Robert Altman, l’America e noi
Appartengo a quella generazione che ha scoperto Robert Altman partendo dalla fine. Vale a dire dal suo ultimo film, Radio America, che in Italia uscì nella tarda primavera del 2006. Un film testamentario, si disse all’epoca, chiuso fra le mura di un teatro di Saint Paul, Minnesota, nel cuore del Midwest americano, in cui si registra l’ultima puntata (falsa) dello spettacolo radiofonico (autentico) “A Prairie Home Companion”. Qualche mese prima, Altman aveva ritirato l’Oscar alla carriera, una sorta di riconoscimento pre-postumo che l’Academy aveva finalmente deciso di concedere al meno addomesticato e addomesticabile fra i registi della sua generazione (e non solo). Nell’occasione, prendendo alla sprovvista un po’ tutti, Altman aveva per la prima volta parlato pubblicamente del trapianto di cuore a cui si era sottoposto oltre dieci anni prima, prendendosi una breve pausa nel bel mezzo delle riprese di un'altra pellicola, Kansas City (1996). Così, nonostante avesse appena compiuto ottantuno anni (era nato il 20 febbraio 1925, esattamente un secolo fa), poteva a giusto titolo dire di avere un cuore molto più giovane: “Ho sempre pensato che un premio del genere significasse la fine della tua carriera, e invece mi rimangono altri quarant’anni”.
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Malgrado non gli mancassero né l’ironia né la voglia di lavorare, Altman sapeva che quello avrebbe potuto essere per lui (come poi in effetti fu) “l’ultimo spettacolo”. “Quando parlava del film”, ricordava Garrison Keillor, sceneggiatore e interprete, “sottolineava che l’argomento era la morte. Era cosciente della propria mortalità e quando scrissi la sceneggiatura utilizzai delle cose dette da lui”. In Radio America, l’angelo della morte ha il volto e l’impermeabile bianco di Virginia Madsen, accreditata nei titoli di coda come “Dangerous Woman”: attraversa il film con l’aria trasognata, figura minacciosa e insieme pietosa che accompagna il vecchio Chuck Akers (L.Q. Jones) all'ultimo appuntamento galante, toglie di mezzo un bigotto e gelido “tagliatore di teste” (Tommy Lee Jones), e, nell’ultima scena, sorprende i superstiti dello show seduti a convegno in un diner, ancora intenti a parlare di lavoro.
Quando la “Dangerous Woman” passò a trovarlo, in una stanza d'ospedale a Los Angeles, il 20 novembre di quello stesso 2006, anche Altman era al lavoro: Hands on a Hard Body, il suo progetto successivo (avrebbe dovuto iniziare le riprese nel febbraio 2007) era ispirato a una gara automobilistica organizzata nel 1997 dalla Nissan a Longwiew, nel Texas, dove ventiquattro persone, sotto gli occhi di TV e giornali di mezza America, dovevano tenere ben salde le mani su un pickup e sperare di essere le ultime a mollare la presa. Niente da fare: non ci sarebbero più stati film di Altman, e a noi sarebbe toccato ripartire da capo.
Prima di Radio America, per quanto mi riguarda, c’era stato relativamente poco, e tutto recuperato disordinatamente fra le ultime VHS e i primi DVD. Di M*A*S*H* (1970), primo grande successo altmaniano, con tanto di Palma d’Oro a Cannes, ricordo il volo iniziale degli elicotteri, nove anni prima di Apocalypse Now: solo che al posto della Cavalcata delle Valchirie c’era Suicide is Painless (musica di Johnny Mandel, parole del figlio tredicenne di Altman, Mike); e invece del cuore di tenebra del Vietnam c’era un gruppo di sbrindellati chirurghi militari che, in mezzo alla melma e al sangue della Corea, non facevano altro che parlarsi addosso, mentre intorno a loro degli altoparlanti sparavano a tutto volume hit musicali del calibro di Tokyo Shoeshine Boy.
Poi c’era stato Il lungo addio (1973), sul quale gravava, a detta di molti chandleriani ortodossi, una pesante accusa di “tradimento”: quello perpetrato da Altman ai danni del mito di Philip Marlowe, che qui ha la faccia e le movenze impacciate di Elliott Gould. Salvo scoprire, vedendolo, che non solo il film era più chandleriano che mai (all'inizio delle riprese, Altman aveva distribuito a tutta la troupe Parola di Chandler, indimenticabile silloge postuma di lettere e articoli del grande scrittore), ma parlava di tante altre cose: di un uomo che ha perso di vista il suo gatto, di uno scrittore hemingwayano fragile e alcolizzato che non riesce più a tenere in piedi la propria mascherata viriloide, e soprattutto di un’amicizia sacrificata sull’altare dell’avidità e dell’ipocrisia. Subito dopo – o forse nello stesso periodo, chissà: vado a memoria – era stata la volta di Anche gli uccelli uccidono (1970, traduzione tipicamente settantesca e abbastanza idiota dell’originale Brewster McCloud), apologo lisergico e cartoonesco sulle contraddizioni e i velleitarismi di certa controcultura USA, alla maniera dei fumetti di Robert Crumb: Altman lo considerava “uno dei film più creativi e originali” che avesse mai fatto, ma ebbe prevedibilmente scarsa fortuna al debutto.
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Non ricordo se vidi allora anche I compari (1971), singolare rivisitazione del western (“corrotto”, fu l’aggettivo utilizzato da John Wayne), che all’epoca mandò fuori dai gangheri qualche custode della classicità western a ogni costo, e che con la sua neve, i borbottii di Warren Beatty (“Voglio dirti una cosa, c’è della poesia in me. È così… ma non ho intenzione di scriverla, non sono un uomo istruito…”) e le canzoni di Leonard Cohen, divenne rapidamente uno dei miei film preferiti in assoluto. Sicuramente più tardi vidi California Poker (1974), fra i lavori più belli e meno ricordati dell’Altman di quegli anni: un film sulla vita come caso e come gioco (d’azzardo), con Gould che, stavolta in coppia con George Segal, trotta fra Los Angeles e Reno, fra un incontro di boxe e l’ippodromo, un’improvvisata partita a basket e una tesissima finale di poker. Ma prima c’erano stati i grandi affreschi antropologici di Nashville (1975) e di America oggi (1993, che in originale si intitola Short Cuts ed è tratto dai racconti di Raymond Carver), che costituiscono nella memoria della maggior parte degli spettatori il lascito più duraturo del cinema altmaniano: visti insieme, quasi contemporaneamente, in barba a ogni cronologia.
Non vorrei indulgere troppo nell’autobiografismo, che è un espediente sempre un po’ volgare; ma il fatto è che quelli erano gli anni delle vere scoperte, quelle che in un modo o nell’altro ti segnano per sempre – e credo proprio di non essere il solo a essere rimasto segnato da Altman. Forse perché i suoi film assomigliavano molto alla vita, con le sue svolte imprevedibili, il parlarsi addosso, il “caos fertile” (l'espressione è di Robert Benayoun) di una quotidianità in cui tutti sono a modo loro protagonisti e non c’è una figura che conti più dell’altra. Durante la retrospettiva altmaniana del 2011 al Torino Film Festival (forse una delle ultime grandi retrospettive che il festival abbia dedicato a un regista), poteva succedere di entrare in sala alla proiezione del mattino e di assistere al debutto attoriale di Michael Murphy (uno degli attori-feticcio di Altman, che attorno a lui costruirà nel 1988 la miniserie tv Tanner ’88 e nel 2004 il sequel Tanner on Tanner) due file dietro lo stesso Murphy, e vederlo sorridere di se stesso mentre bisbigliava qualcosa a Keith Carradine seduto di fianco a lui. Il film sembrava davvero tracimare fuori dello schermo, per proseguire per le strade e altrove: proprio come accadeva in Nashville, dove Elliott Gould e Julie Christie venivano coinvolti, quasi loro malgrado, in una scena del film; e come sarebbe dovuto accadere nella versione cinematografica di Ragtime di E.L. Doctorow, se Altman fosse riuscito a concretizzare il progetto.
“È come se in ogni film si dicesse: ‘Vieni a guardare dalla mia finestra, il modo in cui si vede da lì è il modo in cui vedo io le cose. Ed è molto verosimile che non sia più reale della realtà che si vede da qui. Vieni comunque a guardare dalla mia finestra’…”: così Altman spiegava a David Thompson il suo personalissimo punto di vista sul cinema (ma anche sulla vita, il mondo e tante altre cose). E noi guardavamo a bocca aperta da quella finestra che Altman spalancava sull’America. Perché, come ha scritto ormai un quarto di secolo fa Gianni Amelio, “parlare di Robert Altman è guardare dritto nello schermo il cinema americano degli ultimi quarant’anni. Nessuno, meglio e più di lui, ha sentito e raccontato il proprio paese dentro e fuori dal mito e dai generi”.
La dichiarazione di Amelio apriva Il lungo addio. L’America di Robert Altman, il libro di Emanuela Martini uscito nel 2000 che qualche anno dopo sarebbe diventato la mia personalissima guida al cinema altmaniano e che qualcuno mi auguro vorrà ristampare prima o poi. Leggendolo, si scopriva che dietro il sonoro a sedici piste di Nashville e il gusto per l’improvvisazione attoriale c’era molto altro. In gioventù, Altman si fa le ossa come filmmaker realizzando una sessantina di documentari industriali per una compagnia cinematografica della sua città natale, Kansas City; tenta poi la carta del cinema di finzione con The Delinquents (1957), ma l’insuccesso lo spinge verso la televisione, dove per oltre un decennio (1958-1968) lavora sui set più disparati, da Alfred Hitchcock presenta a Bonanza.
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Il successo inaspettato di M*A*S*H* arriva quando Altman ha già 45 anni: decide di sfruttarne il più possibile l’onda lunga per ottenere dagli Studios ormai in crisi (film come Il laureato e Easy Rider hanno dato il via alla New Hollywood) il credito necessario per poter sviluppare in libertà i propri progetti. Ci riuscirà almeno fino a Nashville, in un crescendo di ambizioni e mezzi a disposizione, lanciando nuovi nomi (uno per tutti: Shelley Duvall) e mettendo a soqquadro il sistema dei generi canonici. Poi, con la graduale ristrutturazione industriale degli Studios, gli spazi di manovra si restringono sempre più: Altman riesce a piazzare ancora qualche zampata da maestro (Un matrimonio, Popeye, Health, ma anche un film piccolo e perturbante come Tre donne), ma i dieci anni successivi (1982-1992) lo vedono soprattutto lontano da Hollywood, in Europa, intento a sperimentare inedite interazioni fra il video, il teatro d’avanguardia e il cinema. E pazienza se i risultati (Jimmy Dean, Jimmy Dean, Streamers, Secret Honor) sono altalenanti: come dirà lo stesso Altman, “nella maggior parte dei film la gente si preoccupa di migliorare quello che è stato fatto, invece di osare quello che forse non è mai stato fatto”.
A pensarci bene, avrebbe anche potuto finire così. Con un cineasta che, dopo un decennio sfolgorante, alle soglie dei sessant’anni viene messo da parte dagli Studios e per la critica diventa soprattutto “il ricordo di un autore” (Martini dixit), destinato a un rapido oblio. Un finale di partita comunque meno doloroso di quello del suo coetaneo (erano nati a un giorno di distanza l’uno dall’altro) Sam Peckinpah, schiantatosi di droga e di alcol nel 1984. La distanza che separa i due destini è in fondo la stessa che passa fra il dolente disincanto dell’uno (lo stesso del “suo” Marlowe: “It’s ok with me”) e la furibonda aspirazione alla purezza dell’altro: Altman è il primo dei moderni, Peckinpah, malgrado tutto, rimane pur sempre l’ultimo dei classici.
Così può accadere che, per un fortunato concorso di circostanze, sfruttando i vuoti e gli spazi marginali che una Hollywood rinvigorita e rintronata dalla decade reaganiana gli mette a disposizione, il sessantacinquenne Altman, mentre cerca invano i finanziamenti per il futuro America oggi, si veda recapitare un copione (non memorabile) che lo sceneggiatore Michael Tolkin ha tratto da un suo romanzo. È il punto di partenza per I protagonisti (1992), uno dei grandi film sull’industria cinematografica di quegli anni, che pian piano finisce per accogliere nel cast mezza colonia hollywoodiana, viene mandato a Cannes, vince il premio per la miglior regia, e, al ritorno negli Stati Uniti, ottiene persino una candidatura agli Oscar.
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Nell’ultimo decennio del ’900, quando in molti credevano che la Storia (con la maiuscola) fosse finita, Altman è stato uno dei pochi a ricordarci che le cose non stavano proprio così, come sempre spalancando davanti ai nostri occhi la sua finestra. Lo scenario prediletto era ancora l’America, il “gigantesco teatro” nel quale, come aveva ben capito Cesare Pavese molti anni prima, si recitava “con maggiore franchezza che altrove il dramma di tutti… come su uno schermo gigante”. Il teatro di Nashville, per esempio, dove ai piedi di una copia (che esiste realmente) del Partenone, una folla accorsa per il comizio-concerto in favore di Hal Phillip Walker, fantomatico candidato alla presidenza per il “Replacement Party”, intona come ipnotizzata “It don’t worry me”, mentre l’omicidio che si è consumato poco prima (ma la vittima non è un politico, come vorrebbe un’antica tradizione USA, bensì la star del country Barbara Jean, interpretata da Ronee Blakeley) viene rubricato al rango di incidente, “solo un po’ di rosso”. E prima ancora l’Astrodome di Huston, da cui tenta inutilmente di spiccare il volo il Bud Cort protagonista di Anche gli uccelli uccidono, finendo invece per schiantarsi al suolo fra gli applausi di un pubblico festante, misteriosamente materializzatosi sugli spalti. Vent’anni più tardi il palcoscenico sarà quello di Los Angeles, dove, incorniciate fra un volo di elicotteri disinfestatori e una violentissima scossa di terremoto, si aggirano le esistenze dei personaggi di America Oggi. Ma con il crollo del socialismo reale e la fine della guerra fredda, la patria del circo Barnum è nel frattempo diventata grande quanto il mondo intero: come nel memorabile incipit di Pret-à-porter (1994), dove un impeccabile Marcello Mastroianni sembra uscire da una boutique Dior sulla Quinta Strada di New York, mentre un movimento di macchina ci rivela che siamo a Mosca, a due passi dalla Piazza Rossa.
Forse è per questo che l’ultimo Altman appare più a suo agio con la raffigurazione del passato, per quanto per nulla idealizzato e anzi impietosamente mostrato nella sua realtà di diseguaglianza di classe e di bieco sfruttamento (Kansas City, Gosford Park, 2001), o nel confronto diretto con la tradizione americana (il “gotico del sud” del bellissimo La fortuna di Cookie, 1999); mentre gli agganci con il presente, anche quando sono mediati dalla griglia dei generi (il thriller per Conflitto d’interessi, 1998; la commedia per Il dottor T e le donne, 2000), appaiono talvolta goffi o addirittura stonati.
Qualcuno parlerà di ritorno “mancato”, altri di fuoco di paglia, altri ancora di delusione. La verità è che anche per uno come Altman, maestro della polifonia e della realtà restituita nel proprio caotico farsi, il mondo si era già fatto troppo vasto per essere raccontato con due o tre macchine da presa. Meglio, a questo punto, tirare le somme nello spazio delimitato e sicuro del palcoscenico (così sarà, prima ancora che nell'estremo Radio America, nel penultimo The Company, 2003), ben consapevoli che la fine è soltanto una parola prima dei titoli di coda, e spesso neppure quella. “Personalmente non conosco liete fini”, spiegava Altman a Thompson. “L’unica fine che conosco per certo è la morte, e di solito non è associata alla felicità. Ci sono finali ambivalenti, ma per me si tratta comunque solo di un punto d’arresto… Per me è solo una pausa. Il fiume continua a scorrere”. È vero. L’America cambia, il cinema passa, ma Robert Altman resta.
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