a spese del suo ospite”. E molte sono le tracce possibili di questo scavo e una ci rimanda a più di un secolo fa, a Max Weber, che denunciava (come ricorda De Carolis) “il pericolo che i meccanismi istituzionali moderni” – in realtà di quell’istituzione che si chiama capitalismo – “si stessero trasformando in gabbie d’acciaio, portate a soffocare la vitalità sociale anziché raccoglierne lo slancio”.
E sempre De Carolis ci ricorda quanto sia diffuso il termine crisi – qualcuno scrive anzi, oggi, di policrisi – ma anche di quanto siano state diffuse le riflessioni critiche sulla crisi nella cultura del Novecento. Eppure, parallelamente, sempre più nel corso del XX secolo, e ancora di più nell’attuale, si sono diffusi e poi sempre più affinati, calcolo, previsione, controllo, “lasciando sempre meno spazio all’imprevisto”. E “controllo e insicurezza, calcolo e instabilità sembrerebbero, in teoria, termini opposti e incompatibili tra loro. Da tempo, invece, l’esperienza collettiva li percepisce come compresenti e oscilla tra l’uno e l’altro come un pendolo […]. Si direbbe che il potenziamento delle tecniche di previsione e controllo accentui il dilagare dell’insicurezza e la sua cronicizzazione, anziché porvi un freno”. Ma forse (nostra piccola chiosa), la crescente fascinazione convenzionale che dobbiamo provare oggi per il digitale e per l’intelligenza artificiale (e la loro ineluttabilità), facendo fermare la nostra oscillazione e stabilizzandola sulla nostra definitiva loro accettazione) non è allora l’ultima modalità con cui l’istituzione chiamata tecno-capitalismo (che è una potentissima fabbrica a ciclo continuo di convenzioni, norme, normazione, normalità, immaginari, adattamento) ci offre una forma (l’ordine tecnico) di protezione dall’insicurezza cronicizzata che esso stesso crea? Già, perché se tutto è automatizzato e tutto è regolato, se tutto è esatto matematicamente, allora la certezza dell’automatismo della macchina e degli uomini ibridati con le macchine (e creare automatismi, abitudine e ripetizione sono una delle forme classiche usate dal potere per generare sicurezza e protezione) ciò permette al sistema di replicarsi e auto-riprodursi, sussumendoci totalmente in sé.
Chiusa la chiosa, torniamo a De Carolis. Due sono “le principali istituzioni della modernità: l’ordine politico basato sulla sovranità dei singoli Stati; e l’ordine economico basato sull’autoregolazione dei mercati”. Necessario sarebbe quindi cercare le cause della crisi attuale nel loro intreccio, nelle loro relazioni. E invece il sistema si “ostina a presentare la selezione del potere e la creazione del valore come due macchine sociali del tutto distinte. […] Nella realtà, a dispetto delle norme, le interferenze tra potere e valore non hanno mai cessato di propagarsi nelle pratiche sociali”. Senza dimenticare, aggiungiamo, che le logiche del valore – oltre che della tecnica – hanno sempre cercato di sostituirsi all’ordine politico, con-fondendo mercato e oggi rete con società e democrazia, rimuovendo l’homo politicus e mettendo al suo posto prima l’homo oeconomicus e infine l’homo technicus. Ma questa ostinazione – scrive De Carolis (di cui ricordiamo un altro importante saggio, Il rovescio della libertà, sempre per Quodlibet) – complica maledettamente le cose e impedisce di “farsi un’idea precisa di cosa non stia funzionando nelle nostre istituzioni”, vietandoci di “circoscrivere con esattezza la radice della disfunzione”.
E in questa sua ricerca della radice della disfunzione, De Carolis sposta molto giustamente lo sguardo “dalle pratiche istituzionali vere e proprie […] al tessuto di interazioni informali che ne costituiscono lo sfondo, all’interno delle quali prende forma quella che si potrebbe definire una normalità senza (o prima) delle norme”. E partendo da David Hume, chiama convenzioni quell’insieme di comunicazioni che “precede qualunque patto ma che, allo stesso tempo, è sottinteso, necessariamente, in ogni patto, contratto o norma”; in quel “convergere e confluire-assieme di una pluralità di spinte eterogenee […], dove a dominare la convenzionalità non è l’ipotetica armonia di interessi comuni, ma piuttosto la reciprocità emulativa sprigionata da quella che Keynes presenta come una società in cui ciascun individuo cerca di copiare gli altri”.
E allora, l’obiettivo dichiarato – ambizioso ma ben raggiunto dal saggio – “è capire cosa ci sia di nuovo e di unico nella società attuale”, guardando appunto all’insieme dei processi che stanno plasmando un ordine istituzionale “intimamente difforme dallo spirito della modernità, benché la mutazione sia tuttora annidata nel guscio delle istituzioni moderne, prima fra tutte la sovranità statale e il sistema globale dei mercati”. E due sono i nodi che si stanno imponendo in questo interregno (intanto che camminiamo sul vuoto): l’evoluzione tecnologica, che permette di produrre e poi governare – via propaganda, pubblicità e social – le convenzioni (e le convinzioni) sociali; e insieme “l’urgenza crescente, che ha acquisito, negli ultimi decenni, l’esigenza di progettare un governo del mondo” uscendo dalla logica competitiva e quindi distruttiva che ha dominato e ancora domina l’ordine politico (ciò che ne resta) e soprattutto quello economico. Un nuovo governo del mondo dove l’Umanità (con “un modo alternativo di appartenere all’umanità – e non a un popolo determinato”); e la Terra (con “un modo nuovo di abitare la Terra”) diventino il nuovo paradigma di riferimento e appunto di governo del mondo.
De Carolis ci accompagna dunque, pagina dopo pagina, a riflettere su governo politico e governo economico, sulle masse e sui feticci del mercato, sul pluralismo istituzionale e sulla democrazia liberale. Arrivando poi a concludere che “il mondo come tale non può essere governato dall’esterno: può solo autogovernarsi”, ma per questo “non può mai incarnarsi all’interno dell’ordine costituito. Deve esprimersi al suo esterno, in una specie di antistruttura” e di anti-massa – “l’esatto rovescio della struttura [e della massa] organizzata nelle istituzioni”: e quindi, “che sappia congiungere e radicalizzare le esigenze di auto-determinazione collettiva e di libertà individuale rivendicate in passato” dal popolo e dalla società civile. “La buona notizia è che la genesi di una tale antistruttura è in corso d’opera […]. La notizia cattiva è che non offre alcuna garanzia di poter disinnescare in tempo utile le tante emergenze da cui oggi è minacciato l’ordine civile. […] Eppure, sarebbe del tutto fuori luogo lasciarsi vincere dallo sconforto”, anche “se i centri di dominio cresciuti alla frontiera tra politica ed economia” faranno di tutto “per rendere cronica l’insicurezza e così mantenere intatta la loro egemonia”.
Come stanno infatti facendo, davanti alla crisi climatica e ambientale, inventando quella convenzione chiamata resilienza.