Da Erich Fromm alla I.A.

3 Marzo 2025

Il recente vertice di Parigi sull’intelligenza artificiale si è chiuso con una dichiarazione finale firmata da una sessantina di paesi del mondo – ma non da Usa e GB – dove si chiede che l’i.a. che si sta sviluppando sia aperta, inclusiva ed eticaopen source – oltre che sostenibile socialmente e ambientalmente. Bello e giusto e soprattutto doveroso. Ma sempre il capitale e i suoi governi, nel passato più o meno recente, hanno raccontato la medesima favola, producendosi poi esattamente il contrario di quanto promesso. Negli anni ’90 la favola sosteneva – è doveroso ricordarla ancora una volta – che la rete fosse libera e democratica per sua essenza e che grazie alle nuove tecnologie saremmo entrati in una nuova era (sì, addirittura una nuova era) di crescita illimitata, di minore fatica nel lavoro e di più tempo libero per tutti. E invece è accaduto (e non poteva non accadere, per l’essenza vera della tecnica, illiberale e anti-democratica in sé e per sé) esattamente il contrario: meno libertà (abbiamo rinunciato anche a difendere la privacy, che era elemento base della libertà dell’individuo), più sorveglianza (i data center servono per la raccolta e l’elaborazione dei dati di miliardi di persone, cioè per la loro sorveglianza e per il governo eteronomo della loro vita, dei loro consumi, delle loro idee), quindi meno democrazia (oggi il tecno-fascismo di Elon Musk e non solo), tutto con l’intensificazione del lavoro e la caduta della distinzione tra tempo di lavoro e tempo di vita. Una favola distopica e dispotica.

Una favola però sempre ripetuta e sempre – ahimè – creduta da quasi tutti e soprattutto dai mass media e dalle Università, dai politici e dagli intellettuali organici; e invece Max Horkheimer ricordava, già negli anni Quaranta, che “i tecnocrati affermano che quando le loro teorie saranno tradotte in pratica le crisi economiche diventeranno una cosa del passato e i fondamentali dislivelli economici scompariranno; tutto il meccanismo produttivo funzionerà alla perfezione, in assoluta conformità con i programmi”. Repetita iuvant – appunto – per farci credere nelle favole, rinunciando a qualsiasi pensiero critico. E anche oggi davanti alla i.a. e ai voleri dei tecno-oligarchi siamo a credere nella loro favola – e ci rifiutiamo di analizzare i processi e la loro genealogia – e ci troviamo nella condizione descritta da Michele Serra, cioè “a partire dalla corsa al cosmo e alle nuove tecnologie, è come se ci fosse stata una privatizzazione di fatto del futuro. La nostra presenza è prevista, forse anche richiesta, ma solo in qualità di spettatori. Un immenso pubblico mondiale al quale è concesso di fare il tifo, applaudire, fischiare, ma non di partecipare al gioco” (è, diciamo, la nuova società dello spettacolo oligarchico e tecnologico), cioè di poter invece decidere – consapevolmente e come soggetti immaginativi e quindi generativi – della loro storia. Non dimenticando tuttavia che il nostro essere solo spettatori di ciò che decide il tecno-capitalismo e che si impone come un dato di fatto immodificabile, dura in realtà da tre secoli di rivoluzione industriale.

E quante volte politici e soprattutto ingegneri e imprenditori ci hanno detto che comunque bisogna umanizzare la tecnica ma fermarla mai (non vorrete essere vecchi luddisti!), mentre si stava creando il più gigantesco oligopolio di monopoli (per brevità, la Silicon Valley – ma il mondo è ormai pieno di Silicon Valley) mai realizzatosi nella storia del capitalismo, con la disponibilità dei governi del mondo che hanno lasciato fare al capitale, de-regolamentando tutto ed espropriando sempre più ciascuno soprattutto del diritto alla libertà cognitiva, semmai accentrando sempre più la conoscenza nelle macchine stesse e negli algoritmi/i.a., quindi disumanizzando l’uomo come essere che dovrebbe essere dotato di capacità e possibilità di pensiero, per renderlo dipendente sempre più dalle macchine? Una propaganda di industria e governi – via management e marketing e oggi social – che inevitabilmente ci rimanda a quella del gatto e della volpe cantata da Edoardo Bennato (stiamo in società/ di noi ti puoi fidar/ Puoi parlarci dei tuoi problemi, dei tuoi guai/I migliori, in questo campo siamo noi/ È una ditta specializzata, fa un contratto e vedrai/ Che non ti pentirai/ Noi scopriamo talenti e non sbagliamo mai […] Non capita tutti i giorni di avere due consulenti/ due impresari/ che si fanno in quattro per te…), per farci credere possibile l’impossibile – appunto, che la tecnica e il capitale siano libertari e democratici e che il gatto e la volpe vogliano davvero aiutare Pinocchio. Eppure continuiamo a credere che la tecnica sia liberante e non, come invece è per sua essenza, sempre più integrante e cioè sempre più totalizzante/totalitaria. Perché se non esistono più macchine singole, ma tutte le macchine e gli uomini con le macchine devono integrarsi e convergere in mega-macchine, l’esito non può che essere appunto totalitario in senso tecnico e capitalistico, molto più potente ma anche più invisibile di tutti i totalitarismi di integrazione politica del ‘900 – e sempre ricordando che quanto più siamo integrati in un sistema organizzativo, oggi digitale, meno siamo ovviamente liberi.

E allora, per provare a capire meglio il processo che ci ha portato a nostra insaputa alla i.a. e per capire dove e perché abbiamo sbagliato e continuiamo a sbagliarci nel nostro rapporto con capitale e tecnica è utilissimo tornare a leggere questo saggio di Erich Fromm uscito nel 1968 – La rivoluzione della speranza – e ora ripubblicato da Mimesis (pag. 160, € 16,00), con sottotitolo: Per una tecnologia dal volto umano.

Erich Fromm (1900-1980), dunque, un intellettuale di prima grandezza ma oggi quasi dimenticato; che fu filosofo, psicologo e psicoanalista, inizialmente vicino alla Scuola di Francoforte e poi sempre più a un modello di socialismo democratico, libertario e umanistico. Suoi titoli allora importanti e molto letti (ma dovrebbero esserlo ancora oggi), sono stati Psicanalisi della società contemporanea (indagine sull’alienazione dell’uomo moderno – apprendista stregone che prima attiva le forze della produzione e poi ne viene schiacciato; ed è il rovesciamento tra mezzi e fini, con l’uomo, che era il fine, diventato mezzo per l’accrescimento del sistema tecnico e capitalistico – Fromm proponendo possibilità di mutamento sociale che sole possono impedire all’uomo di diventare un automa/macchina); Fuga dalla libertà (sulla nascita del fascismo e sulla paura sociale della libertà, come oggi, diremmo davanti alla potenza del tecno-fascismo e della i.a.); Avere o essere? (critica della società dell’avere); Anatomia della distruttività umana (oggi pensiamo all’ecocidio); L’arte di amare. E la sua ultima intervista, pochi giorni prima di morire, è a questo link.

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“Uno spettro si aggira tra noi” – inizia così La rivoluzione della speranza, richiamando Marx ed Engels – “ma solo pochi lo vedono con chiarezza. Non si tratta del vecchio fantasma del comunismo o del fascismo. È qualcosa di nuovo: una società completamente meccanizzata [oggi Fromm direbbe digitalizzata], che ha per scopo la massima produzione materiale e il massimo di consumo e che è diretta da calcolatori” – ed era il 1968, lo ricordiamo, ma è la realtà ancor di più di oggi. “In questo processo sociale l’uomo, ridotto a una parte della macchina complessiva […] è passivo. […] Il suo aspetto attuale [sempre cinquant’anni fa] più sinistro consiste nel fatto che noi abbiamo perso il controllo del nostro stesso sistema. Eseguiamo le decisioni che il calcolatore [oggi l’algoritmo, l’i.a.] elabora per noi. In quanto esseri umani, miriamo solo a produrre e a consumare sempre di più. Come è potuto accadere tutto ciò?” – si domandava Fromm e rispondeva: “attribuendo un’importanza unilaterale alla tecnica e al consumo materiale, l’uomo ha perso il contatto con se stesso e con la vita. La macchina costruita dall’uomo è diventata così potente da sviluppare da sola il suo programma, che ora condiziona lo stesso pensiero dell’uomo”.

E tuttavia, scriveva Fromm, “a mio avviso” ci sono comunque grandi possibilità “di ridare all’uomo il controllo del sistema”. Quindi, seguendo l’ordine di riflessione di Fromm, “l’analisi della situazione presente e il suo potenziale di speranza devono essere precedute da una analisi del fenomeno della speranza”. E cos’è la speranza? Molte cose, certo, diverse nelle diverse epoche della storia umana e in ciascun individuo o gruppo di individui. Tuttavia, “sperare è una condizione essenziale dell’essere umano, se rinuncia a ogni speranza ha lasciato alle sue spalle la sua stessa umanità”, cioè la vita è finita e si diventa come macchine che funzionano ma senza speranza, cioè senza soggettività, cioè senza libertà e progettualità – senza dimenticare che “chi perde la speranza odia la vita” e viene preso dalla mania della distruzione e della violenza, come oggi.

Ma oggi – gli anni Sessanta, ma come oggi – la speranza è scomparsa e vince la disperazione – o l’indifferenza, che è un’altra forma di disperazione. Per reagire, scrive Fromm, dobbiamo conoscere le cause di questa disperazione. Che sono molte, ma che riguardano in particolare “la società industriale completamente burocratizzata [oggi automatizzata e amministrata da algoritmi] e l’impotenza degli individui nei confronti dell’organizzazione”, che oggi è diventata digitale e che, essendo totalizzante/totalitaria non lascia spazi alla libertà pur promettendo (di noi ti puoi fidar) il massimo della libertà. Necessario, scrive Fromm, diventa allora mutare in primo luogo il modello culturale, economico e sociale dominante, dove invece “l’alleanza tra l’impresa privata e il governo si fa così stretta che la distinzione fra le due parti sta diventando sempre più sfumata” (oggi è scomparsa, con Trump & Musk, dopo Berlusconi) – e quindi il duemila “può non costituire affatto il felice coronamento di un periodo durante il quale l’uomo ha combattuto per la libertà e la felicità, ma l’inizio di un’era in cui l’uomo cessa di essere umano e si trasforma in una macchina che non pensa e non sente”, come oggi ma sempre di più con l’i.a. e simili.

Anche perché il sistema tecnico e capitalista si fonda su due principi ritenuti immodificabili: l’imperativo per cui una cosa deve essere fatta se tecnicamente è possibile farla; e quello della massimizzazione dell’efficienza per la massima produzione, cioè per il massimo profitto, gli uomini portati sempre più a “spogliarsi della loro individualità, identificandosi nell’impresa invece che in se stessi” e quindi “la disumanizzazione in nome dell’efficienza è un fatto comunissimo” che si accresce tuttavia quando l’efficienza, come oggi, è dettata ancora di più dalle macchine e incorporata negli algoritmi, nel taylorismo digitale. E quindi, se “la possibilità di costruire robot simili agli uomini appartiene, se esiste, al futuro”, ancora Fromm, “il presente ci mostra già gli uomini che agiscono come robot”; e l’idea che il calcolatore “sostituisca l’uomo e la vita è una chiara manifestazione della patologia dei nostri tempi”, con il calcolatore (basato sulla fede nella logica dei fatti) e il calcolo impersonale (“nuovo idolo al quale gli uomini possono essere sacrificati”) che “hanno preso il posto di Dio” – allora, come oggi ancora di più.

E dunque, ammesso sia possibile davvero modificare il sistema tecno-capitalista – e la sua razionalità solo strumentale alla massimizzazione del profitto, solo calcolante (cioè avalutativa, priva di etica e priva di quella responsabilità che presuppone “una coscienza umanistica, la capacità di ascoltare la voce della propria umanità e non dipende dagli ordini dati da un altro”) e solo industriale (tutto è industrializzato in questa società che mai è stata post-industriale, semmai iper-industrializzata, vita umana compresa) – e lasciando al lettore curioso la voglia di scendere nei maggiori dettagli offerti da Fromm, “lo scopo generale di una società industriale umanizzata può essere definito in questo modo: il mutamento della vita sociale, economica e culturale in modo che stimoli e favorisca la crescita e la vitalità dell’uomo; l’attivazione dell’individuo anziché la sua passività; l’utilizzo delle possibilità tecnologiche per lo sviluppo dell’uomo”. Giusto e umanistico. Ma che in realtà è anche quanto è sempre stato da allora promesso dalle tecniche psicologiche utilizzate dal capitale per farci adattare alle sue esigenze (con management, marketing e social, enrichment della vita, falso individualismo, essere imprenditori di se stessi, sviluppo del proprio capitale umano). E quindi sembra impossibile usare contro il sistema, per umanizzarlo e cambiarlo, metodi usati dal sistema per rafforzare se stesso e proseguire nella disumanizzazione dell’uomo.

Ma se umanizzazione è giusto e doveroso che sia, allora dobbiamo in primo luogo – scrive Fromm – “riconquistare il controllo sul sistema economico e sociale; la volontà dell’uomo, guidata dalla ragione e dal suo desiderio di una vita migliore, deve prendere la decisione”. Il problema – allora come oggi – è che la tecnica e il capitale hanno altre idee sul nostro futuro. Che escludono a priori – da sempre – ogni possibilità di umanizzazione del sistema tecnico. E di sua democratizzazione. Arrivando oggi appunto al tecno-fascismo e a volerci sempre e comunque solo come spettatori. E tuttavia, con Fromm, non possiamo e non dobbiamo rinunciare alla speranza e al suo essere appunto rivoluzionaria. Una speranza che forse inizia, suggeriamo, imparando a diffidare del gatto e della volpe e del loro stiamo in società.

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