L’occhio quadrato di Alberto Lattuada

28 Dicembre 2022

Nel luglio del 1941 Alberto Lattuada ha 26 anni. Nel cassetto, una laurea in Architettura – conseguita su insistenza del padre Felice, compositore e insegnante di musica – e l’abilitazione a una professione che non eserciterà mai. Malgrado la giovane età, può comunque già vantare un curriculum piuttosto robusto: ha esordito diciottenne come critico d’arte sul quindicinale “Camminare…” (1932-34), messo in piedi da Alberto Mondadori con Mario Monicelli e altri amici, per poi passare, a partire dal 1938, sulle pagine di “Corrente” (inizialmente “Corrente di Vita Giovanile”), la rivista fondata da Ernesto Treccani e Raffaele De Grada, con una rubrica fissa, “Quadernetto”. Non ha mancato nel frattempo di occuparsi di cinema: dapprima (1935-38) per “Libro e Moschetto”, foglio del GUF milanese, in seguito (dal 1939) per testate più prestigiose come “Domus”, “Tempo” e “Lo Stile”.

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Alberto Lattuada nei primi anni ’40.

Dalla pagina al set il passo è breve: pochi mesi prima, nel 1940, Lattuada ha partecipato come aiuto regista alle riprese di Piccolo mondo antico, adattamento letterario (da Fogazzaro) diretto da Mario Soldati, e già si accinge al debutto in proprio, che avverrà l’anno successivo con un altro adattamento (da De Marchi, stavolta), Giacomo l’idealista. L’interesse per il cinema lo porta anche a preoccuparsi della sua sopravvivenza fisica, impegnandosi, con l’aiuto di alcuni amici e compagni di studi (Mario Ferrari, Luigi e Gianni Comencini, Luigi Rognoni) a salvare dal macero numerose copie di vecchi film, che andranno a costituire il primo nucleo della futura Cineteca Italiana. 

Come molti dei suoi coetanei, Lattuada manifesta più o meno apertamente la propria insofferenza verso il regime, benché da parte sua non si possa parlare ancora di un autentico impegno antifascista. Molto tempo dopo, in una intervista rilasciata per il volume Antologia della rivista “Corrente” (Guida, 1979) dichiarerà senza mezzi termini: “Eravamo tutti conniventi, tutti colpevoli per non aver ancora rovesciato il fascismo”. E dieci anni più tardi, interpellato da Antonio Costa per “Cinema&Cinema”, ribadirà: “Non era possibile fare un’opposizione aperta, e quindi ci indirizzavamo su temi come l’ebraismo, l’arte, il cinema, tutte quelle cose che colpivano una certa cultura nazionalistica”. A colpi di polemiche letterarie e artistiche, grazie anche all’opera maieutica di figure come Antonio Banfi e Raffaele De Grada, l’iniziale, confusa ostilità al regime di questi giovani intellettuali andrà mutando in ferma opposizione. Ricorderà ancora Lattuada: “La redazione di ‘Corrente’ era come un piccolo parlamentino: c’erano i cripto-comunisti, come Treccani e De Grada, c’erano i liberali, come Antonio Bini, e c’ero io che tendevo al socialismo già allora”. 

Accanto al cinema, al teatro e alla pittura, fra gli interessi che il giovane Alberto coltiva in quel periodo non si può non annoverare la fotografia. Una passione che condivide con l’amico e compagno di studi Luigi Comencini, insieme al quale si esercita nel corso di lunghe passeggiate per le strade adiacenti a Porta Lodovica. “Avevo comprato una Rolleiflex e andavo in giro scattando delle foto”, ricorderà Lattuada. Sono immagini di una Milano minore, marginale, fatta di serrande abbassate, di rivendite di cianfrusaglie, di case diroccate e di edifici dismessi, dove l’ambiente urbano convive con quello naturale o al limite agricolo, generando contrasti talvolta stridenti. Da queste campagne fotografiche prenderà forma, in quel luglio del 1941, un volumetto dalla sovraccoperta verde, Occhio quadrato. Il titolo, che si dice scelto da Soldati in riferimento al formato delle immagini, raccoglie ventisei “tavole fotografiche” precedute da una breve introduzione dello stesso Lattuada, da un ritratto a matita eseguito dall’amico Fabrizio Clerici e da alcuni versi di Ernesto Treccani, che aveva voluto accogliere il libro nella serie d’arte delle sue Edizioni di Corrente (prezzo: 25 lire), a fianco di volumetti dedicati a Fontana, Birolli e Scipione. 

Un libro a suo modo “mitico”, rimasto pressoché un unicum, molto più spesso citato che letto (anche per la bassissima tiratura, che ne ha fatto col tempo una rarità per bibliofili), che oggi Antonello Frongia rilegge e analizza con attenzione, collocandolo attentamente nel suo contesto storico e culturale. Non solo: al corposo studio di Frongia, Fine della città. “Occhio quadrato” di Alberto Lattuada, l’editore Scalpendi affianca una riproduzione anastatica dell’edizione originale, quasi identica a quella del 1941. Un modo intelligente per dare al lettore e allo studioso gli strumenti necessari per verificare e confrontare in autonomia il percorso di ricerca con il suo oggetto. 

Un debutto non facile, quello di Occhio quadrato: “Per questo librettino”, spiegherà Lattuada a Costa, “fui chiamato dalla Questura di Milano. Un censore che si chiamava Criscuolo mi disse: ‘Come mai, Lattuada, mentre noi facciamo l’E42, i rinnovi urbanistici, vedete soltanto povera gente e muri scrostati?’. Gli risposi che la mia era solo una ricerca formale. Quando seppe che la tiratura non avrebbe superato le duemila copie diede il nulla osta alla stampa”. Un dialoghetto che potrebbe essere trasportato paro paro nel dopoguerra: lo sforzo democristiano a favore della ricostruzione ha preso il posto delle avveniristiche realizzazioni fasciste, ma lo sgomento di fronte agli “stracci” e ai “cessi” è rimasto identico. D’altra parte, dopo la caduta del regime sono molti i Criscuolo rimasti al proprio posto…

Vuoi per la tiratura esigua, vuoi per le circostanze difficili in cui vide la luce, gli studi su Occhio quadrato (e più in generale sul Lattuada fotografo) si contano davvero sulle dita di una mano. Frongia fa notare come persino Giuseppe Turroni, fra i primi e più attenti estimatori del regista, per il suo Nuova fotografia italiana (1959) aveva dovuto basarsi essenzialmente su fonti di seconda mano. Soltanto una decina d’anni più tardi Edoardo Bruno potrà consultare e analizzare con cura una copia del libro, cui dedica il primo capitolo della sua monografia su Lattuada (Lattuada, o la proposta ambigua, 1968); e ne dovranno trascorrere altri dieci per poter finalmente leggere, all’interno dei monumentali Annali della Storia d’Italia einaudiana (1979), una vera e propria storicizzazione di Occhio Quadrato, grazie al lavoro del co-curatore dell’opera, Carlo Bertelli (l’altro era, manco a dirlo, il mitico Giulio Bollati), che per le immagini non esita a rivolgersi a Lattuada in persona. Una storicizzazione peraltro ancora imperfetta: le fotografie presenti nel testo non soltanto sono spesso riquadrate, tradendo così il formato originale, ma talvolta neanche corrispondono a quelle effettivamente pubblicate nel volume del 1941. Distrazioni da imputare con ogni probabilità allo stesso Lattuada; il quale comunque dovette riscoprire con piacere questo suo passato di fotografo. Tre anni più tardi, infatti, sarà proprio lui ad affidare alle cure di Piero Berengo Gardin una selezione di un centinaio di fotografie (molte delle quali ricavate per la prima volta dai negativi originali) per due mostre e un libro, destinato a diventare un testo di riferimento: Alberto Lattuada Fotografo. Dieci anni di occhio quadrato 1938/1948, edito da Alinari nel 1982.

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Altrettanto complesso è ricostruire le fonti d’ispirazione a cui il futuro regista attinge per il proprio lavoro. “Le sue esplorazioni milanesi”, scrive Frongia, “sembrano procedere senza immediati modelli di riferimento”. Di certo non sembrano convincerlo le osservazioni di Turroni, che vedeva nel lavoro di Lattuada una sorta di epigonato nostrano dei fotografi “sociali” del New Deal rooseveltiano (Dorothea Lange, Walker Evans); né tantomeno quelle successive di Berengo Gardin, secondo il quale Occhio quadrato annuncerebbe “la scoperta del neorealismo e la scoperta del vero paesaggio italiano”. Osservazioni che ci appaiono oggi più figlie dell’epoca in cui furono scritte (gli anni Cinquanta ormai post-neorealisti, gli anni Ottanta di Ghirri e del Viaggio in Italia), che non di un attento studio del contesto in cui Lattuada si trovò a operare. 

All’interno di questo approccio “empirico e sperimentale”, secondo Frongia si possono comunque individuare dei possibili modelli: rotocalchi come “L’Italiano” di Longanesi o “Tempo” dell’amico Mondadori, che Lattuada ben conosceva; la fotografia “nuova formula” di Federico Patellani e i reportage sociali di Lamberti Sorrentino; le composizioni fototestuali di Giuseppe Pagano (L’architettura rurale italiana, 1936) e dell’Almanacco letterario Bompiani curato da Cesare Zavattini, cui collabora tra l’altro Comencini; la recensione di Giulia Veronesi, apparsa su “Corrente” nel 1939,  al volume di Walker Evans American Photographs, uscito l’anno prima negli Stati Uniti; le immagini di Evans che, sul quindicinale “Panorama. Enciclopedia delle attualità”, illustravano l’articolo di Giansiro Ferrata America, ultima jungla (1940). Oltre, ovviamente, ai film di René Clair, di Pabst, di Dreyer, ma anche di Henry King, puntualmente recensiti dallo stesso Lattuada su “Domus”. Un insieme di riferimenti alquanto eterogeneo, risultato di eclettismo più subito che praticato con cognizione di causa, basato per forza di cose sui materiali che riuscivano a trapelare tra le maglie della censura fascista.

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G. Pagano, G. Daniel, “L’architettura rurale italiana”, 1936.

L’aspetto più innovativo dello studio di Frongia non riguarda tuttavia l’immagine in senso stretto, quanto la ricostruzione del contesto urbano in cui matura la ricerca fotografica di Lattuada. Dopo l’approvazione del nuovo piano regolatore del 1926, vinto da Portaluppi e Semenza, la Milano degli anni Trenta si presenta come un gigantesco cantiere a cielo aperto. Il tessuto urbano delle aree centrali viene sventrato con l’apertura di nuovi assi stradali, s’inizia la copertura dei navigli: esigenze di circolazione e di “igienizzazione”, certo, ma anche ideologiche, col “piccone risanatore” che disegna i contorni della nuova Milano fascista. I cambiamenti sono profondi e coinvolgono vaste aree della città, generando discussioni e dibattiti che trovano spazio anche sulla stampa, nelle pagine milanesi del “Corriere della Sera”. Da una parte c’è chi esalta incondizionatamente l’opera modernizzatrice del regime, dall’altra c’è chi manifesta una certa nostalgia per le vecchie case e i vecchi quartieri (a cominciare dal malfamato Bottonuto, che fra le altre cose aveva ospitato nei propri vicoli la culla del fascismo nascente, il “covo” mussoliniano di via Paolo da Cannobio). 

È una polemica per certi versi tutta interna alle logiche della cultura fascista, divisa fra tradizione e modernizzazione, “Strapaese” e “Stracittà”. Eppure, osserva Frongia, a rileggerli oggi i toni di molti articoli dell’epoca appaiono spesso “più consoni al referto di un’archeologia del presente che ai canoni della prosa giornalistica. Nei casi più interessanti, questo paesaggio della trasformazione diviene un microcosmo complesso e intrinsecamente moderno di oggetti e frammenti, pieni e vuoti, geometrie e rotture”, in cui il piccone “diviene l’agente di una generazione infinita delle forme che […] costituiscono il nuovo orizzonte instabile e provvisorio della vita moderna”. 

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Tavola 1. “Ex gasometro”.
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Tavola 25. “Bastioni”.

Lattuada come Benjamin? Ovviamente no. I suoi riferimenti, ancora una volta, vanno cercati molto più vicino, negli scritti apparsi su “Corrente”: scritti in cui è centrale, come rileva Frongia, il tema della città come “oggetto pulsante della narrazione”, e in particolare nei suoi spazi marginali, “dove la solidità delle case e dei palazzi sembra cedere il passo al dominio della natura e il mondo sembra allargare le proprie maglie”. Per questo, malgrado Lattuada non manchi di polemizzare (anche sulla scorta del magistero di Giuseppe Pagano) con l’estetica monumentale del regime, ribattezzando sarcasticamente “divoratore” il piano regolatore, nelle tavole fotografiche di Occhio quadrato è pressoché assente quella retorica nostalgica che negli anni successivi verrà associata (stavolta in chiave antifascista) alle immagini della “Milano che fu”. L’occhio di Lattuada registra, sembra posarsi sulle cose e subito girare lo sguardo altrove. Non cerca la “bella immagine” (con buona pace di coloro che ancora oggi si ostinano a etichettarlo come “calligrafico”), né giudica apertamente: lascia che il suo punto di vista emerga in controluce, magari a una seconda e più attenta lettura. “La fotografia è documento”, scrive Lattuada nell’introduzione al volume, “è un punto di vista che implica giudizio e selezione dei fatti fissati nella loro apparenza essenziale”.

In fondo non aveva del tutto torto, quando difendeva il proprio lavoro davanti alla censura parlando di semplice “ricerca formale”. La sua è a tutti gli effetti una ricerca poetica più che ideologica, stilizzata più che piattamente naturalistica. L’introduzione in questo senso parla chiaro, esortando a vedere gli uomini “con gli occhi dell’amore” e al tempo stesso sottolineando il tentativo di “tener vivo il rapporto dell’uomo con le cose”. I maestri di Lattuada sono Munari, oggetto di una serie di divertenti fotografie rimaste all’epoca inedite e pubblicate soltanto nel volume Alinari del 1982; e Manzù, non a caso convocato direttamente in Occhio quadrato (tavola numero 24: Lo studio), unico ritratto in mezzo a tanti spazi e volti del tutto anonimi. Due artisti-artigiani, dunque, con un forte gusto per la manipolazione dei materiali, dotati di una vena fantastica che continuamente travalica, per eccesso o per difetto, il mero dato di realtà. 

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Tavola 24. “Lo studio” (Giacomo Manzù).

Se nel dopoguerra alcuni vollero guardare al libro di Lattuada come a una sorta di precursore del neorealismo, forse è soltanto perché non furono in grado di osservare con attenzione la sequenza di sei foto (nn. 18-23) scattate alla fiera di Sinigallia, che insieme costituiscono quasi un libro nel libro. La prima (il bimbo in primo piano fra ruote e telai di bicicletta, mentre sullo sfondo un uomo, sfinito, si abbandona al sonno su un giaciglio improvvisato) presenta un’immagine di emarginazione nella quale è ancora possibile avvertire una pallida eco del realismo sociale di Lange e Evans. Ma già nella seconda, con la prevalenza delle carabattole a buon mercato sulla figura umana rifilata in secondo piano, Lattuada si spinge un po’ oltre il realismo. E così la successiva, in cui la ricorrente presenza del manichino, a mo’ di evocazione surrealista-dechirichiana, trova il suo pendant nell’uomo seduto sulla seggiola, che a un’occhiata più attenta rivela un piede rattrappito (una dinamica che Lattuada ripropone nella tavola numero 22, L’ottico, dove il soggetto, seduto di spalle, nasconde alla vista l’amputazione di una gamba). Finché gli oggetti non si impadroniscono di tutto lo spazio (tavola 21), massa informe senza vita che esclude ogni possibile elemento umano dal paesaggio – anticipando di fatto, in una sorta di contrasto “pieno-vuoto”, l’ultima tavola del volume, Fine della città, con la natura che si reimpossessa del rudere di una casa all’estrema periferia della metropoli. Viene quasi in mente un altro regista-cinefilo come Georges Franju, con i suoi objets trouvés utilizzati come cornice straniante per l’allucinato resoconto sui macelli parigini di Le sang des bêtes (1949).

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Tavola 18. “Fiera di Sinigallia”.
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Tavola 20. “Fiera di Sinigallia”.
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Tavola 21. “Fiera di Sinigallia”.

Lattuada surrealista, dunque? Anche in questo caso, meglio non correre troppo. Per quanto la macchina da cucire in bella vista nella tavola numero 23 (Fine della fiera) possa sembrare una allusione a Lautréamont, la confusione fra uomini e manichini ricorda semmai lo Zavattini degli anni Trenta, recensito con favore da Lattuada sulle pagine di “Libro e moschetto”. Allo stesso modo, nel brulichio confuso degli oggetti si può leggere soprattutto l’influenza di Bosch, “peccatore surrealista” i cui dipinti avevano folgorato il futuro regista appena due anni prima (Goya, Bosch, Mantegna sulle rive del Lemano, “Corrente”, 1939).

Le origini del neorealismo, che era assai meno monolitico di quanto voglia la vulgata, affondano anche qui, in questa strana coesistenza fra un reale colto nel suo farsi e la seduzione verso l’eccentrico e il fantastico. Nel dopoguerra, Gianfranco Contini parlerà di un “surreale senza surrealismo”, di un “magico senza magia”, che nasce dalla concretezza del mondo reale più che dalle latebre dell’inconscio. Una definizione che sembra quasi echeggiare le parole di Lattuada nell’introduzione: “Anche là dove sono rappresentati oggetti materiali, il punto di vista non è quello della pura forma, del gioco della luce e dell’ombra, ma è quello dell’assidua memoria della nostra vita e dei segni che la fatica di vivere lascia sugli oggetti che ci sono compagni”. 

Anche per questo, Frongia non manca di sottolineare la sapiente e tutt’altro che casuale costruzione del volume. Occhio quadrato è qualcosa di più di una successione di tavole fotografiche: è “un testo visivo che chiede di essere ‘letto’ nella concatenazione delle immagini e nel suo sviluppo complessivo”, organizzato come una sorta di passeggiata “impossibile” (a un certo punto fra le immagini di Milano fanno capolino un paio di scorci di Venezia, peraltro quasi indistinguibili da quelli milanesi) di un flâneur munito di macchina fotografica. Una costruzione che nasce dal “ritmo visivo” impresso dal montaggio in sequenza delle ventisei fotografie: non per niente Lattuada aveva affidato l’impaginazione di Occhio quadrato a un amico architetto non digiuno di cinema come Aldo Buzzi (purtroppo “saltato” insieme con tutto il colophon originale nella ristampa anastatica: unica pecca di un’edizione per il resto ammirevole). Una lezione cui Lattuada, una volta passato dietro la macchina da presa, cercherà sempre di tener fede: “Mai innamorarsi di un’immagine anche se squisita, anche se conquistata a fatica”, dichiarerà: “tagliarla con le forbici e buttarla via, se è di impedimento al ritmo”. 

Il libro: Antonello Frongia, Fine della città. “Occhio quadrato” di Alberto Lattuada, 322 pp.; Alberto Lattuada, Occhio quadrato. Ventisei tavole fotografiche (ristampa anastatica dell'originale, Corrente 1941), 70 pp.; 2 voll. in cofanetto, Scalpendi 2022, euro 45,00.

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