Han Kang, autobiografia bianca
Imbiancare
È in primavera che alla scrittrice coreana Han Kang viene l’idea di scrivere un libro sul colore bianco, convinta che “il processo di scrittura sarebbe stato rigenerante, trasformandosi esso stesso in qualcosa di simile a un unguento bianco applicato su un gonfiore, come una garza stesa su una ferita. Qualcosa di cui avevo bisogno”. In prima battuta, stende una lista provvisoria di oggetti bianchi: sale, neve, ghiaccio, luna, riso, onde, magnolia nuda, uccello bianco, risata bianca, foglia bianca, cane bianco, capelli bianchi, sudario. Lungi dal ridursi a una qualità astratta, il bianco s’incarna nei 65 oggetti descritti che costituiranno il Libro bianco pubblicato nel 2016. Si tratta di superfici molto diverse, di oggetti manufatti e fenomeni naturali, solidi e gassosi, accomunati solo dalla tinta cromatica in cui in genere si danno a vedere.
Difficile definire un testo sfuggente, per il tema come per la scrittura, come il Libro bianco. La prosa asciutta che tiene il reale a una spanna dal suolo si cristallizza a volte in immagini nitide; altre volte non fissa nulla nero su bianco, come se le parole rischino di essere spazzate via al primo colpo di vento – in modo simile alle tracce nere lasciate dalle scarpe della scrittrice sulla neve. Con una prosa perfettamente aderente al bianco, Kang procede per brevi passaggi, dando al libro una natura episodica. Tanto spazio è lasciato al bianco della pagina. Nell’insieme, siamo davanti alla distillazione poetica di una bevanda, a seconda dei casi cremosa come il latte o torbida come l’acqua di un fiume in piena.
Di certo queste pagine ariose, in cui il bianco è allo stesso tempo il soggetto del libro e la sua materia, il suo contenuto e il suo contenente, si presentano come un’autobiografia per frammenti.
Apprendiamo infatti che Kang vive momentaneamente in una città straniera che, mai nominata, capiamo in corso d’opera trattarsi di Varsavia. Qui soffre di una leggera insonnia (le notti in bianco!) e di un’emicrania invalidante che manda all’aria le attività quotidiane. Ma qui la percezione del tempo si fa più acuta: “Sento in modo distinto che ogni inspiro prolunga la mia esistenza, istante dopo istante”. In un appartamento che non è il suo, distesa sul divano-letto del salotto nella penombra, si mette all’ascolto del tempo anziché provare a prendere sonno. Fissa le ombre disegnate dagli alberi sul muro bianco e pensa che, nell’oscurità, alcuni oggetti sembrano bianchi.
Sul filo di questa testimonianza, non sorprende che il primo oggetto bianco che incontriamo sia la porta metallica arrugginita della sua abitazione temporanea. Il giorno dopo acquista un barattolo di vernice bianca e un largo pennello piatto, passando una mano di vernice e coprendo anche le macchie dei muri causate dalle infiltrazioni d’acqua. Come il colore comincia a seccarsi e a mostrare i passaggi del pennello, passa un’altra mano di vernice finché le “cicatrici” (così le chiama) della porta scompaiono. Che sia un espediente letterario o meno, quando esce di casa per verificare il risultato, dal cielo cadono fiocchi di neve.
È così che il bianco s’insinua nel suo soggiorno polacco, non come un colore a sé stante o legato alla pittura, come m’illudo prendendo in mano il libro ma, al contrario, come una sostanza coprente che cancella, ripara, muta le apparenze e ha il potere magico di far tornare il mondo a uno stato precedente. Imbiancare come riportare a zero, annullare con un gesto anti-storico. Non diversamente da quella luce accecante che investe la scrittrice quando sale su un palco e rende invisibili gli spettatori, quegli spettatori in attesa, c’è da immaginare, di ascoltarla parlare dei suoi libri. Immersa nella campana di luce, il resto della sala diventa oscuro come le profondità marine.
Scomparire
Tuttavia l’aspetto più intimamente autobiografico del Libro bianco non sta nel soggiorno a Varsavia, nei tempi morti e solitari tipici di ogni soggiorno all’estero, ma in un evento traumatico che Kang apprende dalla madre. Affiora in diversi passaggi del Libro bianco, come se questa storia debba essere diluita, nell’incapacità della pagina di contenerla.
All’ottavo mese di gravidanza la madre, allora appena ventitreenne, è sola in casa, in un villaggio remoto dove il telefono più vicino è a venti minuti di cammino. Inaspettatamente avverte le doglie; non resta che gestire da sola il parto prematuro, improvvisato come meglio può tra la perdita delle acque e le contrazioni sempre più ravvicinate. Sterilizza le forbici nell’acqua bollente, prepara una coperta bianca e linda per fasciare la neonata, taglia il cordone ombelicale. E soprattutto la stringe a sé sussurrandole di non morire. Osserva i suoi occhi scuri nei rari momenti in cui li spalanca, osserva il volto, “bianco come una torta di riso a mezzaluna”. Ma la neonata non ce la fa e due ore dopo la nascita muore, troppo debole persino per piangere, che era l’unico modo a sua disposizione di farsi sentire.
La madre resta a letto, coricata su un fianco, col bébé tra le braccia mentre lo sente raffreddarsi col trascorrere delle ore. Ha male ovunque, le palpebre gonfie e chiuse, non diversamente dai neonati per cui il mondo ha una voce prima che un colore.
Il giorno dopo è sabato e il villaggio è ancora più silenzioso del solito; il marito esce con una pala e un fagotto sulle spalle, che seppellisce sulla collina sul retro dell’abitazione. In quell’istante la madre ha un fremito all’altezza del petto: dal seno cadono gocce di un liquido che, chiaro e giallastro all’inizio, diventa sempre più bianco latte.
Non è l’unica immagine legata alla mortalità, se pensiamo al cane bianco che Kang perde quando ha sei anni e di cui, ammette, ricorda solo il giorno della sua scomparsa; da allora non ama i cani e smette persino di accarezzarli. O alla magnolia piantata in memoria di due amici dell’università scomparsi troppo presto. O alle nuvole che passano sopra il tempio buddista Unju dove sono conservate le ceneri della madre, al cospetto di una statua di Buddha scolpita sulla superficie di una roccia, dove i monaci recitano ogni giorno i nomi dei trapassati.
“Aveva letto che in alcune lingue indoeuropee il vuoto (blank), il bianco (blanc), il nero (black) e la fiamma (flame) avevano la stessa origine. Delle fiamme bianche vuote”.
Ma nel bianco c’è anche vita, come nell’aria condensata che esce dalla bocca e ha una qualità bianca – prova provata del nostro essere vivi: “La nostra vita si diffonde nell’atmosfera, emanazione visibile e biancastra. Un miracolo”. O nell’immaginazione di Kang che, prendendosi gioco del trascorrere naturale del tempo, immagina che sua sorella maggiore sia sopravvissuta: cosa le avrebbe detto? come l’avrebbe rimproverata? cosa avrebbero fatto assieme? Consapevole che sarà Kang, anni dopo, a bere il latte che le era destinato…
Ma anche la Storia collettiva più traumatica fa capolino nel Libro bianco. In visita al museo comunale, osserva una foto presa da un aereo militare americano nella primavera 1945, con Varsavia rasa al suolo dopo il bombardamento del 1939. Un filmato d’epoca mostra la città ricoperta da un sottile strato di neve, ma non appena l’aereo scende a bassa quota, il manto bianco immacolato è squarciato dalle orme peste degli incendi.
È un momento decisivo nella narrazione perché, di colpo, il lettore europeo che sono, pronto a localizzare il rifugio dell’autrice in qualche angolo del sud-est asiatico, è catapultato back home, al cuore della storia europea novecentesca. Ed è un momento decisivo anche per Kang, che realizza come la città in cui si è trasferita non ha più di una settantina d’anni. Che nell’aria aleggino ancora i fantasmi, si chiede la scrittrice coreana formatasi in un Paese in cui tali presenze pullulano nella cultura popolare? Che le farfalle siano le anime dei trapassati? Di certo le vittime della guerra sono commemorate dalle candele, diversamente dal suo Paese che preferisce ignorarle. Facile qui pensare alle vittime dell’insurrezione di Jeju con le sue 30000 vittime civili nel 1948-49, descritto in Non dico addio (Adelphi 2024) e alla repressione della rivolta popolare contro la dittatura di Chun Doo-hwan col massacro di Gwangju nel maggio 1980, descritto in Atti umani (Adelphi 2023).
Tuttavia non c’è spazio per le atrocità del XX secolo nel Libro bianco, che avanza per tocchi di pittura ben assestati, come in un dipinto di Robert Ryman. Così alla pagina successiva vediamo Kang girare per la città alla ricerca del riso glutinoso, difficile da trovare in Polonia. Qualcosa però accomuna le sue vicende personali e la grande Storia: entrambe parlano di perdita e di distruzione: la scomparsa di una figlia e, anni dopo, della mamma, la scomparsa di una città e della sua comunità.
Ridere
In un libro sul bianco scritto a Varsavia dove, come l’avevano avvertita, nevica molto, non poteva mancare la neve, l’elemento naturale più presente, al punto che sembra di sentirla cadere ai margini delle pagine. Dalla prima gelata ai fiocchi di neve che imbiancano i capelli dei passanti, dai cristalli di ghiaccio visibili su un cappotto scuro per pochi secondi alla neve bagnata che ci ricorda la sua transitorietà, la neve è presente persino nel nome della scrittrice: “suo padre aveva inserito nel suo nome di battesimo la sillaba sôl con l’ideogramma che indica la ‘neve’”.
“Né neve né pioggia. Né ghiaccio né acqua”, questa sostanza è metamorfica e facilmente plasmabile, se seguiamo lo snocciolarsi delle immagini bianche nel libro: la prima gelata bianca non ancora calpestata sembra sale fino, lo stesso che brucia una ferita aperta; la neve ricorda poi la luna e le nuvole, le tende bianche in pizzo, il cotone sulla pelle, la Via Lattea, immaginata attraverso il plumbeo cielo di Varsavia, dove fa buio alle quattro e gli unici riverberi che filtrano dalla finestra del suo appartamento provengono dall’illuminazione notturna di un’industria. Fino al fazzoletto che cade dal bucato su un balcone: “Un solo fazzoletto vagava alla deriva, il più lento di tutti, fino a sfiorare il suolo. Come un uccello che piega le ali a metà. Come un’anima che cerca a tentoni un posto dove rifugiarsi”.
E ancora gabbiani, gru, uccelli e farfalle bianche; zollette di zucchero, denti, radiografie, brina che ricopre il vetro della finestra; una pomata e una compressa per lenire ferite cutanee e interne. Non manca il sasso bianco modellato dalle correnti marine, raccolto su una spiaggia, messo in tasca una volta tolta la sabbia, chiuso in un cassetto, tirato fuori per sentirne la gravità sul palmo di una mano: “se potessimo materializzare il silenzio in un oggetto molto piccolo e compatto, al tatto ricorderebbe questo sasso”.
In un paio di casi il bianco rimanda a giochi linguistici coreani intraducibili in italiano e che, ammette Kang, esistono solo nella sua madrelingua: un cane (kae) che non abbaia? Foschia (an kae). O “ridere bianco”: sforzarsi di ridere quando si è sofferenti, provare a separarsi da qualcosa che alligna nel nostro animo, come se il movimento stesso che scatena la risata abbia capacità espettoranti che rimestano nel profondo del nostro animo.
Kang insegue i ricordi che la assillano o, nei casi più benigni, le fanno compagnia nella città straniera, le cui voci non rimandano a nulla di familiare. Come se si fosse rifugiata in se stessa e non all’estero per una delle tante residenze di scrittura, di quelle da cui si esce trionfanti col manoscritto in tasca.
Stupirsi
Per Kang il bianco nutre lo sguardo ma è anche la nebbia che confonde la frontiera tra terra e cielo – “Ma possiamo dire bianco per descrivere questa enorme massa d’acqua in movimento, in cui ogni particella è carica di un’umida e fredda oscurità, e che ondeggia silenziosamente tra il mondo di quaggiù e il mondo di là?”. È anche lo sguardo della neonata che nasce con gli occhi chiusi, accecata dal mondo extra-uterino.
Il Libro bianco è diverso da Bluets di Maggie Nelson (Nottetempo 2023) o da Autobiografia del Rosso (La nave di Teseo 2020) di Anne Carson in quanto Kang non dialoga con altri autori; è diverso da “Arte” (Adelphi 2018) di Yasmina Reza con la sua mordente e cinica ironia o da approcci più filosofici come Grigio. Il colore della contemporaneità (Marsilio 2023) di Peter Sloterdijk. Forse è più vicino alle pagine autobiografiche di Chroma. Un libro sui colori (Ubulibri 1995) di Derek Jarman.
Di certo Kang non contempla il bianco del cotone, del sonno, dell’igiene, della nudità, della moda e altre sue declinazioni moderne descritte da Michel Pastoureau in Bianco. Storia di un colore (Ponte alle grazie 2022). Se Kang considera il foglio bianco, mancano i paesaggi innevati della pittura o le sue tante declinazioni astratte che, da Malevic a Robert Ryman, hanno scombussolato la storia della pittura occidentale nel XX secolo.
A emergere, dal e attraverso il bianco, è lo sguardo dell’autrice, un modo di guardare il mondo, la sua porzione bianca, senza paraventi culturali. Solo così il dolore, attenuato da un manto di neve, non è più pungente, solo così la sofferenza è stemperata da una zolla di zucchero o, semplicemente, dal trovarsi, nelle pagine del Libro bianco, tra due fenomeni naturali.
E soprattutto solo così lo sguardo di Kang mantiene qualcosa di genuino davanti agli oggetti e ai fenomeni in cui s’imbatte, consapevole che il bianco non è immacolato come appare. E che, non diversamente dal processo stesso della scrittura, non dà adito ad alcuna cromoterapia. Uno sguardo, quello di Kang, che, infine, non sa risalire alla ragione del suo stupore. Come in quella tempesta di neve a Seoul, “incapace di comprendere cosa diavolo potesse essere questa cosa così fredda, così ostile. Questa fragilità che svanisce, questo peso opprimente della bellezza” – Ah, straziante meravigliosa bellezza del creato!
Nota sul libro
Non leggendo il coreano, mi sono servito delle versioni inglese e francese: Han Kang, The White Book, tr. Deborah Smith, Portobello Book 2017, Granta Books, 2018; Blanc, tr. fr. Jeong Eun-Jin et Jacques Batilliot, Le Serpent à Plumes, 2018. Disponibile, oltre che in inglese e in francese, in spagnolo, catalano, portoghese, tedesco, olandese, finlandese, ceco, turco, rumeno, arabo, giapponese, taiwanese, vietnamita, c’è da sperare che la versione italiana del Libro bianco sia presto tradotta da Adelphi.
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