L’imperativo è: adattarsi!
Che mondo è mai questo? – si chiede Judith Butler in questo suo ultimo saggio, che ha la domanda come titolo (Laterza). E guarda al nostro mondo divenuto opaco e cieco, senza senso e senza direzione, tutti immersi in disuguaglianze crescenti, in sempre nuove guerre e con una crisi climatica sempre più grave, ma con il paradosso di un popolo che vota sempre più per le destre neoliberali e negazioniste.
E ancora: perché abbiamo dimenticato che siamo esseri dotati di libero arbitrio e di ragione, ricercando invece un sempre nuovo servo arbitrio (Adorno, Dialettica negativa), invocando nuovi leader/élite/tecnocrati/populisti a cui consegnare la nostra anima e la nostra libertà (e felicità) in cambio di un po’ di (apparente) sicurezza (cfr. Freud, Il disagio della civiltà), magari nazionalistica o social o artificiale? Perché ci adattiamo all’esistente senza più immaginare un mondo diverso e migliore – come avevamo invece provato a fare in passato – e accettiamo la pedagogia e la propaganda del neoliberalismo che ci impone di adattarci al sistema capitalista, facendolo diventare la nostra way of life – come spiega Barbara Stiegler nel suo Bisogna adattarsi (Carbonio Editore)?
Questa dunque non è una recensione classica, ma inaugura (forse) una serie di recensioni di coppia (di libri), letti insieme per affinità di tema e/o di pensiero complesso e critico o per attrazione intellettuale. E lo facciamo con il pensiero critico di Judith Butler e con l’analisi storico-filosofica del neoliberalismo di Barbara Stiegler. Ma sarà anche (ci prova) una coppia di libri aperta ad altri libri – come abbiamo già iniziato a fare poco sopra – perché così deve essere sempre, ma forse ancora di più quando si ha a che fare con una coppia aperta (di libri).
Cominciamo dal saggio di Barbara Stiegler, docente di filosofia politica all’Università di Bordeaux Montaigne. Un testo importante – senza dimenticare l’altrettanto importante saggio di Dardot e Laval (La nuova ragione del mondo, 2013-2019) – se si vuole capire la nascita e la costruzione dell’egemonia del neoliberalismo negli ultimi quarant’anni; “una storia paradossalmente poco indagata” – scrive Barbara Stiegler, pur essendoci tutti noi dentro fino al collo (e oltre).
Nella sua accuratissima analisi genealogica, Stiegler si confronta in particolare con le tesi di uno dei padri di questa (per noi) non-filosofia neoliberale, forse diversa dal liberalismo classico e ottocentesco, cioè l’americano Walter Lippmann (1889-1974). Tesi di Lippmann che Stiegler pone a confronto con quella del liberale radicale, filosofo e pedagogista John Dewey (1859-1952), diverso da Lippmann ma forse non così tanto. Ci concentriamo su Lippmann, per problemi di spazio.
Lippmann, dunque; che scriveva – e alla fine degli anni ’30 del secolo scorso si tiene a Parigi il cosiddetto Convegno Lippmann per la rifondazione del liberalismo, con neoliberisti e ordoliberali delle due sponde dell’Atlantico – che il neoliberalismo è l’unica filosofia “che possa condurre all’adeguamento della società umana alla mutazione industriale e commerciale fondata sulla divisione del lavoro”, che a sua volta è un dato storico, cioè un dato di fatto che non può essere modificato; quindi suo compito è modificare l’uomo, adattandolo alle esigenze della produzione e di un capitalismo che diventa “un nuovo sistema di vita per l’intera umanità”, accompagnando “la rivoluzione industriale in tutte le fasi del suo sviluppo; e poiché esso è infinito, il nuovo ordine non sarà mai in nessun modo perfettamente realizzato e concluso”, ma sempre dovrà essere ricreato e rafforzato e reso sempre più pervasivo/egemone; perché l’ambiente sociale e il sistema capitalistico devono sempre tendere a formare tra loro un tutto armonico. Come avrebbe detto anni dopo la neoliberista Margaret Thatcher, Economics are the method. The object is to change the soul, cioè l’anima della gente.
Per ottenere questo risultato – rendere l’uomo funzionalmente adattabile alle esigenze della rivoluzione industriale, della divisione del lavoro e al profitto del capitale (e non viceversa, come dovrebbe essere in una società umana, libera e democratica) – serve una pedagogia incessante e continua, una propaganda saturante (e Lippmann fu grande esperto di propaganda e di public relations), servono soprattutto le élite, gli esperti, i tecnici. Per produrre la sussunzione e l’integrazione di tutti e di tutto nell’ordine del mercato e della rivoluzione industriale, che è appunto ciò che deve predeterminare la vita individuale e collettiva e a cui tutto va subordinato. Perché la Grande rivoluzione è appunto quella industriale e la Grande società è quella che questa rivoluzione produce. Perché il suo accrescimento è deterministico/teleologico e insieme teologico (“il capitalismo globalizzato come fine trascendente del processo evolutivo”) – ma quindi è anche (aggiungiamo) totalizzante, se non totalitarismo già compiuto.
Una tesi – quella di Lippmann – che conosce momenti diversi nella sua evoluzione, ma senza mai perdere il suo obiettivo: la negazione della libertà e della responsabilità individuale, dell’intelligenza individuale e collettiva, con i comportamenti sociali e il consenso costruiti/ingegnerizzati mediante un’abile e crescente azione di manipolazione delle masse (“The management of consent”). Anche attraverso il linguaggio e la produzione di stereotipi funzionali che si riproducono anche oggi, come adattabilità, occupabilità, flessibilità, essere imprenditori di se stessi; e poi smart, start-up, hard e soft skills, lo chiedono i mercati – perché la rivoluzione industriale non può e non deve essere mai modificata o rallentata o governata altrimenti. Per un incessante riadattamento della specie umana come imperativo politico, “eterodiretto dall’expertise dei dirigenti e per principio sottratta al controllo dei cittadini e delle cittadine” (Stiegler). E nel caso, continuava Lippmann, “ogni ribellione verrà sedata”.
Una forma di positivismo ottocentesco – così ci appare – quello di Lippmann, posto che già il positivista Auguste Comte (1798-1857) scriveva che l’ordine nella scienza e l’ordine nella società “si uniscono in un insieme indivisibile. La meta finale consiste nel giustificare e rinforzare l’ordine sociale, favorendo una saggia rassegnazione” (cit. in Marcuse, Ragione e rivoluzione). Perché sarebbero gli stessi uomini – scriveva sempre Comte – che “avvertono l’indispensabile necessità di una forza suprema capace di dirigere e sostenere la loro continua attività, raccogliendo e mettendo in ordine i loro sforzi spontanei” (per Lippmann, a farlo è appunto la divisione industriale del lavoro) e aggiungeva: “Come è dolce obbedire quando possiamo godere della felicità… di essere convenientemente liberati, da capi saggi e meritevoli, dall’assillante responsabilità di decidere come ci dobbiamo generalmente comportare!”. Come poi riproposto da Lippmann, appunto. E ora dagli algoritmi.
Di più: il dover far adattare la società alle esigenze della rivoluzione industriale parte dalla considerazione – neoliberale, ma non solo – per cui ci sarebbe un ritardo cronico, uno sfasamento tra tempi biologici e sociali ed esigenze di una rivoluzione industriale sempre più accelerata, cioè nel conflitto tra stasi/abitudine e flussi/mutamento. E questo sfasamento deve essere eliminato. Processo che si replica oggi con la negazione di fatto, da parte del neoliberalismo, della crisi climatica, che imporrebbe invece un ripensamento radicale del modello capitalistico, ma dove è impossibile anche solo il pensarlo, perché (sempre Lippmann) “una trasformazione del modo di produzione non fa nemmeno parte delle possibilità speculative”. Grazie anche a un diritto che conserva e riproduce l’ordine del capitalismo e adatta gli uomini alle sue esigenze – insieme correggendo le carenze del mercato – ponendosi come sovrastruttura funzionale al capitale e alla divisione del lavoro – e rimandiamo a Karl Marx (1818-1883) su struttura e sovrastruttura e sulla tendenza del capitalismo a farsi globale (Manifesto del partito comunista, ad esempio), ma anche a Max Weber (1864-1920) e al capitalismo come gabbia d’acciaio che rinchiude il mondo – fino a che non sarà consumato l’ultimo quintale di carbone (oggi diremmo di litio) – e gli uomini, fin dalla loro nascita (L’etica protestante e lo spirito del capitalismo).
È accettabile questo mondo? La risposta dovrebbe essere negativa. Ma non lo è. Arriviamo allora a Judith Butler, filosofa politica e docente a Berkeley. Che parte dalla pandemia per portarci a riflettere – confrontandosi in particolare con Husserl e Merleau-Ponty – sulla crisi climatica e sulla condizione umana di inevitabile interdipendenza con gli altri e con la biosfera. Interdipendenza che ci chiede non più di adattarci a qualcosa che ci vuole solo oggetti della propria azione pedagogica e “biopoliticamente disciplinante” (come Stiegler definisce il neoliberalismo di Lippmann, richiamando le discipline – che assoggettano i corpi – e la biopolitica – che governamentalizza la vita umana – di Michel Foucault, e lo scrivevamo anche noi nel 2018), ma di ripensare i concetti che guidano il nostro agire politico e ancora di più etico. Perché (Butler) “la distruzione della Terra a causa del cambiamento climatico rende inabitabile il mondo; al contempo ci richiama alla necessità di porre dei limiti a proposito di come e dove vivere […] al fine di preservare la Terra e, di conseguenza, di preservare le nostre vite”. E invece, “in nome della libertà personale [ma illusoria] e dell’imperativo della produttività, rendiamo invivibili il mondo e le nostre vite, al punto di non renderci nemmeno più conto che avere collocato quei valori al di sopra di ogni altro ha significato solo ed esclusivamente trasformarli in strumenti di distruzione dei legami sociali e della vivibilità dei mondi”. E invece, vi sono altre forme di libertà personale da poter vivere, continua Butler, come “quella che emerge nel cuore della vita sociale, caratteristica di una vita che cerca un mondo comune – e che in questa ricerca, appunto, è libera”, cioè non si adatta e non si sente in ritardo. Anzi.
Da qui il tema della relazione, altro concetto che il neoliberalismo ci ha fatto cancellare; perché “io sono in relazione con te e tu sei in relazione con me a prescindere dal fatto che ci piaccia o meno deliberare individualmente su come relazionarci tra noi”. E proprio dalla pandemia abbiamo imparato “che la vivibilità della vita dipende dalla vita in senso più ampio, che non è mai esclusivamente nostra e le cui condizioni devono essere garantite – sia per la mia vita, sia per ogni processo vivente”. Ma per questo dobbiamo uscire dalla logica della proprietà privata e ri-organizzare il mondo “in ossequio a un principio di eguaglianza radicale”. E quindi abbiamo bisogno – “per una rifondazione promettente del mondo” – di “strapparlo dall’abbraccio mortale dell’economia” (“dalla pulsione di morte del capitalismo”). Ma per questo serve “intentare una lotta contro tutti quei poteri che troppo facilmente eliminano vite, forme di vita e habitat vitali”; una lotta che non si può combattere individualmente, “ma solo collaborando, ampliando le reti di sostegno […], promuovendo nuove forme di vita comune nonché di valori e desideri collettivi”, imparando “a conoscere e a prestare attenzione a ciò di cui la Terra necessita”.
Perché ora “non ci si può più esimere dal lottare contro le disuguaglianze sociali e l’ingiustizia climatica”.