Le cose che durano. I Racconti di Daniele Benati
Ci sono scrittori che concludono un libro una volta per tutte, e altri invece che non cessano mai di riscrivere la propria opera. Daniele Benati appartiene a quest’ultima categoria.
Una premessa che a molti potrà sembrare scontata, ma necessaria a spiegare come mai la raccolta intitolata semplicemente Racconti, uscita da Aliberti pochi mesi fa, non è una mera riproposta dell’ormai introvabile Un altro che non ero io, pubblicato dallo stesso editore nel 2007, bensì qualcosa di diverso. Autore dall’orecchio fine (non per niente è uno degli scrittori italiani contemporanei che più si sono impegnati nella pratica del reading, oltre a poter vantare un passato non trascurabile come paroliere e critico musicale), Benati è molto attento alla resa acustica di un racconto. Al pari di un jazzista, tratta i propri testi alla stregua di altrettanti standard, sui quali ritornare ancora e ancora, per estrarne sempre nuovi suoni, nuove sfumature, nuovi sentimenti. È sufficiente confrontare l’indice della nuova edizione con quello della precedente per capire, senza possibilità di equivoco, che questo volume di Racconti che abbiamo fra le mani è in effetti un altro libro. Un libro con una sua fisionomia riconoscibile, che esegue nuovamente, e in qualche modo ripensa, il progetto che stava alla base della prima edizione, rendendolo ancor più chiaro e definito.
Nel dare alle stampe Un altro che non ero io, infatti, Benati aveva sottolineato l’eterogeneità dei testi che lo componevano e l’estensione cronologica della raccolta (circa un ventennio, dal 1987 al 2007), che copriva l’intero arco della sua produzione narrativa, dal primo Long Vehicle Scania all’ultimo (all’epoca) Grigiopoli. Un aspetto, questo, che faceva della raccolta anche una sorta di auto-bio-bibliografia. L’altra caratteristica, su cui insisteva la brevissima nota dell’autore alla prima edizione, in parte ripresa nel nuovo volume, era quello di volerli presentare a coppie, sulla base di somiglianze e rime interne.
Il motivo del doppio, che attraversa l’intera opera narrativa di Benati – pensiamo soltanto all’invenzione di quella sorta di “doppio” autoriale che è l’eteronimo Learco Pignagnoli – si trasformava così in un elemento strutturale vero e proprio. E non è un caso che Benati da lì sia partito per ripensare da cima a fondo la sua jam session. Ecco quindi saltare un racconto (Boiardi) e una coppia (“Due con lo stesso nome”), sostituiti da una sezione completamente nuova (“Due racconti con interferenze”); mentre il racconto orfano (il già ricordato Grigiopoli, qui ribattezzato Città grigia) viene accoppiato al nuovo Helsinki nella sezione “Due città chissà dove”, introdotta per l’occasione. Infine, per rendere ancora più compatto il disegno complessivo, Benati ha eliminato anche l’appendice della vecchia edizione, che ospitava l’atto unico Voci nel buio.
Ma le modifiche non riguardano soltanto il piano strutturale. Per Benati, lo abbiamo detto, la letteratura è ascolto, è musica. Per questo tutti i racconti sono stati sottoposti a una più o meno intensa opera di riscrittura, soprattutto per eliminare manierismi e mimesi del parlato che a distanza di diciassette anni potevano suonare forzati o fasulli. I protagonisti di questi Racconti, infatti, amano parlare, anche se il più delle volte non sanno bene quale sia la storia che vogliono raccontare, né a chi la stanno raccontando. Sono voci, appunto. Addirittura può capitare che non ricordino nemmeno il proprio nome: “Dicono te Boiardi non ti preoccupare”, protesta il protagonista del racconto Città grigia, “vedrai che ti troverai bene, mentre che io invece mi preoccupo. Non mi chiamo neanche così”.
Pur fra dubbi e paure, i personaggi di Benati non rinunciano a raccontare la loro storia, e in qualche caso persino a riraccontarla, come accade a Deraglia (nomen omen), protagonista del racconto Un altro che non ero io. Dopo che una rivista di viaggi gli ha respinto il reportage di un viaggio in Utah, subodorando un resoconto di pura fantasia, Deraglia si intestardisce a voler dimostrare che lui in Utah ci è andato davvero. Per farlo, decide di ripercorrere quel primo viaggio, tappa dopo tappa, a distanza di appena sei mesi. Salvo scoprire con stupore che laggiù nessuno sembra ricordarsi di lui: “Nessuno l’aveva notato, nessuno l’aveva visto, nessuno gli aveva mai parlato e c’era quasi da farsi venire il dubbio che quel suo primo viaggio se lo fosse davvero inventato di sana pianta, come avevano sospettato i redattori della rivista. Se non fosse però che a quel punto si poteva sospettare che anche loro, i redattori, se li fosse inventati lui”.
Più i personaggi cercano di afferrare i pochi brandelli di realtà che capitano loro fra le mani, più si rendono conto di annaspare nel vuoto e nell’incertezza. Perché è così che funzionano le storie di Benati: quando si parte con una destinazione ben precisa, si può star certi che inevitabilmente si finirà fuori strada. Oltre che instancabili raccontatori, infatti, i personaggi di questi racconti sono anche degli infaticabili viaggiatori: e tutto sommato tra perdere il filo del discorso e perdere la meta non c’è poi una grande differenza. È quel che capita appunto ai due adolescenti di Long Vehicle Scania, che partono dalla provincia emiliana alla volta della fantomatica Isola di Perkinson (!) dove Bob Dylan dovrebbe tenere un concerto, ma poi si smarriscono nei pressi di Oberhausen, “nel vicolo più cieco d’Europa”. Ma può anche succedere, come nel racconto Perdigiorno, che un passaggio dato controvoglia a un autostoppista in un giorno di grande calura si trasformi pian piano, senza che il protagonista se ne accorga (e il lettore con lui), in un viaggio nel proprio passato.
La circolarità si affianca dunque al doppio e allo smarrimento, dando vita a una sorta di triade tematica che, se da un lato contribuisce a legare fra loro tutti i racconti della raccolta, sottolineandone una volta di più la forte coesione interna, dall’altro non può non rimandare ad altre opere di Benati, come Silenzio in Emilia e Cani dell’inferno. E proprio da Silenzio in Emilia proviene Fine non finire, significativamente posto in chiusura. Pensato inizialmente come episodio conclusivo del libro d’esordio, ne è stato poi escluso sia per l’insolita lunghezza (in questa edizione tocca le sessanta pagine), sia per la marcata intonazione autobiografica. Anzi, rispetto alla versione apparsa nel 2007, in cui era lo stesso protagonista a narrare la vicenda, Benati ha spostato la narrazione alla terza persona: quasi a voler mettere un filtro ulteriore fra sé e la materia del racconto, per allontanare ogni sospetto di autobiografismo.
In Fine non finire la voce di Benati armonizza in un unico sound i motivi conduttori del libro. Il protagonista, certo Prandi, è un docente di italiano in una Università irlandese (un’attività effettivamente svolta da Benati stesso), piuttosto a disagio in un ambiente accademico estraneo e ostile. Una sera si accorge di essere perseguitato dalle apparizioni di un uomo con un vecchio pastrano addosso, che gli ricorda in modo inquietante suo padre, portato via da un tumore alcuni anni prima. In un’atmosfera sempre più sospesa tra realtà e allucinazione, guidati dall’ubriacone Bernie Murphy (personaggio realmente esistito, che alcuni notabili del posto avevano insignito per burla del titolo di “Sindaco” della città), Prandi e suo padre finiranno per intraprendere un viaggio sulle orme di San Brandano, il santo navigatore il cui viaggio nell’Oltretomba costituisce uno dei primi testi della letteratura irlandese.
Anche questo viaggio, come tutti quelli raccontati nel libro, li condurrà dove meno se lo aspettano. Non nel Paradiso prefigurato da San Brandano, infatti, ma su uno stradone dall’aria familiare, tale e quale alla via Emilia del primo Novecento. Nella sorpresa, Prandi fa appena in tempo a riconoscere suo nonno, mentre questi, con una forma di parmigiano, sta uscendo da un cascinale per recarsi insieme a un amico a chiedere la mano di quella che sarebbe poi diventata la nonna di Prandi. “Ma erano troppo lontani per poter essere raggiunti”, conclude Benati, “e lui si era fermato per guardarsi intorno; poi, voltandosi indietro, aveva visto un uomo che veniva pian piano lungo la strada con un vecchio pastrano indosso”. E la storia può ricominciare daccapo.
Nel panorama della produzione italiana contemporanea, la scrittura di Benati rappresenta una sorta di unicum, non assillata com'è dall'incombere dell'attualità, né tantomeno dall’invadenza dell’io. I suoi modelli (se di modelli si può parlare) sono alti, spesso altissimi, ma soprattutto inattuali: Flann O’Brien, Thomas Bernhard, Samuel Beckett, la tradizione nordamericana della short story, che Benati conosce a fondo (la sua ultima fatica, uscita da poco sempre per Aliberti, è la cura e la traduzione di Uomini senza donne, la seconda raccolta di Ernest Hemingway, che comprende capolavori come I killer, Colline come elefanti bianchi e In un altro Paese). Forse anche per questo è destinato a un successo limitato, perlopiù di stima, e certo non aiutato dalla scarsa diffusione dei suoi libri. Eppure sono pochi, pochissimi, gli scrittori italiani di oggi che riescano, come fa Benati, a descrivere così bene il nostro spaesamento, la nostra difficoltà a stare nel mondo – in questo mondo, che è poi il nostro presente.
C’è di più: in un momento in cui allo scrittore si chiede soprattutto di essere un corpo sacrificale, da “dare in pasto” a sostenitori e detrattori in cerca di legittimazione, Benati – lo ha ricordato Michele Ronchi Stefanati su “doppiozero” – rimette al centro del discorso la scrittura, intesa come “attività minima e onesta, pratica e artigianale”. Non è dunque soltanto per ragioni affettive che ad aprire la silloge di questi Racconti siano “Due omaggi” dedicati rispettivamente al fratello maggiore Davide, apprezzato pittore contemporaneo, e a Luigi Ghirri, amico fotografo scomparso troppo presto. Dietro le situazioni comiche, a tratti irresistibili, che costellano i due racconti (i commenti della famiglia Benati davanti alle prime prove pittoriche del figlio, la disastrosa trasferta ad Amsterdam di Ghirri in compagnia del Benati maggiore), si fa strada un’idea etica del mestiere comune a entrambi gli artisti, che Benati non ha mai smesso di applicare al proprio lavoro di scrittore.
Parlando del fratello, che da molti anni realizza quadri dipingendo su fogli di una carta di riso piuttosto rara, che in un secondo tempo incolla su tela, Benati scrive: “A guardarla bene quella carta, con le sue tante venature e fatta a mano, sa d’antico. Non è come la nostra carta che sta lì bianca e piatta come la nostra società. La carta di riso nepalese sembra aver attraversato i secoli come due versi di Dante e aver resistito al tempo. Per questo è un buon supporto, dà la certezza delle cose che durano”.
“La certezza delle cose che durano”: la stessa che danno le pagine di Daniele Benati.