Il capitalismo dei rassegnati e gaudenti

8 Gennaio 2025

Per realizzare un’intervista, molti anni fa (ma neanche troppi, in realtà) – la differenza è che allora la gente non andava ancora in giro con le cuffiette nelle orecchie e non viveva inchinata h24 davanti allo smartphone, auto-escludendosi dal mondo circostante – avevano deciso di farla in una carrozza della metropolitana di Milano. Tra la gente sembrava una situazione perfetta. Alla domanda che cos’è il capitalismo? una signora alle mie spalle fu più veloce della luce e mi anticipò rispondendo: una merda!

Il capitalismo. Cos’è e perché ci viviamo dentro da tre secoli (preferiamo chiamarlo tecno-capitalismo, cioè capitalismo industriale e macchinico per distinguerlo da altri capitalismi precedenti), senza più provare a immaginare qualcosa di altro e di meglio? Perché davvero lo crediamo il meglio in assoluto, nonostante le smentite quotidiane, dalle crisi sociali all’ecocidio che produce per sua essenza? Perché la storia umana è davvero finita e tutto deve essere mercato, competizione, sfruttamento dell’uomo e della biosfera e oltre non c’è più nulla di immaginabile (se non il nulla del nichilismo tecnico e capitalistico)? Perché il capitalismo è una religione (lo scriveva il filosofo Walter Benjamin cento anni fa), la più cultuale mai esistita e ci chiede incessanti atti di fede (e i centri commerciali hanno sostituito le chiese come luoghi di culto), una religione “a durata permanente del culto” dei “veneranti”, cioè tutti noi? O perché, come aveva scritto circa venti anni prima di Benjamin il sociologo Max Weber, il capitalismo è una gabbia d’acciaio “che oggi determina con strapotente costrizione, e forse continuerà a determinare finché non sia stato consumato l’ultimo quintale di carbon fossile, lo stile della vita di ogni individuo, che nasce in questo ingranaggio” – e oggi ancora di più? Oppure perché ci siamo rassegnati a equiparare società e industria, come chiedeva già il positivismo ottocentesco di Saint-Simon (“l’industria è il punto di partenza così come la meta di tutti i nostri sforzi; e lo stato di cose più favorevole all’industria è anche il più favorevole alla società e quindi “gli uomini non sono che strumenti del sistema industriale e non possono mutarne il corso”) o di Auguste Comte (“la meta finale consiste nel giustificare e rinforzare l’ordine sociale, favorendo una saggia rassegnazione”)? E il neoliberalismo, egemone nel mondo da quarant’anni, non ci impone anch’esso di adattarci alle esigenze della rivoluzione industriale, cioè del capitalismo, come insegnava il neoliberale Walter Lippmann (vedi qui), e in caso contrario “ogni ribellione verrà sedata” – come ripropone oggi, in Italia, il ddl Sicurezza? E dal neoliberalismo non stiamo arrivando alla oligarchia (tecnologica ma ormai anche politica) di Musk e della Silicon Valley, antidemocratica e illiberale per sua natura e vocazione, tra post-umanesimo, anarco-capitalismo, accelerazionismo, muskismo e darwinismo/disruption sociale e ambientale?

Cos’è dunque il capitalismo? Ci aiuta a capirlo – e a capire perché ci adattiamo/rassegniamo o ci facciamo resilienti ad esso (anche al riscaldamento climatico/ecocidio) senza più reagire (se non per fuochi di protesta che presto si spengono per mancanza di ossigeno politico) – questo libro di Grace Blakeley dal titolo molto esplicito di Capitalismo avvoltoio (il Saggiatore, pag. 470 – ma 90 sono di note – € 28.00). Un libro ricchissimo di esempi per dimostrare appunto – oltre ogni possibile dubbio – che il capitalismo è un avvoltoio verso umani e ambiente e da qui sviluppare quindi una conseguente riflessione politica socialista. Un libro che potrebbe/dovrebbe diventare una sorta di livre de chevet soprattutto per chi dice di essere di sinistra ma non lo è più da tempo, ma anche per i rassegnati/astenuti dalla politica e per chiunque si dica ancora cittadino. Un libro cioè da portare sempre con sé e di cui leggere ogni giorno qualche pagina, in treno o in metropolitana con il titolo bene in evidenza – il libro di Blakeley invece dello smartphone anch’esso parte del capitalismo avvoltoio – e così spogliandoci del vestito di rassegnati ma gaudenti (un po’ di social, un po’ di consumismo e di Black Friday, un po’ di Netflix) o di illusi dalle promesse di benessere e di libertà e di più democrazia, sempre false, del capitale, neoliberalismo compreso. Sì perché l’obiettivo vero e pianificato dal capitale (e dalla tecnica) è invece meno libertà e meno democrazia, in nome dell’autocrazia/plutocrazia – ma diciamo anche totalitarismo, riprendendo Herbert Marcuse – del capitale e della tecnica.

Moltissimi, come detto, gli esempi di capitalismo avvoltoio (incarnati soprattutto dagli Stati Uniti) narrati nel libro: dal colonialismo efferato degli Usa nelle Filippine, dal 1899 alla seconda guerra mondiale, al golpe in Cile del 1973, sostenuto e promosso dall’America per difendere i profitti delle sue multinazionali dal socialismo di Allende; dalle banane del Guatemala (compreso il genocidio degli indigeni) alla Enron; dal Metodo Giacarta alla BlackRock (il più grande gestore patrimoniale del pianeta, controllando “oltre 10.000 miliardi di dollari di attività”); dall’oligopolio dell’agro-industria (tre sole imprese controllano quasi il 70% del settore dei prodotti chimici per l’agricoltura e il 60% di quello delle sementi commerciali, protette da rigide regole a tutela della proprietà intellettuale – o meglio del profitto privato, glifosato compreso) all’oligopolio oggi della Silicon Valley; dalla Compagnia delle Indie orientali a Fordlandia e alle attività di lobbying che negano la demo-crazia – con la Ford che realizzò profitti enormi producendo armamenti per l’America ma anche per Hitler; e poi Bhopal; e la Exxon e l’industria del fossile negazionista della crisi climatica pur consapevole della sua esistenza già dagli anni ’70 (negando la verità in nome sempre del profitto privato); e poi la lotta incessante e da sempre del capitale contro sindacati e diritti dei lavoratori – e diritti della biosfera e delle future generazioni. Ovvero, “una società capitalista è una società organizzata intorno agli interessi di chi comanda”, punto. E chi comanda ha modi soft per comandare e difendere i suoi interessi (compresi il management e il marketing, o le famose spinte gentili per farci fare ciò che è necessario al capitale come se lo facessimo per nostra libera scelta), ma “può usare anche la violenza dello stato, contro gli scioperi e contro i manifestanti per il clima di oggi”. Di più, il capitalismo è imperialista per sua essenza – che è un altro modo per negare la democrazia e la libertà; in particolare l’imperialismo americano con il suo complesso militare-industriale, il cui scopo è quello di “proteggere la struttura iniqua del sistema capitalistico mondiale e di impedire che emergano potenziali rivali degli Usa”, che è esattamente ciò che sta accendo in questi ultimi anni, tra Brics emergenti e guerra mondiale a pezzi.

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Nel capitalismo, scrive Blakeley, “c’è una contraddizione profonda tra la nostra convinzione di essere liberi e la realtà di vivere sotto il capitalismo, un sistema caratterizzato da una illibertà pervasiva. […] Vivere sotto il capitalismo significa vivere sotto un sistema in cui le decisioni su come lavoriamo, come viviamo e cosa compriamo sono già state prese da qualcun altro [e parole molto simili le aveva scritte Luciano Gallino nel 2011: “oggi “la grandissima maggioranza della popolazione è totalmente esclusa dalla formazione delle decisioni che ogni giorno si prendono” per l’azione di quel soggetto che si chiama grande impresa di decidere a propria totale discrezione che cosa produrre, dove produrlo, a quali costi per sé e per gli altri”]. Vivere sotto il capitalismo significa vivere in un’economia pianificata, ma sentirsi dire che siamo liberi” – e che il capitalismo sia una realtà non di libero mercato, come dice la sua propaganda, ma anche pianificata nel senso pieno del termine ci trova assolutamente d’accordo essendo ciò che sosteniamo da almeno quindici anni, quindi grande sintonia di analisi.

Sì, perché – scrive Blakeley – “le economie capitalistiche esistenti sono sistemi ibridi, basati su un attento equilibrio tra mercati e pianificazione. Non è un malfunzionamento frutto di una attuazione incompiuta del capitalismo, o una distorsione operata da una malvagia e onnipotente élite: è semplicemente il modo in cui funziona il capitalismo”. Sempre ricordando, con Blakeley e prima di lei con Marx, che ieri come oggi – ieri nelle fabbriche e oggi nelle piattaforme e nella fabbrica diffusa/società-fabbrica, così come nell’intelligenza artificiale, sempre “il capitalismo è definito dalla divisione di classe fra padroni e lavoratori, fra coloro che possiedono tutte le cose necessarie per produrre merci e coloro che per produrre quelle merci sono costretti a lavorare. E le persone che possiedono tutte le cose sono capaci appunto, in misura più o meno ampia di prendere decisioni che hanno conseguenze enormi per tutti gli altri. Sono cioè capaci di pianificare”. E quindi le grandi aziende (ma noi diremmo: tutto il sistema capitalistico) “sono istituzioni politiche oltre che economiche”. Ma autocratiche, non democratiche. E gli stati sempre proteggono il capitale e i capitalisti, mai i lavoratori o la biosfera; mentre l’ideologo neoliberista von Hayek riconosceva che nel capitalismo la libertà di vivere come si vuole è accessibile solo a una piccola minoranza, Hayek quindi preferendo una dittatura favorevole al mercato a una democrazia contraria al mercato.

Ed è proprio la dialettica tra libero mercato/competizione e pianificazione a rendere queste società capitaliste, continua Blakeley, “così adattabili e allo stesso tempo così immutabili”, cioè “si possono riorganizzare le istituzioni, si possono rimescolare le élite senza cambiare la struttura di fondo della società”. E allora, l’unico modo per avere meno capitalismo – e quindi, più giustizia sociale e più responsabilità verso la biosfera – “è porre un freno al potere del capitale, delle persone che possiedono tutto quanto. […] La via d’uscita passa per la democratizzazione della nostra società” redistribuendo il potere politico ed economico.

Ma come farlo, se il capitale e la tecnica si prefiggono appunto (è nella loro pianificazione) di abolire la democrazia – e hanno i mezzi per farlo, social compresi – e la gente li vota, non solo negli Usa (Trump & Musk), in una collettiva e pervasiva eclisse della ragione – qui usando il titolo di un saggio del francofortese Max Horkheimer, degli anni ’40, saggio di critica della ragione strumentale, cioè della ragione (irrazionale) del capitalismo (e della tecnica)? Se per Blakeley solo una società socialista “è vera democrazia”, come costruirla se abbiamo dimenticato persino cosa significhi socialismo e la stessa società è stata trasformata in mercato perché questo voleva (ha pianificato) il neoliberalismo/capitalismo e lo ha realizzato, cioè sovra-ordinare il mercato a stato e società, spogliando lo stato di sovranità e la società di autonomia e di democrazia e libertà? L’Autrice porta molti esempi anche di quello “che succede [in positivo] quando la gente riesce a prendere il controllo delle istituzioni politiche ed economiche della società”, dal Piano Lucas dei lavoratori per trasformare l’impresa che produceva armi, entrata in crisi, in una impresa sociale, a Porto Alegre e al bilancio partecipativo – e in Italia potremmo aggiungere la Gkn. Sufficiente? Certamente no.

Blakeley elenca una serie di azioni necessarie e urgenti, tutte sempre in nome della vera democrazia: democratizzare lo stato e le imprese e de-mercificare la vita umana, democratizzare la finanza e le relazioni internazionali; democratizzare la tecnologia (ma qui anche Blakeley cade nel solito errore di tutti i socialismi, credere che ci possa essere un uso democratico o socialista della tecnica, dimenticando che per sua essenza autotelica e sistemica la tecnica non può essere democratica, per la contraddizione che non lo consente); e soprattutto democratizzare il futuro, cioè tornare ad essere, uomini e società, soggetti generativi della storia umana (“dove tutti abbiano il potere di determinare le condizioni della propria esistenza”), smettendo di essere oggetti della storia del capitalismo. Ma per “sovvertire e, perfino, estirpare, il capitalismo”, scrive Blakeley, bisogna superare la convinzione, “radicata in milioni di persone, che cambiare le cose sia impossibile”. Quello che dobbiamo fare “è sbirciare attraverso le crepe che cominciano ad aprirsi all’interno del capitalismo, per intravedere la libertà che ci aspetta dall’altra parte”. Ma di nuovo: ne siamo capaci, se tanta è la pervasività del capitalismo, diventato non solo un sistema economico, ma una forma di vita individuale e sociale – la norma e la normalità del nostro mal-vivere?

Le teorie di Blakeley – come ammette lei stessa – non sono nuove, ma l’Autrice ha pensato “che fosse importante mettere insieme queste teorie in una tesi semplice e convincente”. Usando la storia del capitalismo per confermarla. Per chi volesse provare a sovvertire ed estirpare il capitalismo, il suo saggio forse non basta, ma aiuta.

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